Lo vedevo dal terrazzo della casetta che affittavamo per le vacanze estive al mare, in Calabria. Erano sere terse, all’orizzonte, sul mare, compariva come dal niente un cono scuro. Era il profilo di Stromboli, il vulcano: un’ombra lontana che mi portava in un altro luogo, sull’isola di un’altra regione, in un mondo remoto di potenza geologica, terra viva, sogno e fantasia. Chissà perché amavo quel vulcano senza esserci mai stata. Sull’infinita spiaggia di ghiaia chiara nei dintorni di Vibo Marina e Pizzo Calabro raccoglievo pietre pomici, erano bianche e galleggiavano, erano buffe. I miei mi raccontavano di esplosioni vulcaniche, di gas e pietra, di correnti marine. Erano le pomici di Stromboli e delle Eolie molto probabilmente, ed erano anche i mattoncini lego tutti particolari delle mie costruzioni balneari: castelli, scritte, oggetti che diventano tesori da custodire per l’inverno.

Il mio pezzetto di ossidiana di Lipari su “Viaggio al centro della terra”

Un po’ più grandicella riuscii ad approdare alle Eolie: vidi Stromboli dal vivo, feci un bagno con la maschera in quelle spiagge magiche, dal fondale nero, mangiando una granita all’anguria che mi raccontava già la Sicilia, anche se al molo mi attendeva l’aliscafo per la Calabria. Scoprii le casette bianche arrampicate sul fianco del vulcano – era un concetto strano, quello di trovarsi sopra un’isola che era però un vulcano -, San Vincenzo e le piante di buganvillee, la bellezza magica di quel posto. E così vidi anche Vulcano, la sua puzza – perché è quella la prima cosa che colpisce un dodicenne approdato sull’isola – il suo colore giallo, le sue pozze di fanghiglia e il ribollire della terra. Per giungere infine a Lipari, il “capoluogo” di questo grappolo di isole che, prime isole mediterranee della mia vita, conservo nel cuore come uno dei posti più belli e incantevoli dove un giorno tornare a respirare bellezza e natura. A Lipari – erano gli anni Novanta, era tanto tempo fa – ai bordi della strada un venditore distribuiva qualcosa: un pezzo a mille lire. Mille lire, sì, quelle con la Montessori: tanto costò al mio super prozio tuttologo che adoravo il pezzetto di ossidiana che mi regalò come un tesoro e che, a distanza di decenni, conservo ancora gelosamente sulla mia libreria. Pietra nera, vetro freddo condensato tra venature di vulcano che, oggi, mi ricorda con affetto immenso quel posto, quella situazione, il libro che lessi poco dopo, acquistato alle bancarelle di Pizzo Calabro. Era Viaggio al centro della terra di Jules Verne. Il mio fascino inesausto per i vulcani è nato lì, ne sono sicurissima.

Lo sono perché questa estate ho avuto la bellissima occasione di leggere Draghi sepolti, viaggio scientifico e sentimentale tra i vulcani d’Italia, di Sabrina Mugnos, edito da Il Saggiatore. Amore alla prima pagina, costante fino all’ultima, dentro un viaggio esaltante tra autentici tesori di natura che fanno del nostro paese uno dei posti più pericolosi del mondo, nonché più vivaci – geologicamente parlando – e affascinanti. Insomma, mi sono chiesta perché mai io non abbia deciso di studiare geologia, e proprio come accade a tanti bimbi diventati oggi adulti, il cui amore per i dinosauri resta immacolato anno dopo anno, ho riscoperto quel turbinio di fascino, paura e curiosità che rende i vulcani ai miei occhi di ieri e di oggi uno dei fenomeni naturali più interessanti di sempre. Mi sono quindi lasciata condurre da Sabrina Mugnos, spezzina e dunque mia corregionale, in un viaggio che mi ha raccontato tanta scienza ma che, insieme, mi ha passato anche immagini, calore umano ed emozioni intense. Ed è questa la ricetta segreta di Draghi sepolti: un viaggio sentimentale, oltre che scientifico, due facce della medaglia che non potrebbero non viaggiare insieme.

Viaggio lungo la via del fuoco italiana

Il viaggio lungo la via del fuoco italiana inizia là, sulla cima esplosiva d’Europa, a Muntagna, l’Etna. E già, con tutto quello di meraviglioso, unico ed emozionante che viene raccontato nel capitolo siciliano di apertura, io potrei fermarmi e covare desideri e letture per mesi e mesi, alimentando di sempre nuova lava la caldera del mio mal di Sicilia.

3300 metri di altezza, l’Etna è il “mantello infuocato dal tetto d’Europa”, un vulcano fimmina, A muntagna, Idda, così viene chiamato dalla popolazione che lo rispetta e lo ama, pur sapendo di vivere su una potenziale bomba. Sabrina Mugnos è attenta a descrivere non solo le caratteristiche fisiche del vulcano, ma quel silente legame emotivo, viscerale, con chi lo vive o l’ha scoperto per studio e per passione. L’Etna è “il braciere più alto del vecchio continente”, non un cono e basta, ma una montagna in perenne movimento, dove tutto cambia a ogni eruzione: crateri, roccia che sgorga, fumo e lapilli, paesaggi che si modificano, interi nuclei abitativi la cui posizione e vita sono condizionate dalle attività del vulcano. Succede da secoli e secoli.

L’autrice parla dell’eruzione del 2002, una delle più distruttive degli ultimi decenni. La ricordo anche io: per pura casualità quell’estate ero in Sicilia, andammo sull’Etna con mille riguardi e attenzioni proprio a causa dei recenti fenomeni. Ricordo le fumarole, la parete del rifugio schiacciata da un cumulo di materiale vulcanico nero, la funivia divelta, il paesaggio brullo, resti di animali bruciati, terra che scotta. “Camminarci intorno è emozionante, in bilico tra gli inferi, immersi in densi vapori mefitici, borbottii e i crepitii”, scrive l’autrice. Fu affascinante: neanche a dirlo, lasciai lì un pezzetto di cuore.

Il nostro Tirreno è una delle aree a maggior complessità del pianeta. Da diversi milioni di anni, e a causa di una concomitanza di fenomeni, è in fase di apertura: detta in modo più semplice, si tratta di un piccolo oceano in evoluzione che, per tale ragione, presenta profondità abissali. I suoi fondali hanno cominciato a lacerarsi un paio di milioni di anni or sono, permettendo al magma di risalire in superficie e formare edifici vulcanici.

C’è tanta splendida Sicilia in questo libro: isola mediterranea, storia e civiltà, culture stratificate e geologia frizzante. Ci sono a Muntagna, Iddu – Stromboli – e le sue sorelle Eolie, un intero arcipelago che è un ribollire, e ancora gli abissi del Mar Tirreno, le sorprese del Canale di Sicilia tipo l’isola Ferdinandea, che sale e scende quando pare a lei. Terra che si disfa e si rigenera, terra viva, fuoco e lapilli, incanto e terrore: tutto quello che rende la Sicilia, nelle sue indomabili contraddizioni, una terra che ogni volta mi commuove e mi conquista, non c’è niente da fare.

Fuoco e bellezza: vulcani distruttori affascinanti

C’è uno snodo ricorrente in Draghi sepolti e nella ricerca-reportage della Mugnos, ed è la contraddizione che si intreccia all’esistenza stessa dei vulcani in mezzo a noi, ovvero come possano stare insieme vita e morte sulle pendici di coni distruttori che tuttavia sono le fucine della terra nuova. Fuoco e bellezza, una “natura più intima, viscerale e letale”, come scrive l’autrice per giustificare la propria sete di vulcani. È così, io credo: il vulcano attira, incanta, spaventa. Tanta scienza, sì, ma tanta emozione, e fatalismo da vendere, ovunque ci si trovi, seppure sia costantemente necessario monitorare, ricordare, non abbassare la guardia. I vulcani sono lì, alcuni più attivi, altri silenti da secoli, ma pur sempre vivi, là sotto.

«Se la danza delle placche terrestri potesse esprimere sentimenti, l’area del nostro Mediterraneo sarebbe la più passionale di tutte: qui, i tumulti geologici non si sono limitati a lacerare la roccia, ma l’hanno accartocciata e stritolata modellandola come creta in un caleidoscopio di paesaggi differenti. È da questa fucina che sono fuoriusciti vulcani dalla personalità così singolare da aver creato ciascuno una propria tipologia comportamentale, entrata nel gergo scientifico. Ognuno di essi seduce con le sue forme, il suo temperamento e i suoi panorami sorprendenti. Ognuno è capace di farti innamorare cento volte e ogni volta in modo diverso. Su tutti loro ho lasciato in ostaggio un brandello di cuore, riscattato al mio ritorno a ogni risveglio: perché alcuni vulcani sonnecchiano e si destano di frequente come noi; e, quando chiamano, i vulcanologi devono fare in fretta e furia le valigie e correre da loro per ascoltarli. Non si commetta mai l’errore di darli per scontati, però, perché per quanto la scienza potrà mai conoscere di loro, rimarranno sempre uno tra i fenomeni naturali più imprevedibili del pianeta. Seguire le loro tracce significa percorrere un sentiero d’amore, scottante come solo le emozioni più intense, capace di dialogare col nostro essere più intimo».

Bellezza e devastazione: lapilli a pioggia che rendono unici i panorami, colate irrefrenabili e aria tossica che stermina – pensiamo solo a Pompei –, i vulcani sono sempre fonte di doppiezza, di contraddizione, di tensione. Non avrebbero potuto non ispirare artisti, poeti, scrittori. Così ecco, tra un’escursione e una spiegazione scientifica, tra un’uscita in barca e una cena in allegria, i faraglioni di Aci Trezza e Giovanni Verga, e Stromboli che non potrebbe non ricordare il “mio” Jules Verne, e ancora la ginestra del povero Giacomo Leopardi malato, mentre contemplava il Vesuvio. E a me viene in mente la sabbia nera di vulcano che accoglie Vanina Guarrasi, la vicequestore della polizia, sotto l’Etna dei romanzi di Cristina Cassar Scalia. Il vulcano è anche letteratura: come potrebbe non essere così, vista l’enormità e bellezza dei suoi fenomeni?

Gas, magma, roccia e fenomeni esplosivi che assumono i nomi dei vulcani italiani da quanto queste attività sono caratteristiche. Ebbene: abbiamo una quantità di vulcani straordinaria, e una qualità di fenomeni tali da rientrare nel gergo scientifico con specifiche emissioni, esplosioni e attività vulcaniche, per esempio la stromboliana o la vesuviana. Io sono affascinata nel profondo da tutto questo, anche perché la geologia ha tempi dilatatissimi, e dunque il percorso di ricerca di questo libro torna indietro nel tempo, a distanze abissali giù nel mare, nelle viscere della terra, ma anche nella linea del tempo. Il pianeta prima di noi, il pianeta per come si è trasformato permettendo a noi di essere qui. Ci siamo: ritorna il fascino.

Quel che si respira tra le righe dello straordinario viaggio tra i vulcani italiani non è solo questa meraviglia terrestre, ma tanta emozione umana, tanti legami. Sono quelli che l’autrice costruisce e intesse con colleghi, scienziati o esploratori incontrati lungo le visite ai vulcani. Viaggi che diventano avventure e che si stratificano come tappe di un percorso tutto umano, pareti colorate della propria professione, già bellissima di per sè. Non è solo geologia, è scoperta, storia, letteratura, gastronomia, insomma cultura, che spazia dalle antiche civiltà e da come, ahiloro, affrontarono terremoti, ceneri e distruzione vulcanica, da come tentarono di studiare e descrivere i vulcani.

E a tal proposito, è bellissimo – seppure inquietante – leggere della tragica eruzione del Vesuvio legata alla strage di Pompei dai testi latini di Plinio: c’è il terrore umano, quel fascino e sconcerto che prende ancora noi, oggi. Attualissimo: io lo trovo straordinario, davanti a Madre Natura restiamo incantati a secoli di distanza. Non a caso, l’autrice ricorda che “come vulcanologa sono abituata a tali scenari, ma come persona credo che non lo sarò mai, e che rimarrò sempre stupita di fronte a questa calma apparente, a questo quotidiano intessuto nel caos e nel tumulto di fiamme che si dimenano sotto, dopo aver frantumato la roccia”.

Sopra e sotto il Mediterraneo

Se potessimo svuotare l’intero Mediterraneo con un rubinetto, rimarremmo basiti dalle cicatrici degli innumerevoli e variegati tumulti geologici che lo hanno forgiato, molti dei quali tuttora in atto. A onor del vero è uno scenario riscontrabile in tutti gli oceani, ma le ridotte dimensioni del Mare Nostrum, alla mercé degli scontri di gigantesche placche che lo hanno forgiato, lo hanno reso particolarmente tormentato e affascinante per gli studiosi. Senza dimenticare la gestione del rischio legato all’intenso popolamento delle sue coste.

Stromboli è conosciuta come il “faro del Mediterraneo”: sappiamo tutti che ha dato recenti manifestazioni della sua vivacità, ancora verso luglio-agosto 2020, quando ha sputato nel cielo lapilli che hanno fascinosamente salutato il passaggio dell’Amerigo Vespucci nell’arcipelago. “La sua chioma lavica è l’unica luce che emette, e quella degli astri la sola che riceve – scrive l’autrice – Ma non solo. Stromboli è anche immune da qualsiasi frastuono, perché i sistemi di locomozione più evoluti sono piccole e silenziose macchinine elettriche”. Il vulcano vive ed è vissuto: inspiegabile fatto che tornerà come domanda lungo tutto il libro, dalla Sicilia al Vesuvio, fino a vulcani estinti in Lazio. Tuttavia, di Stromboli c’è la bellezza unica delle spiagge nere, delle stradine che si inerpicano, dell’esplosione di Mediterraneo che si respira tutta intorno. Sì, lo so: faccio le preferenze tra vulcani, ma se già adoravo questo posto, Draghi sepolti non ha fatto che ricordarmi quanto sia speciale.

Quest’isola è grande soli 12 chilometri quadrati, arriva a 926 metri, ma il vulcano ne conta 3000, tutti gli altri sono sotto la superficie marina dove, nei capitoli successivi, girovagando in barca con esperti (i mestieri della geologia e vulcanologia sono diversi e super intriganti: c’è chi studia le rocce di altri pianeti e chi quelle dei fondali, in sostanza cose che quasi nessuno può vedere. Non è straordinario?) Sabrina Mugnos ci porta alla scoperta di altre meraviglie del pianeta. Super vulcani quasi del tutto sommersi, silenti ma che, forse un giorno, si sveglieranno causando una vera catastrofe per tutto il bacino del Mediterraneo come lo conosciamo oggi. Ma state tranquilli: nessuno di noi vedrà mai una roba del genere. Si spera!

Sta di fatto che, tra la Sciara del fuoco di Stromboli che permette al materiale eruttato di scivolare in mare, tra le sorgenti sulfuree sottomarine, le pozze di Vulcano e l’acqua calda che in passato ha causato morie di pesci, vulcani sommersi e quant’altro, lo scenario subacqueo di quest’angolo di Mediterraneo è superbo. Come meravigliose devono essere le altre isole: Ginostra, e Alicudi e Filicudi, le più remote, quelle con un pugno di abitanti che, per stare lì, hanno elaborato tutta una loro speciale filosofia di vita. Del resto, vivere su un vulcano è vivere un luogo speciale: spesso il vulcano modifica le persone, incide sulle loro prospettive, spezza il cuore, e lo riempie di emozione nuova. I vulcani – o meglio alcuni di loro, e quelli siciliani maggiori sono così – hanno personalità: annunciano con l’attività la loro perenne presenza, e invocano rispetto da parte di chi li abita. Ci sono, e lo ricordano costantemente, entrando di fatto nel modo di vivere della gente.

Terra che genera terra

E poi c’è il Vesuvio, una “bocca scura spalancata verso il cielo, larga quasi mezzo chilometro e profonda fino a 300 metri: un’enorme voragine, buia come l’inferno”. Un vulcano che spaventa, con una storia davvero drammatica alle spalle ed eruzioni ripetute, violentemente, nei millenni e nei secoli. Se tutti ricordiamo bene Pompei, il fenomeno più violento e distruttivo del Vesuvio è del 1631 per quanto riguarda l’ultimo millennio. Lapidi e racconti lo ricordano, anche se oggi lo splendore del vulcano e del suo manto verde, troppo pieno di abitazioni purtroppo, sembra ricoprire un gigante sopito. Non sapevo, però, che anche durante la seconda guerra il Vesuvio si rifece vivo, sommandosi ai drammi del conflitto e danneggiando diverse strutture militari tra cui un aeroporto.

Oggi il vulcano si mimetizza bene, tanto che il ricordo del suo lato spietato si fa affievolendo. Eppure ci sono i ricordi scritti, le lapidi, gli avvisi. Chissà quando tornerà a far tremare la terra e a terrorizzare. Lo scenario è letale solo a pensarlo, e per questo gli esperti lo monitorano senza soste, pronti ad acchiappare un segnale che possa indicare il risveglio. Chi di voi, come me, segue documentari come Quark et similia, sa che esiste da tempo un piano nazionale di emergenza per l’evacuazione della popolazione che vive in quest’area. Mi ha fatto una certa impressione, in tempo post pandemico, leggere di zone rosse tra i comuni di Napoli e Salerno (parliamo comunque di 670mila abitanti che dovrebbero essere allontanati, una cifra enorme): mi hanno ricordato il significato dell’emergenza, la pericolosità, la necessità di arginare, fare cordoni, delimitare e segnare confini, si tratti di un nemico microscopico come un virus, o della terra che genera terra, portando devastazione implacabile per l’uomo. L’uomo e la natura: piccolissima o gigante non importa, è sempre lei che vince.

Per la sua densità abitativa, il Vesuvio resta dunque il vulcano più pericoloso del mondo, un altro primato italiano di cui non so bene se potermi vantare o no. Ma – tranquilli – è anche il vulcano più monitorato, e lo è dal 1800, dall’idea di Ferdinando II di Borbone di creare il primo osservatorio vulcanologico al mondo. La terra, in Italia, non ha mai smesso di dare manifestazioni potenti, anche ben prima che si potesse parlare di Italia (mi direte: ci vuole poco, siamo così giovani come nazione unita).  Per esempio: i Campi Flegrei continuano a muoversi da secoli, e forse sono collegati a un sistema ben più esteso che coinvolge tutta l’area vesuviana. E poi non sapevo che il Sacro Monte, in Piemonte, fosse un ex vulcano, risalente certo a centinaia di milioni di anni fa, prima della comparsa dell’uomo e, a dirla tutta, anche prima della formazione delle attuali Alpi. Eruzioni catastrofiche, vere rivoluzioni. Che in alcuni luoghi sono ancora in corso, un po’ come accade in Islanda, terra in perenne evoluzione, come ben descriveva Leonardo Piccione nel suo libro sui vulcani del grande nord.

Senza spostarci troppo, però, vi garantisco che dalla lettura di Draghi sepolti emerge con chiarezza la straordinaria mappa vulcanologica e geologica della nostra penisola gettata nel Mediterraneo e incastrata tra catene montuose. Siamo su una polveriera, questo è certo, ma abbiamo anche imparato molto bene a conoscerla, rendendo onore alla scienza, e alla poesia, e all’arte, e alla immensa bellezza che questi camini del pianeta manifestano in tutta la loro potenza. Questo libro di Sabina Mugnos coglie tutto questo intreccio in pieno ed è una vera meraviglia, non fatevelo scappare!

Il pianeta che ci ospita non è una semplice dimora che abitiamo, e i fenomeni naturali che lo caratterizzano non sono un suo arredo passivo. L’uomo e il suo ambiente sono legati come la trama e l’ordito di un tessuto, che diventa simbiosi quando questo intreccio è forte e sano. I vulcani incarnano perfettamente tale verità.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!