Moto da luogo, il complemento che indica un luogo dal quale si arriva, e a volte si arriva per ripartire, verso un altro luogo, con un complemento di moto a (verso) luogo. Arzigogolando tra grammatica e pensieri mi pare giusto iniziare così a parlare di Dall’orto al mondo, di Barbara Bernardini, pubblicato da Nottetempo. Un prezioso libro che avrei difficoltà a etichettare in una libreria, ma il cui sottotitolo dice molto per cavarmi d’impaccio: “Piccolo manuale di resistenza ecologica”.

Un manuale, quindi? Forse, ne ha diversi tratti. Un libro sull’ecologia? Se vogliamo, anche. Un racconto di resistenza? Decisamente sì, una resistenza che ha a che fare con la consapevolezza, con la lentezza, con il recupero di uno sguardo naturale, con un nascondiglio tra le fronde, con l’odore delle foglie di pomodoro e con il ricorso al calendario della luna e delle semine. Sembrerà banale parlare di orto, ma con Barbara Bernardini, tra i dodici capitoli del suo “Dall’orto al mondo” capiamo mese dopo mese che non avevamo capito niente e che, anzi, dall’orto di casa nostra – ed ecco che ritorna il moto da luogo – possiamo spingerci a osservare ben oltre, verso il mondo in cui siamo e saremo: il moto a luogo.

Un diario dell’orto, e non solo

Dall’orto al mondo è stata per me una lettura inaspettata e non pianificata, ma per la sua scrittura, le tante informazioni utili che contiene e soprattutto le sue idee (i suoi semi, mi verrebbe da dire, prendendo in prestito il lessico vegetale) è diventato già alla terza pagina un libro da sottolineare, rileggere, tenere a mente, nel senso autentico di consiglio e stimolo da far girare vivo nella testa, per “innestarlo” nella mia quotidianità. Da mettere in pratica, mani nella terra ma anche solo, da principio, con pensieri altri, pensieri vegetali. Un libro di quelli che regalerò, che consiglierò: per invitare a uno scarto delle idee che ritengo utile.

Se c’è infatti una cosa che il fare un orto implica, è proprio fare: mani nella terra, appunto, mani attive, lavoro pratico e concreto che affonda in un ciclo naturale. Da qui si costruisce questo libro, che in realtà è un diario dell’orto, da marzo, l’inizio della vita nell’orto, per dodici mesi, fino a febbraio: un anno intero seguendo i cicli delle piante e la lavorazione della terra. Storie di piantine, animaletti, di contadini e di tentativi, in un ciclo stagionale che solo all’apparenza si ripete sempre uguale, ma che cambia di storia in storia, e soprattutto ha un ruolo attivo e cambia le persone che ne restano affascinate e coinvolte.

Lavorare nell’orto per produrre qualche verdura da portare in tavola è, come dicevo, un fare: Barbara Bernardini racconta in ogni capitolo-mese cosa fare, e a volte come farlo. Leggendo queste pagine dall’alto della mia ignoranza diffusa sul mondo della campagna (pur vivendola da spettatrice fin da quando sono bambina, cosa che mi ha fatta sentire molto stupida, lo confesso) ho scoperto un sacco di cose sulla vita di semi e piante, sulle sostanze presenti nel terreno, sulle azioni e i gesti contadini. Azioni che vedo fare e, in senso molto teorico, conosco: azioni che, se dovessi farle, diventerebbero impossibili, perché non le ho mai imparate davvero.

Anche l’autrice, da contadina non ancora affermata, racconta di esitazioni, problemi, semplici e cose da imparare: lo fa nella sezione che in ogni capitolo chiama almanacco, ispirandosi ai calendari lunari e delle semine che anche i miei nonni tenevano e ancora oggi mio papà consulta. Tecniche di coltivazione, piante e loro tipologie, sogni per l’orto del futuro e buoni propositi da mettere in pratica, e pazienza se al primo tentativo non ci si riesce: è bello immaginare un orto, è una bellezza che passa dalle pagine alle mani, e così viene voglia di riacciuffare gli antichi saperi, e mettersi a studiare terreni, ruolo dell’acqua, progettazione del ciclo delle piante, fino ad arrivare a cose difficilissime come gli innesti.

Innesti, non a caso, si chiama un’altra sezione di ciascun capitolo, dedicata ai segnali dei tempi che viviamo. Segnali che, ha ben ragione l’autrice, dall’orto si vedono meglio, in tutto il loro dispiegarsi e ricadere sulle nostre vite, dalle radici delle piantine al nostro modo di stare, dentro di noi e nel mondo stesso. E così, tra nozioni, speranze, ricordi, competenze e progetti, Barbara Bernardini riflette con noi che leggiamo, cita altri libri che viene voglia di scoprire, ricostruisce una posizione nel mondo proprio da lì, partendo dall’orto, e arrivando al mondo. Un modo di stare che vuole trasformarsi in modo di fare: piantare un seme a terra per comprendere a fondo che cosa è l’attesa dei primi germogli di una pianta, per vedere limpidi tutti i limiti racchiusi in quella vita che sbuca, verde, e sentirsi così a posto, realizzati, senza tuttavia smettere di porsi altri buoni propositi per migliorare. Ma intanto, si va: si parte dall’orto e ci si guarda meglio intorno, “forse perché è alla terra che dovremmo ancorare ogni pensiero sulle cose del mondo”.

Un posto “altro”

Il senso profondo di questo libro prezioso secondo me sta proprio in quel movimento del moto da luogo verso il moto a luogo: è nell’orto che possiamo accorgerci di qualcosa che non vedevamo più, e affinare una prospettiva che non va molto di moda. La pratica dell’orto, pur con tutti i suoi errori, le sue tempistiche che inseguono il ciclo delle stagioni, la sua antica prassi che va comunque e sempre appresa, se non te l’hanno trasmessa per dna, è per Barbara Bernardini la cura a un fastidio, a una sensazione di inadeguatezza, all’abitudine errata di dare tutto per scontato.

L’orto mi ha insegnato a svuotare il tempo, per alleggerirlo dal peso delle cose che credevo importanti e invece non lo sono; dall’ingombro delle persone che mi sembravano migliori e che mi affannavo ad assecondare pensando che questo mi avrebbe migliorata di riflesso, ma non erano migliori, erano solo più brillanti, più esuberanti o più prepotenti; dalla paralisi per i giudizi che credevo mi definissero e invece erano solo superficie, fraintendimento, disattenzione

Qualcosa, nel brulicante mondo che va, ci è scappato di mano e l’abbiamo perso. Che cos’è? Il ritmo naturale delle cose, quello fatto di attese e lumachine, di cornacchie dispettose e meravigliose foglie, di profumi e sapori, ricette e rimedi domestici, lune crescenti e azoto. L’equilibrio della natura, dentro al quale entrare senza spocchie, essere umano tra altri esseri dotati di intelligenze differenti, non per questo meno valide. Mettiamo, per esempio, che la rete dei funghi, dei batteri e degli insetti che si occupa del benessere del sottobosco fosse davvero in grado di rielaborare gli scarti della nostra specie, facendone qualcosa di migliore per tutti. Non sarebbe straordinario? Tutto naturale, eppure straordinario.

Siamo sulle rovine del mondo che abbiamo sempre conosciuto, ci ricorda l’autrice, ma senza allarmismi troppo spinti, solo consapevolezza: se crolla tutto, intorno, un rimedio utile è una cosa che le piante per loro natura non possono fare, e cioè riposizionarci, farlo con lo sguardo e con la mente prima di tutto. Farlo dall’orto, e lì maturare uno sguardo capace di abbracciare il mondo intero. Immergendoci nell’incanto di un piccolo orticello domestico è possibile ripensare al nostro rapporto con l’ambiente, con tutta quelle fittissima rete di legami che “tiene in vita la vita”.

Recuperare, per riandare: se qualcosa, tra un malessere e un senso ingiustificato di inadeguatezza, ci era sfuggito in mezzo a ciò che resta del mondo, è forse nell’orto che dobbiamo concentrare l’attenzione. L’orto, in questo libro, diventa così “un posto altro, dove stare in pace, dove tenermi a distanza da tutto eppure più vicina”. Una cura al malessere di quest’epoca di strapotere umano e aspettative, di rincorse e frenesia feroce. Cambiare sguardo a partire dall’orto significa, anche, sottrarci a un sistema che non ci appartiene più. Ecco cosa fa nascere il fare orto, ecco a cosa dà un poderoso avvio la lettura di questo libro: la sensazione di tornare a occuparsi di cose reali. Piante che crescono, azioni per accompagnarle, zuppa in tavola, sensazioni ed emozioni che, ricordando l’epoca dei nonni, ci strappano dal rumore dello strapotere umano, dall’insensato e incessante battere sui tasti, dalle maglie illogiche dell’algoritmo, e ci ricordano che esiste la possibilità di vivere diversamente.

Dalle radici ai rami

Barbara Bernardini non fugge nell’orto dando le spalle al mondo, al contrario ci si rifugia per ritrovare una meraviglia perduta. E anche leggendola, e mescolando le sue parole insieme a ricordi di pomeriggi d’infanzia, la sensazione è quella di entrare nel giardino segreto che avevamo lasciato là, sulla soglia dell’adolescenza. Ho la fortuna di condividere con l’autrice un bagaglio immateriale chiamato “vita in campagna”: un terreno, l’uliveto, i nonni e le loro antiche pratiche che ricordo ma che ho smesso di saper praticare (mannaggia a me). E poi l’inconfondibile profumo delle piante di pomodoro (anche l’autrice cerca un nome specifico per definirlo: forse non esiste ma è chiarissimo, una rêverie che Proust lèvati), il suo sfondo di estate, panini sugosi e ondeggiare di foglie di ulivo come banchi di acciughe, perché sono ligure e noi le alici le chiamiamo così (e, già che siamo saliti al nord, aggiungo alla rêverie le foglie di basilico).

Fermate quel sogno sinestetico che ha chiamato uno stop anche a me, mentre scrivevo la frase qua sopra. Fermatelo e rifletteteci su: dove lo abbiamo perso? Nel giardino segreto divorato dalla frenesia che ci fa prendere le pastiglie dormire la notte. Abbiamo smarrito la pratica di quel luogo magico, un punto di riferimento. E se invece fosse proprio lì, in quel profumo di orto e in quel tempo lento, il riscatto dolcissimo per un  mondo nuovo?

resistere tornando a fare qualcosa che ha un significato circoscritto, inequivocabile, tondo, giusto, buono: se pianto un seme è per mangiare un pomodoro

Se la fine del mondo come lo abbiamo conosciuto è dietro l’angolo, sarebbe forse necessario aggrapparsi a qualcosa di solido per non essere trascinati via dall’onda. Una radice ben salda a terra: un legame con il nostro passato e il tentativo di vivere ancora, sottoterra, e magari risbucare e rinascere. Come ben sottolinea Barbara Bernardini, abbiamo rotto un meccanismo che con i nostri nonni ancora funzionava, una “linea di sapienza” che, pur con le sue asperità, oggi sembra un sistema di vita più giusto ed equilibrato. Non è pura nostalgia, ma pensiero attivo, ancora una volta: l’invito a non perdere qualcosa di importante che scivola via verso l’oblio, e così recuperare una radice familiare, e un modo di stare al mondo più dolce “per rimediare all’accelerazione estrema verso qualcosa che all’inizio era benessere ma ora spinge verso un malessere inspiegabile”.

In questa frase, per me, sta il senso profondissimo di questo libro: imparare a gestire un orto per crescere insieme a lui, e progettarlo e crederci come faremmo per altri progetti in cui siamo abilissimi. Tornare al tempo del rispetto, degli equilibri sani, perché la natura ci ha sempre dato la possibilità di ricominciare da capo, tranne quando abbiamo iniziato a farla a brandelli e a toglierle linfa. Ritrovare l’armonia, e una semplicità che è complessa, straordinariamente molteplice e cangiante. Ne facciamo parte, proprio noi che abbiamo accettato la modernità fatta di sfruttamento acefalo che tutta questa meraviglia la soffoca, asfaltandola.

Utopia e pensiero ecologico? Può darsi. Ma, come suggerisce l’autrice, abbiamo bisogno di coltivare spazi residui di immaginazione, di abbracciare gli alberi, di accorgerci che siamo solo un pezzettino di mondo, e non controlliamo proprio nulla. Abbiamo bisogno di ritrovare un senso, un moto a luogo: verso cosa vogliamo andare? E una volta capita la direzione, abbiamo anche bisogno di fare come nell’orto e cioè, mani nella terra, continuare a provarci.

 stare qui mi permette di ricostruire quella solitudine calma e pacifica che stava sparendo dalle mie giornate da adulta, è un posto dove mollare ogni rigida protezione e riposare, ma per preservarlo va tenuto nascosto cosa sia realmente – così nascosto che non è chiaro nemmeno a me stessa – lasciando credere a tutti che sia davvero un orto

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!