Otto per cinque: quarantacinque giorni. Delle settimane, ho perso il conto. Ma oggi è mercoledì e c’è una cosa in mezzo al caos e alla stasi che mi fa ripensare tutto, che stravolge la routine che avevo installato ormai nel mese precedente: oggi ho una call di lavoro, un lavoro nuovo. È un giorno strano, in cui tutto mi sembra irreale, in cui continuo ad alternare fasi di euforia a sbotti di orgoglio, cadute d’ansia a passi incerti. Ma intanto, mentre tutto tentenna, siamo qui, e mi sembra davvero incredibile: incognita è la parola del giorno.

Posteri, a voi la lettura: qui c’è la storia di una persona che, in mezzo alla quarantena, ha perso il lavoro, ha risposto a un bando e ha fatto un colloquio, ed è stata selezionata. Il tutto chiusi in casa, macinando forse, in un calcolo totale di spesa e acquisto giornali, mezzo chilometro. Decisamente insolito, decisamente inaudito: come tutto, del resto, in questa bolla in cui non pensavo di dovermi trovare e in cui, per contro, stavo iniziando a crogiolarmi fino a percepire alto il rischio che mi sedeva a fianco, cioè che va bene così. Invece si torna in ballo, cautamente, con molta ansia, incognite, ma il motore riparte, e questa è una cosa importante, di cui non riesco a vedere l’orizzonte, è pur vero, ma della quale qui, oggi, sul momento, leggo un certo valore che certamente un domani, passata l’onda, qualcosa potrà dirmi. Ci conto, oggi ci conto davvero.

La mattina si srotola così. A me continua a sembrare irreale, tanto che il fatto che mi arrivi una mail che non mi aspettavo passa quasi in second’ordine, e tutto il resto la segue, schiacciato su uno sfondo lontano. Fuori è sempre grigio, c’è vento forte e non sembra il 22 aprile, non sembra passato un mese da quella domenica di marzo che doveva essere tutto come sempre, e la mia testa era un’altra rispetto a oggi, i miei pensieri, soprattutto, le mie paure, le incognite e il futuro. Questa ingombrante presenza del futuro che torna, e ritorna, e stravolge, mozza il fiato. Annienta.

Non faccio poi molto: leggo la seconda delle Lezioni Primo Levi, è dedicata al Levi chimico e scrittore insieme, una miscela unica che gli permise di ragionare intorno al tema del laboratorio, quello delle provette, quello del lager. Il discorso mi avvince, e anche se mi scoccia questa impresa senza senso in cui mi sono imbarcata, cioè quella di fare delle stories su Instagram sulle Lezioni Primo Levi, per capire come funziona questo social, procedo perché è bello, è interessante. Va via un sacco di tempo però, tempo in cui la lista delle cose da fare non si riduce, i quaderni mi osservano, e se anche sistemo liste e ordino file, cambia poco. Domani… Domani è un’altra incognita, è tutto un’incognita, la certezza è solo che domani ci sarà la Lezione Primo Levi di Bartezzaghi, e già la pregusto.

La serata vuole la luce accesa, e luce sia, nel set in cui faccio un video con me stessa e ne guardo uno in diretta Instagram. Il dinosauro che è in me emerge in tutta la sua anzianità da trentenne: ma che senso ha, Instagram? Perché decine di persone che non sento mai e con cui non parlo si fanno i fatti miei guardando le stories su Primo Levi, tra l’altro? Boh, spero almeno venga voglia di leggerle. Per il resto: sì lo so, non ho capito niente del mondo, dovevo darmi al marketing e forse adesso non sarei qui dentro una morsa che non molla mai.

Sogno di andare al mare. L’ho ipotizzato, cercando leggerezza: mi compro un materassino, un gommone, un canotto, poi trovo un passaggio senza gente, il distanziamento sociale, si sa, ed entro in acqua. No, non mi basta fare il bagno. Io voglio stare al mare. Stare. Al. Mare. Come condizione, come stile di vita, come obiettivo. Che sarà molto, molto difficile per mille e più ragioni. Cerco di mantenere alto l’umore, il che è una ricerca fallimentare, ma mi illudo di provarci, intanto tengo a bada i mostri e le incognite. Perché onestamente pensando, io alle cose belle tendo a non credere più: non ci credo proprio più, questo è il grande problema, e la pandemia non ha certo aiutato una negatività che stavo già coltivando da tempo. Per questo penso al mare, mi devo concentrare. Ed è ormai notte quando mi torna in mente una cosa che ho visto ieri, cerco la foto, perché ce l’ho: eccola, Non chi comincia, ma quel che persevera. Il motto della Nave Scuola Vespucci. Me lo devo ricordare, che anche in mare mosso, chi vince è chi resiste.

Non accendo quasi la radio, la ascolto pochissimo, in un raro isolato momento di rilassamento parte una canzone che ascoltavo anni fa, leggera leggera, viene voglia di sorridere e fingere che tutta questa cappa pesante non ci sia, perché intanto si riparte, e allora Put your records on, Corinne Bailey Rae:

Maybe sometimes we got it wrong, but it’s all right
The more things seems to change, the more they stay the same
Ooo, don’t you hesitate
Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!