Il Teatro Ariston di Sanremo

Sanremo? Ancora? Sì, solo un pochino, dai, concedetemelo: oggi è il lunedì della “settimana dopo”, e all’improvviso, dopo una routine affollata e frenetica, ho cambiato città, orizzonte, aria e scopo. Il Festival di Sanremo è finito. Non devo più star dietro alle esigenze del mio editore, scrivere a macchinetta testi per giornali e siti, postare foto e video, correre dal Palafiori all’Ariston inseguendo il carosello di conferenze stampa. Non devo neanche più preoccuparmi di avere il pass Rai appeso ben visibile al collo, da mostrare ai poliziotti all’accesso della sala stampa, di mettere in borsa tablet e telefono carichi, di trovare una connessione funzionante e di azzeccare l’orario dell’autobus per casa in modo da arrivare in tempo per guardare il Festival in tv, cercando di reggere al sonno per seguirlo il più possibile ed essere sul pezzo la mattina dopo. Vi assicuro che, per quanto stressante e a tratti folle, questa routine oggi un po’ mi manca.

Fiorella Mannoia in conferenza stampa con i giornalisti della sala stampa Roof Ariston

Sanremo, cittadina del ponente ligure che dista una ventina di chilometri dalla mia città, vive il Festival come una vera e propria festa: tutto è per il festival, ognuno si mobilita. Bar, negozi, vigili urbani, panettieri, lavanderie, tassisti, tecnici. Un brulicare di tecnici Rai sparsi ovunque, tanti quanti forse sono solo gli altri protagonisti caciaroni del Festival, quelli che ne costituiscono una costolona fondamentale: i giornalisti.

Questo post, oltre a raccontarvi un po’ della vita che fa chi a Sanremo ci va per lavorare (finendo poi, ovviamente visto che si tratta di canzonette e show, per divertirsi pure), vuole riflettere infatti anche su un evento che ogni anno catalizza l’attenzione di più di dieci milioni di italiani (dati Rai, non di fantasia) e fissare nero su bianco un paio di considerazioni che, avendo io la fortuna di far parte del  grande ingranaggio mediatico del Festival, mi frullano nella testa da quando, martedì 7 febbraio, è iniziato il tutto.

Zucchero in conferenza stampa al Festival di Sanremo 2017

Una settimana di bolla mediatica, 5 giorni di televisione sintonizzata su una sola rete, ore davanti allo schermo rimirando abiti da sera, luci, un’orchestra e un susseguirsi di canzoni, spesso nemmeno belle, in nome della tradizione che, si sa, a febbraio fa tornare sempre in auge il festivàl (con l’accento sulla a). Genitori, figli, insegnanti, impiegati, artigiani, studenti, casalinghe, pure gli snob, a modo loro, ma soprattutto tanti, tantissimi operatori mediatici e giornalisti, che mai come quest’anno ho capito essere parte integrante del senso di tutto. E poi, ovviamente, essendo il 2017, i social e la visione del Festival da second screen: tv accesa, pc o telefono che fosse a seguire in parallelo alla diretta i commenti, il sarcasmo, le battute, l’ironia di amici e conoscenti. Vuoi mettere? Così la cerimonia sanremese scende meglio. Così si crea quel meccanismo intrigantissimo della comunicazione al secondo grado: il commento in diretta sulla diretta, la condivisione di una storia comune, di un immaginario condiviso fin dall’infanzia, di testi, canzoni e futuri concerti. Il Festival da me si guarda con mamma e papà, la prima coinvolta e appassionata come me, il secondo scettico, schifato dalle canzoni sciatte e melodiche e attratto dai rari ritmi swing che ogni tanto fanno capolino sul palco. Commenti – negativi, anche – cambi canale, lamentele se durante la pubblicità si fa zapping, “che strazio”, “no, dai, questa vince” e il sonno rimandato fino a tarda notte. Da qualche anno a tutto questo si aggiunge il commento social con gli amici distanti, alcuni dei quali appassionati maratoneti come me. Arrivano commenti da oltre Manica, seguo colleghi dalla sala stampa dove purtroppo non posso mai restare perché non ho un posto a sedere, ci si scambiano opinioni su quel che accade sul palco. E insomma, ci si diverte.

Quindi no, non sarò affatto moralista, solo giornalista (perdonatemi la rima facile): Sanremo lo seguo, ci sono

La sala stampa Ariston Roof

affezionata e mi diverto e sì, vorrei continuare a frequentare la sala stampa dove, da tre anni, ho imparato, osservando colleghi al lavoro e dinamiche quotidiane, cose utili al mio lavoro. C’è forse una palestra migliore, per un giovane giornalista, della sala stampa di un grande evento mediatico dove sono accreditati un migliaio di colleghi da tutta Italia, anzi tutto il mondo, che lavorano sulla carta, sul web, alla radio e alla tv? Nessun evento catastrofico, non c’è politica diretta e nemmeno cronaca di quella brutta: ci sono le canzonette, gli abiti, il gossip e i polemiconi. È insomma un ambiente perfetto per gestire lavori complessi senza bruciarsi, anzi rischiando di divertirsi nonostante la fatica e il poco sonno, e ancora per accumulare contatti, elaborare nuove idee e farsi un po’ le spalle gettando via gli imbarazzi e il temporeggiamento: “toh, c’è tizio, vai vai, intervistalo, presto che scappa!”.

La diretta di RaiNews 24 dalla sala stampa Ariston con Fausto Pellegrini

Dunque, la sala stampa del Festival di Sanremo, cuore pulsante che batte pompando linfa mediatica nel sistema. Attenzione! Le sale stampa sono due: una, quella “storica”, è al roof dell’Ariston, la seconda è più “giovane”, sia come fondazione sia come popolazione, ed è quella “Lucio Dalla”, allestita al Palafiori e dedicata alle testate web, radio e tv. Anche se, in realtà, il confine non è così netto. Nella sala stampa Ariston, dove è accreditata la testata per cui lavoro, ci sono i “vecchi” delle grandi testate, gente come Marinella Venegoni, Paolo Giordano, Fausto Pellegrini, ci sono le agenzie stampa, e i colleghi della stampa locale, talvolta ci passano per saluti e comparsate anche i conduttori di Radio Rai. L’anno scorso ci ho visto Pif, quest’anno Andrea Perroni e Luca Barbarossa (stendiamo un velo pietoso sul selfie che ho chiesto loro tutta emozionata salvo poi scoprire che il cellulare mi ha fregato e non è rimasto).

Insomma, un universo abbastanza eterogeneo, dentro al quale però tiene testa la “vecchia guardia” di cui sopra: gente che da anni frequenta il festival e i suoi protagonisti, è avvezza al cerimoniale della sala stampa, ha contatti diretti con artisti e case discografiche. Gente che, nel guazzabuglio offerto oggi da stampa locale e precariato, agli occhi di quelli come me, giovani provinciali e aspiranti (?!) alla professione, infonde sempre un qualche tipo di rispetto. Lavorare fianco a fianco con questi personaggi, vi assicuro, in parte ripaga di tante fatiche e stress. In fondo, facciamo lo stesso lavoro: ci affanniamo sul carrozzone, cerchiamo esclusive, facciamo domande, ascoltiamo e diamo pareri, scriviamo, prendendo appunti disordinati su fogli bianchi di word mentre parlano i personaggi ospiti alle conferenze stampa, raccontiamo al telefono ai nostri direttori quel che accade, seguendo in multitasking il foglio word di cui sopra, Twitter e Facebook, nostro e del giornale. Ci infiliamo ai photocall dove impazzano i fotografi con la nostra macchinetta compatta o col cellulare, per mandare agli amici il primo piano di Zucchero o Alvaro Soler, e ci facciamo anche i selfie con Gabbani, entusiasti che il suo staff abbia diffuso per la sala stampa maschere di cartone a forma di scimmia, che indossiamo, vere scimmie nude, e con cui vogliamo apparire nello scatto esclusivo che sancirà che noi c’eravamo. Vanità: la molla di ogni giornalista.

È bello sapere che tutti quanti, grandi e piccoli, siamo lì per fare lo stesso identico lavoro, e siamo alle prese con i

Vademecum, notizie e comunicati stampa

problemi di tutti: il testo che non sta nella gabbia, il nome di Tizio che ci è sfuggito, dalla redazione ci telefonano mentre noi stiamo seguendo Carlo Conti e cercando sul web le statistiche ufficiose, e ci chiedono il perché di una didascalia sbagliata, non ci ricordiamo più l’anno in cui Caio partecipò a Sanremo ma per fortuna l’ufficio stampa Rai ci ha pensato e ci aiuta con i suoi fogli. Fogli, quanti fogli: risme e risme di carta che uccidono l’Amazzonia per permettere ai giornalisti di avere a disposizione ogni tipo di materiale, che sia di archivio oppure aggiornato all’ultima ora. Sul tavolone di ingresso alla sala stampa si accumulano, dalla domenica precedente al sabato finale, quintali di A4: il vademecum della sala stampa, con numeri utili e tutte le informazioni della logistica, gli elenchi di tutti i conduttori del Festival, tutti i vincitori, tutti i premi della critica, e poi l’elenco delle conferenze stampa previste in giornata, oltre a quella fissa, che è alle 12.00 in compagnia – solitamente – dei conduttori e dei vertici Rai. È  alla conferenza di mezzogiorno che si snocciolano i dati di share delle serate precedenti, seguiti da altri fogli che li raccontano nel dettaglio.

Ecco, tra le 11.30 e le 12.00 la sala stampa si affolla: tutti giungono all’appuntamento con l’ufficialità. Qualcuno è già seduto in postazione (avete presente i grandi tavoli bianchi che si vedono solitamente quando Rocco Tanica fa la diretta in trasmissione? Ecco.), tanti altri, come me, restano in piedi, addossati ai muri. Nella zona del photocall ci sono

I tetti della “Pigna” dalle finestre della sala stampa Ariston

i fotografi, che si sfidano tra obiettivi e flash, in fondo alla sala ci sono invece gli operatori video, con la fila di telecamere su cavalletto puntate sul grande tavolo al quale compariranno i protagonisti. Nel frattempo, tutt’intorno, si muove la macchina della sala stampa: chi twitta, chi prende appunti, chi fa domande, chi entra prende qualche comunicato ed esce, chi passa a far chiacchiere, e chi sta al bar. Il bar del roof Ariston è un altro punto centrale: luogo di rifocillamento e caffè – tanti, tantissimi caffè – il bar è anche zona di incontro tra colleghi, zona di lavoro, ideale con i suoi tavoli rotondi per fare interviste (ci ho visto il buon Gabbani la mattina del venerdì e non ho osato, mentre bevevo il solito caffè, fermare le colleghe per una foto), ideale per chiamare la redazione a cui hai riattaccato tre volte mentre eri di là a scrivere convulsamente su tablet. Di fianco al bar ci sono le vetrate che danno sui tetti della città vecchia, il quartiere della “Pigna”, che si chiama così perché è fatto di carruggi addossati, dove filtrano lame di luce tra palazzi e salite. Insomma, vi affacciate un attimo aspettando uno dei due ascensori che portano dal piano terra al roof e potete anche sorseggiare uno scenario calviniano (l’ambientazione di “Il sentiero dei nidi di ragno”) del tutto esclusivo.

Gli ascensori: un altro luogo topico, di quelli dove puoi fare ogni sorta di incontro. Dal collega della stampa locale con cui parli del più e del meno, agli artisti, scortati dal proprio staff, o ancora al personale Rai. Qualche anno fa capitai in ascensore con Gianfranco Leone in persona, allora direttore di Rai1. Quest’anno il mio primo giorno di Festival a sfilarmi sui piedi mentre aspettavo di salire è stato il decano dei giornalisti musicali, Luzzatto Fegiz. E ancora, in una delle tante assonnate mattinate in cui, dopo aver passato i controlli delle forze dell’ordine, pass nominativo al collo, mi avviavo verso l’ascensore, mi è capitato di salire insieme alla redattrice di Topolino, riconosciuta da altri colleghi più grandi e benevolmente rispettata con un sorriso complice. Sì, c’è anche Topolino a Sanremo: ve lo avevo detto che è un’occasione mediatica unica!

Perché se a Sanremo non fosse in piena funzione, brulicante e spassionata, la macchina dei giornalisti,

Mika in sala stampa al 67esimo Festival di Sanremo

la bolla comunicativa che aleggia sulle 5 serate più seguite della tv italiana forse non sarebbe la stessa, forse nemmeno esisterebbe, e Sanremo sarebbe un’occasione di spettacolo come un’altra. Ecco perché l’ufficio stampa Rai li (ci) coccola così tanto. La sala stampa è al centro di gran parte del Festival: lì avvengono gli incontri, le spiegazioni, lì si danno concretamente i numeri, si incontrano i protagonisti e quel che dicono viene confezionato in cornici ben precise e veicolato fuori, al grande pubblico, a chi legge e segue anche se non sta vivendo una settimana a Sanremo, tra strade del centro affollate e alberghi pieni che registrano il più alto boom, fuori stagione della provincia, se non dell’intera regione. Sala stampa e mondo fuori: c’è chi vive con un piede in entrambi, come me e la stampa locale che documenta la vita in città, ma c’è anche chi di Sanremo forse nemmeno si accorge, fra luoghi sempre uguali da anni e le abitudini radicate di chi in città arriva per il Festival e i suoi eventi musicali (il Tenco, per esempio, o da qualche tempo Sarà Sanremo/Area Sanremo e affini). Mi domando, da provinciale quale sono, come vivano Sanremo tutti coloro che arrivano da fuori. Al bar si sentono accenti romani, chiedono caffè e portano al collo pass con la scritta Rai: l’esercito dei tecnici, quelli della famosa “esterna 4” che posteggiano i loro camion regia tutt’intorno a piazza Colombo, per noi della zona la piazza centrale, dove arrivano e partono i bus.

Chissà cosa rappresenta per loro, e per tutti i miei colleghi in arrivo da prestigiose redazioni, decani o giovani rampanti, con contratto o con partita iva, quel periodo di febbraio in cui si parte per Sanremo. Una settimana a lavorare al mare, in Riviera, dove il clima è mite e le mimose sono in fiore, dove tutto è piccolino per l’immensa macchina operativa che il Festival porta con sé, 1300 e passa giornalisti inclusi. Chissà cosa lascia in ciascuno. Chissà cosa resta, a chi la domenica dopo il Festival parte, e a quelli che invece sono già lì, tutto l’anno, e approfittano del carrozzone per sentirsi dentro un’immaginaria vacanza fatta di musica, cantanti famosi e lustrini.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!