Sabato scorso a Sanremo ha piovuto più o meno tutto il giorno: correvo a prendere il treno dopo essere uscita dalla sala stampa Lucio Dalla e mi sono accorta che gli stencil di Dargen D’Amico disegnati sull’asfalto stavano svanendo. Gli stessi stencil che, solo pochi giorni prima, mi avevano dato il benvenuta nella città del Festival pronta alla sua settimana di riflettori e musica. A parte l’effetto di tristezza da fine evento stile Mary Poppins (ricordate i disegni di Bert sul pavimento, che si cancellano con la pioggia?), la scena mi ha ribadito con forza quanto sia decisivo questo gigantesco evento mediatico, e quanto ogni anno, ciclicamente, tendiamo a dimenticarci che cos’è davvero Sanremo, a ricascare in meccanismi, narrazioni e polemiche.

La settimana del Festival di Sanremo è e ha un tempo anomalo: impossibile trovare un momento per fermarsi e considerare, unire punti, costruire analisi. Ora che ho archiviato il prezioso pass “press” che mi dava diritto ad accedere alla sala stampa e al voto dei cantanti in gara, provo a tornarci su, a ricordi ancora caldi. Avevo già parlato della potenza comunicativa del Festival di Sanremo per due agenzie con cui collaboro, Bmc (vi porta su Linkedin) e RecTv, e non smentisco tutto quel che rilevavo. Poi è arrivato il treno supersonico di Sanremo 2024 e, tra quel che ho visto e i dati che sono stati presentati, mi è venuta qualche idea da approfondire.

l’opera di street art di John Sale a pochi passi dall’Ariston

Il Festival: la storia del nostro tempo

Se la strategia di brand di Dargen D’Amico è andata via in un colpo di pioggia, il rumore di tutto il resto è ancora sospeso nell’aria della post ubriacatura festivaliera alla quale, pare, ci siamo dati in 66 persone su 100. La media di share della manifestazione totale è infatti del 66%, un dato eccezionale, come spiegherò in seguito. Tra i miei appunti delle sei giornate passate al Palafiori in mezzo a centinaia di colleghi giornalisti ho trovato questa frase: “il Festival traccia tendenze, gusti, è la storia del nostro tempo”. L’avevo sottolineata, credo l’abbia pronunciata Federica Lentini, Vicedirettrice dell’Intrattenimento Prime Time di Rai. Parallelamente mi sono segnata anche un’altra frase, la scriveva un collega giornalista su Instagram: “è incredibile come in Italia il Festival di Sanremo riesca a fare notizia e occupare le prime pagine”. A discapito di altro, aggiungo.

C’è di che riflettere. Tutti guardano Sanremo (e tanti terranno a sottolineare che “io no, io ste schifezze non le guardo, preferisco andare al cinema”), qualcuno lo ama, lo attende, lo odia e lo guarda ugualmente, qualcuno addirittura si sposta verso Sanremo per assistere di persona alla festa della città e vedere i luoghi “mitologici” che affollano le immagini in tv. Sanremo è un evento – l’unico evento italiano, a eccezione dello sport – capace di monopolizzare. Specchio della società, si è soliti dire, anche se qualcuno ancora si stupisce, non comprende, forse finge di non cogliere la portata mediatica. Sanremo è un evento pervasivo: ha occupato qualsiasi canale per una settimana intera, ha fatto fare notte, perdere sonno, cercare canzoni da imparare e cantare. Sanremo, per come la vedo io, che non mitologizzo la città di Sanremo perché ci abito a fianco e la conosco piuttosto bene, è un evento che, piaccia o meno, dovremmo imparare a considerare da un punto di vista comunicativo. E se nel 1951, alla sua prima edizione, l’analisi poteva risultare piuttosto lineare, oggi si tratta di un fenomeno che intreccia tantissime dimensioni della comunicazione, altrettante professioni, strategie, livelli, interessi e contenuti.

Torniamo per un attimo a quel 1951, quando al Casinò di Sanremo fu organizzata la prima edizione, piuttosto in sordina, del Festivalone nazionale. Nei giorni del Festival 2024 al Forte di Santa Tecla, polo museale cittadino, era stata allestita una mostra molto interessante che legava i 70 anni della tv e i 100 anni della radio al Festival di Sanremo. Non è affatto una scusa, ma un gran bel percorso espositivo che ci porta in una sorta di manuale tridimensionale di storia dei media. Scorrono le vecchie radio giganti nate nel 1924, arriviamo ai primi televisori enormi degli anni Cinquanta e poi ai giorni nostri, con le televisioni digitali in ultra HD (nota a margine: il Festival 2024 è stato trasmesso per la prima volta in modalità 4k): è una freccia che punta sempre avanti e ci accompagna alla scoperta dell’evoluzione tecnologica. Su questo vettore si installa uno dei programmi più (il programma più?) longevi della storia della tv italiana: il Festival di Sanremo. Attenzione, c’è un’imprecisione: il Festival non nasce infatti in tv, ma in radio. Quell’edizione del 1951, e le tre seguenti, furono infatti trasmesse esclusivamente via radio perché la tv non c’era ancora. Arriverà nel 1954 e, perfezionata, sarà pronta per trasmettere l’evento canoro nel 1955.

Tecnologia e marketing: alle origini di Sanremo

Evento canoro che era nato sulla spinta di Amilcare Rambaldi, floricoltore ma anche personaggio attivo nel mondo culturale della Sanremo del dopoguerra (meriterebbe un libro a sé, ma ne parlo in 111 luoghi della Riviera dei fiori che devi proprio scoprire) per promuovere la città e il turismo a Sanremo. Suona qualche campanello? A me ne suonano tantissimi. Un Festival cha ha appena compiuto 74 anni è nato con l’obiettivo di portare gente in città in una stagione un po’ morta, tra il Carnevale e la primavera. Quante sono state le presenze a Sanremo in questo 2024? Non ho dati ufficiali ma la mia testimonianza diretta di folle, tornelli, sensi unici pedonali, imbottigliamenti in mezzo a resse di persone e binari di stazione pieni zeppi forse può valere ugualmente.

Ancora oggi Sanremo non è solo uno show televisivo (fattosi roboante, rispetto a quel 1951), ma una manifestazione con fortissime ricadute sulla cittadina della Riviera. Ancora oggi il Festival mette al centro i fiori (bouquet a tutti, fiori in sala stampa ecc) che erano cuore dell’economia del boom nel dopoguerra, e che oggi non hanno più la centralità economica, ma sono rimasti simbolo di una Riviera sognante, magica, un posto dove svernare e trovare il sole aspettando l’estate. Leggerezza, mi viene da pensare: la stessa delle “canzonette”, la stessa che era già in nuce in quella proposta di Rambaldi nel 1951, cioè invogliare le persone a spostarsi a Sanremo. Obiettivo raggiunto, verrebbe da dire.

A “Il festival si mostra”, a Santa Tecla, tra abiti di scena scintillanti e vecchi apparecchi radio del Museo della Radio e della Televisione della Rai di Torino ho letto una cosa che mi ha dato la conferma di quello che si è soliti dire, e cioè che il Festival di Sanremo è una strana creatura mitologica che si autorigenera sempre uguale eppure diversa a se stessa. Ho scoperto infatti che quell’edizione del 1951 andò piuttosto male: pochi spettatori dal vivo nel caffè chantant allestito al Casinò, poca ricaduta sensazionalistica. Però le radio trasmisero i venti pezzi in gara (pensare che a cantarli erano solo in tre: Nilla Pizzi, poi vincitrice, il Duo Fasano e Achille Togliani) e il pubblico iniziò a richiederle sempre di più. L’effetto? Le case discografiche di allora, che visto lo scarso successo non avevano nemmeno pensato ai dischi, furono costrette a stamparli in fretta e furia! Iniziava così, sotto tono, scaldata dalla voglia di canzoni e di leggerezza, l’epopea del marketing discografico che da sempre si accompagna a Sanremo.

Il murale dedicato a Raffaella Carrà da Jorit durante Sanremo 2024

Sanremo: città in festa

Come sa chi mi legge, vivo a pochi chilometri da Sanremo e conosco bene la zona: i miei genitori, che da ragazzini vivevano anche loro qui, mi raccontano della frenesia da Festival che negli anni Sessanta li portava a girare per Sanremo a caccia di autografi. Addirittura, esistevano dei libretti con i testi delle canzoni acquistabili in edicola, che erano ricercati con passione da tutti. Alla stregua, un po’, del numero speciale di Tv Sorrisi e Canzoni che in tanti compriamo oggi prima del Festival (spoiler: noi giornalisti lo compriamo in tanti, ci serve come riferimento per il lavoro successivo sul campo!). Niente di diverso da quello che accade oggi: gente accalcata fuori dagli hotel: niente autografi ma selfie magari, ma siamo lì, gente che viene da fuori zona attratta dal luccichio del teatro Ariston, gente che fa l’alba e fa notte (testimonianza viva di una ragazzina che si era svegliata alle 6 per vedere Fiorello in diretta. “Per quello si sveglia, per la scuola no”, commento della madre).

Mi sembra di poter dire che non è cambiato molto nella modalità. È però aumentato a dismisura il volume, e così la quantità, i fatturati, le ricadute. Parliamo di conseguenze materiali, ma teniamo anche in considerazione le conseguenze sociali e culturali: al crescere del pubblico, naturalmente, cresce la portata dei messaggi che lo show del Festival lancia, più o meno esplicitamente, più o meno involontariamente. Ecco perché parliamo di Festival come specchio della società, racconto dell’Italia e degli italiani, perché lo segue una grossa fetta di Italia che si ritrova – attenzione! – nel suo stesso ritrovarsi davanti alla tv per guardare Sanremo, e anche nel boicottarlo magari. Ecco perché si è soliti dire che per gli artisti il Festival è una vetrina: di quanto aumenta la popolarità dei brani di fronte a un meccanismo potentissimo di comunicazione quale è questo Festival?

L’introito pubblicitario dichiarato da Rai alla conferenza stampa di chiusura del Festival 2024 è stato di 60 milioni e 182 mila euro, ben al di sopra del record del 2023. La macchina, a quanto pare, continua ad alimentarsi. Lo fa con le stesse modalità con cui lo ha sempre fatto: da un lato c’è la tecnologia che evolve, e permette quindi al “prodotto” Sanremo di popolare nuovi canali, surfare sull’onda di nuove tecnologie, sviluppando nuovi linguaggi e nuovi contenuti (che, a quanto pare, sono e diventano lo specchio dell’Italia che cambia), e introducendo nuovo pubblico; dall’altro lato ci sono le case discografiche, che su Sanremo oggi pensano eccome a stampare i dischi, anzi edificano vere e proprie strategie totali (lancio album e/o tour, conferenze stampa, marketing…).

Brandizzare Sanremo per vivere ancora un po’ di festa

Siccome la gallina ha trasformato le sue uova in materia dorata e preziosa, le strategie di brand sono diventate parte integrante di Sanremo. Ci sono naturalmente gli sponsor che hanno permesso un introito vertiginoso come quello che citavo (viene da pensare che, forse, dovremmo smettere di dire “che spettacolo scandaloso, lo pagano coi nostri soldi del canone!”), ciascuno dei quali costruisce più o meno raffinati contenuti pubblicitari sulla cui disamina si potrebbero costruire intere tesi di laura (una su tutte: ve la ricordate la pubblicità Netflix del 2023, con gli studi di produzione vuoti, tutto spento e fermo perché ogni maestranza era occupata a guardare Sanremo?).

Da qualche tempo, vista la portata e le ricadute del fenomeno, gli sponsor si sono letteralmente conquistati la città brandizzando Sanremo. L’esempio più clamoroso di questo 2024 era il mini luna park di Veralab, con tanto di ruota panoramica (sulla quale, ovviamente, non ho resistito e sono salita per vedere la città dall’alto) e giochini in cui vincere kit del brand. Poi c’era il trenino della ditta Mutti, c’erano i bicchieri di buonissima cioccolata Ciobar, e di seguito in rincorsa un sacco di radio, ciascuna delle quali intenta a promuovere se stessa, spesso con gadget fisici, ma principalmente attraverso la presenza fisica, in stand, truck, glass… Inutile poi ricordare gli stencil di Dargen, sparsi per terra, su strade e marciapiedi, in tutto il centro di Sanremo.

Anche gli stessi cantanti “brandizzano” infatti la propria partecipazione. Quest’anno più che mai Sanremo si è riempita di “point” dedicati ai cantanti, locali affittati per la settimana del Festival dove gli artisti esponevano cose, ospitavano personaggi, davano vita a contenuti in un’estensione del loro messaggio sanremese. La più raffinata è stata Edicola Dargen: una vera edicola, affittata da Dargen D’Amico in pieno centro, in cui si distribuivano fiori, un fumetto a puntate, e in cui Tlon organizzava dibattiti su temi sociali legati al brano del cantante. C’era poi anche Casa Ghali, in piena via Palazzo, centro di Sanremo, il locale pizzeria di Geolier, un locale di Angelina Mango. In sala stampa siamo stati omaggiati di una maglietta di Emma Marrone presentata in una simpatica soluzione sottovuoto, in “Apnea”, titolo del suo brano, e di una t-shirt dei Negramaro.  (altro spoiler: i giornalisti impazziscono per i gadget: devo approfondire questo fenomeno antropologico, forse deriva dal fatto di sentirsi speciali e dotati di potere e prestigio. Mh…).

Un fenomeno comunicativo omnicanale

Alla conferenza stampa di apertura del Festival 2024 il Direttore dell’intrattenimento Prime Time di Rai, Marcello Ciannamea, ha detto che quello di quest’anno sarebbe stato “il Festival di tutta la musica e il racconto dell’Italia a tutto tondo, che parla del nostro paese a noi e a tutto il mondo”. Alla conferenza stampa di chiusura, l’11 febbraio, ha poi commentato i dati di ascolto dicendo che “siamo di fronte a numeri mai visti prima”. Ecco, Sanremo è Sanremo perché è (diventato) questa cosa qua. Cambia pelle e conquista sempre. Come fa?

Una delle strategie televisive adottate è stata quella di espandere la portata del Festival con uno show prima (quello condotto da Paola e Chiara) e con un super show dopo: a notte fonda, oltre le 2, Viva Sanremo di Fiorello ha registrato dati di ascolto impensabili per quell’orario (anche se, come hanno spesso ricordato i protagonisti, è difficile registrare l’ascolto Auditel perché dopo le 2 di notte non vengono raccolti i dati. Sempre tra parentesi, ho scoperto quest’anno che Auditel per parlare dell’una di notte usa la locuzione venticinquesima ora: se qualcuno ne sapesse di più può scrivermi, sarei curiosa di approfondire!) Naturalmente anche i palinsesti della rete sono stati modificati, e così quelli di Radio2, radio ufficiale della manifestazione.

Tra gli aspetti notevoli c’è che il Festival oggi cavalca il suo tempo. Oltre alla tv, infatti, oggi c’è di più. Il vettore che alla mostra a Santa Tecla passava dalle vecchie radio ai televisori giganti si apre oggi in una rosa di traiettorie e offre un Festival a 360 gradi che non è più né esclusivamente televisivo né radiofonico, ma multipiattaforma e multidevice. Ci sono infatti Raiplay (definita VOD: video on demand) e i profili social che rilanciano e offrono altri contenuti. Sui contenuti social ci sarebbe da ricordare il fenomeno del riverbero, come lo chiamo io: da una parte i brand che rilanciano contenuti in chiave sanremese per prendere click, e perché è il buzz della settimana calda del Festival, dall’altra parte tutti noi (*tanti di noi) che postiamo, scriviamo, commentiamo, dall’altra ancora l’ironia, alla base di meme e battute, e poi le fake che si alimentano da sè vista la base di pubblico: qui un interessante caso dedicato a Calvino, sì, proprio Italo. Insomma: non lo ferma più nessuno sto Festival. Se non è un fenomeno comunicativo caldo questo, sia economicamente (marketing) sia semioticamente (senso veicolato)…

Un po’ di dati sul Festival 2024

Federica Lentini, durante la conferenza stampa di chiusura dell’edizione 2024, ha commentato il Festival come intrattenimento perfetto, dotato di tutti gli elementi che ci dovrebbero essere, e ha sottolineato l’abilità di utilizzare nuovi linguaggi capaci di riunire un pubblico di tutte le età. Questa dichiarazione sui contenuti ci dice tanto di come la Rai si è adoperata per mettere in atto una strategia che aveva un obiettivo, quello di conquistare audience. Ha usato i linguaggi (musicale, televisivo, social…) e, aggiungo io, forte dei suoi 74 anni di storia ha ormai capito che deve fare anche metacomunicazione, cioè auto-rappresentarsi (vedi Bugo e Morgan ormai memizzati a vita, vedi Pippo Baudo, vedi la storia del Festival in mostra e tutte le autocitazioni classiche: forse è proprio per questo riconoscersi, e riconoscerci, che restiamo incollati allo schermo. Ci rassicura)

La direttrice della divisione marketing Rai Roberta Lucca ha detto, sempre l’11 febbraio, una cosa importante: “dobbiamo abituarci a leggere le performance del prodotto in maniera diversa”. Come tutte le strategie di marketing, anche quella del Festival prevede infatti un follow-up e un monitoraggio costante, che passa attraverso i dati. Sono loro la fonte che ci spiega chi guarda il festival e ci fa interrogare sui perché, sulle identità, sulle scelte editoriali. In breve sintesi (sono dati reperibili in rete) il Festival 2024 ha fatto il botto: lo share è andato di media al 66% per tutte le 5 serate (ha raggiunto il 74% il sabato), ed è il migliore dal 1996. Altri dati ci dicono che il Festival di Amadeus del 2024 è stato l’intrattenimento di prima serata più giovane di sempre, l’edizione più digital di sempre (+12%), e la più social di sempre con 29 milioni di engagement. “È tutto un più” come ha detto la direttrice della divisione marketing.

Chiaramente quello che salta agli occhi in una selva di numeri è la crescita nella fruizione digitale: il Festival dimostra che gli italiani guardano on demand, creandosi la propria dieta mediatica, e questo esplicita come il Festival parli degli italiani e delle loro abitudini mediatiche. Il Festival è media, è comunicazione. E poi c’è la conferma del dato sul target: sempre più giovani dai 15 ai 34 anni, evidentemente grazie a scelte linguistiche e alla selezione musicale. I due dati si accompagnano: il Festival si guarda anche da device connessi, ecco perché si parla di un dato definito total audience, dato ottenuto dalla somma di tutte le componenti, che rispecchia una sorta di convergenza digitale ormai ineludibile anche per il Festiva di Sanremo. Anche i social hanno performato molto bene, ça va sans dire. A proposito di pervasività, Auditel non ha certo registrato il fatto che la Playlist di Sanremo di Spotify sia schizzata in vetta alle classifiche di ascolto a pochi giorni dal lancio, come numero di ascoltatori e ascolti, e nemmeno che Geolier è stato il cantante più televotato di sempre. Cifre straordinarie, ascolti straordinari, incassi straordinari. Capisco che Amadeus molli il colpo: l’uscita di scena è grandiosa, triste chi arriverà dopo.

Ma i giornalisti al Festival?

“Guarda, ‘mo sto all’Ariston, ti chiamo dopo”. Me lo aveva detto la mia amica la settimana prima che iniziasse il Festival: si sentiva già pesantemente la parlata romana in città. Persino al cinema. In effetti a Sanremo, per noi che siamo “di qui” ti accorgi che sta succedendo qualcosa di totalizzante come il Festival anche e soprattutto per il progressivo aumento di gente con il badge Rai al collo e per la parlata romanesca che domina. Tecnici Rai e tutte le maestranze coinvolte nel grande Moloch festivaliero, e poi autori, manager, e giornalisti da tutta Italia in quella che diventa una cittadella vera e propria. Folla in delirio fuori dal tempio consacrato alla canzone pop italiana, e poi radio e tutto il can can del marketing.

La stampa, in tutto questo carnevale vario e composito, riveste un ruolo particolare. I giornalisti accreditati al Festival sono centinaia, svariate centinaia, di qualsiasi estrazione e provenienza. Me compresa, quest’anno per la prima volta accreditata alla sala stampa Lucio Dalla, quella una volta riservata a radio e TV. L’altra sala è quella Roof all’Ariston: è quella storica, dove lavorano i decani del mestiere, quasi tutte le grandi firme dei quotidiani nazionali e delle testate più grandi. Ci sono gerarchie, nelle sale stampa, ci sono i personaggi “vip”, una schiera di cronisti locali in cerca di altro dall’analisi delle canzoni e delle questioni più tecniche, come me, e poi c’è una marea di radiofonici. Avendo fatto esperienza in tutte e due le sale, posso dire di aver osservato cose interessanti ed essere quindi approdata a un po’ di ragionamenti. Tipo? Tipo che i giornalisti sanno essere persone piuttosto strane. Preparatissimi, acuti, saggi, ma anche assurdi, originali per non dire bizzarri, maleducati, fuori contesto, disattenti, gelosi, falsi, avidi, sciocchi. Ci sono chat dove tu non entri, pass esclusivi, e relativi contatti esclusivi: ci sta, fa parte del mestiere. Ci sono domande banali, altre cattive (molto molto bella questa analisi su Valigia Blu), altre semplicemente giuste.

Tutti lavoriamo per obiettivi differenti, con mezzi differenti, probabilmente con situazioni contrattuali diversissime, alcuni per passione, alcuni volontari, alcuni solo per vivere un po’ di festa scanzonata, alcuni sono professionisti del settore, alcuni arrivano dal sud Italia con alberghi o appartamenti prenotati chissà quanto prima, altri fanno i pendolari come me. Insomma: la fauna è varia, si vede davvero di tutto. E si impara altrettanto come scrivevo già qui. In 5 edizioni di Festival seguite (o forse 6? Confesso di aver perso il conto) ho affinato la sensibilità per il mestiere osservando come lavoravano i grandi del settore, imparando gli orari dei cartacei o le modalità delle dirette varie, la pratica dell’embargo, il rispetto tra colleghi, grandi o piccoli non importa, la resistenza, le velleità, la selezione delle notizie, o almeno un po’. Per chi non ha avuto maestri, e oggi siamo in molti, è un po’ una scuola di giornalismo. Ha pochi rischi (relativi, ovviamente) perché tratta temi leggeri, ed è importante esserci proprio per questo motivo. Non si smette mai di apprendere guardando gli altri colleghi, in positivo o negativo. Quest’anno, per esempio, ho imparato che dovrei istruirmi maggiormente sui dati Auditel, e non perdere di vista il resto della cronaca, ché poi succede che arrivino gli agricoltori e il Festival, come suo solito, lanci ponti di notiziabilità verso il resto del mondo non sanremese.

Al più si canta

“In questa sala stampa non si urla, al più si canta” è una frase che porterò con me nel futuro perché descrive a pieno quello che succede in questi catalizzatori professionali che sono le sale stampa di Sanremo, dove si sta insieme 6 giorni in lunghi banchi dotati di prese di corrente e connessione, lavorando freneticamente, senza orari, con pasti sbagliati a orari sbagliati, con troppe poche ore di sonno, in perenne rielaborazione dei piani. La frase l’ha pronunciata una delle responsabili della sala Lucio Dalla durante un episodio piuttosto spiacevole avvenuto quest’anno, in cui una collega ha urlato improperi ad alta voce in mezzo a tutti per motivi vari che non starò a dire. È partita la sollevazione: per uno che sbaglia, paghiamo tutti quanti in termini di valore professionale. Si è innescato da qui un interessante dibattito sulla nostra professione, sulla fauna presente (una collega, il primo giorno, urlava arrabbiata che chissà quanti non erano giornalisti, le ho fatto notare che tutti abbiamo il tesserino, controllasse pure),sul valore delle domande che facciamo, di ciò che pubblichiamo, sul nostro ruolo nel Festival. Visibilità, certo (è per questo che la Rai ci ospita), ma anche rigore, verifica, dignità professionale.

Lato mio, questa riflessione è stata generata dall’episodio che dicevo, ma anche dalla casuale vicinanza con colleghi che hanno fomentato gli interrogativi autoriflessivi sulle domande sensate (e la loro frequente assenza) e dal dibattito sul voto della sala stampa generatosi dopo la serata cover, con interventi piuttosto sgradevoli di qualche collega. Sì: votiamo. E sì: non tutti siamo esperti di musica. Però siamo – dovremmo essere – professionisti della comunicazione. Gente capace di capire la rilevanza mediatica (e sociale, e persino politica, visti i numeri fortissimi generati) del Festival, e tutte le ricadute varie e composite. Questo è, per lo meno, quello che penso io, che dell’ingranaggio enorme del festival non sono niente, se non una cronista locale, attenta magari alle parole del sindaco di Sanremo a fine mandato, a raccontare la città per chi la vive in veste colorata nella settimana della musica, e a portare uno sguardo dentro la grande pancia dell’Ariston, cosicché anche i lettori locali si sentano più vicini a quello che succede.

Ci danno i gadget, vediamo i cantanti da vicino, assistiamo a cose che nella vita quotidiana di cronisti non vedremmo (ovviamente è diverso per le grandi firme musicali) e questo ci fornisce una leggerezza e un sorriso che rendono la settimana festivaliera un’occasione da cogliere. E poi siamo tanti, da tutta Italia, tutti di testate diverse, tutti impegnati con le stesse regole a trovare le notizie: non ci conosciamo ma ci rispettiamo, o così dovremmo, e grandi o piccoli pretendiamo gli stessi diritti. Le sale stampa di Sanremo hanno anche dei capi, sorta di “rappresentanza sindacale” che dialoga con Rai per richieste varie. Quest’anno, per esempio, abbiamo ottenuto di poter andare a vedere le prove anche noi della Lucio Dalla, situazione che dapprima non sembrava possibile. Ma la pressione è forte: mi sono fatta l’idea che sia tutto fomentato da una certa smania social di apparire, di presenziare e rendere manifesta l’esclusività di un pass al collo (la collega che fa le foto dentro all’Ariston quando tutti abbiamo dato l’ok a un regolamento che lo vietava, accreditandoci, e poi dice “ah ma non potevo”?), a scapito della buona creanza, della furbizia, del tempo di verificare, fermarsi un attimo per capire, guardare più largo, e offrire una notizia vera.

Proprio su questi spunti, a Sanremo 2024 ho incontrato un bel po’ di dubbi e domande su cosa significa fare il giornalista oggi, e so che questi interrogativi diventeranno parte dei ragionamenti che mi porterò dietro per un po’. “In questa sala stampa non si urla, al più si canta” è una frase che segno qui dopo il Festival 2024 perché riesce molto bene a cucire insieme rigore professionale e leggerezza, che possono stare insieme anche – e proprio – in una manifestazione gigantesca e dagli interessi enormi come Sanremo. È una frase che ha molta intelligenza dietro, quella di una saggia collega dell’ufficio stampa Rai. La ringrazio per avermi ricordato ancora una volta che è possibile, ed è innanzitutto doveroso, mantenere il rigore professionale anche in mezzo alle canzonette.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!