Giorno numero 42 della quarantena, è domenica e piove. Ma soprattutto, penso la sera, è il giorno 42 che, per gli affezionati, è il numero che risponde alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto (il riferimento, per i non affezionati, è a Guida galattica per autostoppisti). Mi piacerebbe se, in effetti, oggi si squarciasse questo cielo grigio e potessi intravedere un’idea di futuro, la famosa idea di “nuova normalità” che rimbalza sulle pagine e nelle bocche di tutti, che occupa il novanta per cento dei miei pensieri.
La cosa buffa è che nei ricordi di Facebook oggi esce fuori una foto di una vacanza a Roma fatta nel 2015, un tempo rilassato e bellissimo, divertirsi senza preoccuparsi di nulla o quasi. Manca, oh, come manca: mi rendo conto che, probabilmente, sarebbe mancato anche senza pandemia: era proprio un altro tempo, un’altra vita. In queste circostanze penso che forse è vero, c’era bisogno di una pausa da tutto per ripensare a tutto quel che non andava. Mai ci saremmo aspettati una pandemia, mai avremmo desiderato la conta penosa dei morti e la paura di contatto con gli altri. Prendiamo quel di buono – se così si può dire – ci spetta. Insomma, in quella foto del 2015 vedo ricordi divertenti e soprattutto leggo una citazione che oggi, giorno 42, mi fa pensare e rileggere tutto in una luce nuova. L’avevo tratta da Guida galattica per autostoppisti, neanche a farlo apposta, e diceva così: «Ripristineremo la normalità appena saremo sicuri di cosa sia in ogni caso il normale. Grazie». Nuova normalità, dicevamo, no?
Oggi la giornata è lentissima e al contempo schizza. Sostanzialmente è vuota: la riempio con giornali, letture arretrate. Ritaglio cose che mi interessavano, recupero abbonamenti e cose lasciate indietro. Leggo, in modo disordinato, voglio rimettermi in pari. In pari con cosa? Sono indietro da tutta la vita. Faccio quest’azione inaspettata di aprire La Stampa Torino e la leggo tutta, pezzo dopo pezzo, perché c’è questo strano magnetismo che mi riporta a Torino: domani saranno due mesi da quando sono qui, lontana dalla città. Ci torno con il giornale, e giornale diventerà la parola del giorno, che mi riporterà a un’altra dimensione, fatta di notizie, di parole, di attenzione ai fatti là fuori, e non quotidianamente rivolta verso se stessi. Introversa: lo sono sempre stata, ora però di più. Per fortuna che sento questa distanza, questa specie di prurito remoto che mi fa collegare idee, pensare a servizi, interviste. Non serve a niente, lo so, ma tiene attivo il cervello, è un abbaino che permette di sbucare a osservare il mondo. Defilato, piccolo, scomodo: ma intanto c’è.
Dopo l’effetto straniante della cronaca di Torino mi perdo negli inserti culturali, quelli arretrati e quelli di ieri. Leggo interviste, recensioni, riflessioni, incappo nel diario di Francesco Piccolo e lo trovo molto vicino al mio pensiero: fare senza pensare. La rimozione. Ma qualcosa c’è, esce di notte, dalla botola dei sogni. Esce leggendo il giornale, e allora è forse per questo che l’ho distanziato, l’ho tenuto distante, distante come tutto il resto che non è casa, che non è mei, noi. «Ecco, io voglio tenerla compressa, questa paura, sotto un sacco di cose – scrive Piccolo –  Ancora. Il regista con cui sto lavorando in videochiamata mi dice: ma guarda che poi queste cose le tieni sotto, poi quando esplodono, non le fermi più. Ma io lo so, e però ho anche uno stratagemma: se io rimuovo e ignoro, ignoro e rimuovo, potrei riuscire a morire prima dell’esplosione, e quando sarò morto e l’esplosione non ci sarà stata, avrò vinto. A quel punto, avrò fatto bene a rimuovere. Per questo lavoro, scrivo, progetto, faccio riunioni, studio, prendo appunti. Perché è un anestetico contro mio figlia che se n’è andata via, contro i miei genitori che sono morti, contro i dolori che subisco e che provoco, contro i risotti che non vengono bene, contro tutte le volte che perdo qualcuno o qualcosa, contro i bollettini delle 18. Contro il coronavirus e quello che sta provocando. Contro il senso di tutto questo e contro quelli che dicono che tutto questo ha senso. L’idea che abbia un senso non l’accetto. La ignoro. La rimuovo».
Per rimuovere, leggo. Perché mi manca il giornale, perché mi manca un senso, in generale, perché la giornta è grigia, volevo uscire a fare quattro passi sotto casa ma la pioggia aumenta. Nel contagio di Paolo Giordano mi prende un’oretta: è interessante, lo avevo preso in edicola e lasciato lì, e in effetti dopo quasi un mese e dopo l’evoluzione allucinante della pandemia, c’è la giusta distanza, qualcosa è cambiato, ma serve per leggerlo senza essere troppo coinvolti. Leggere mi fa bene: scopro cose, collego altre cose, penso, penso addirittura che tante cose sarebbero possibili. Mi rinfranca un po’: come il lievito salvato con il bicarbonato e il pane che riesce, ha un sapore un po’ strano ma intanto non l’abbiamo sprecato. Ecco, vorrei non sprecare questo tempo: i progetti aumentano, cerco di stare calma, forse sono troppo calma e dovrei prendere tutto più seriamente.
Il rovello del giornale è grande. Metto a posto, o meglio cerco di farlo, i tantissimi file che ho su Kindle. Molte cose sono datate, riguardano il giornalismo, la condizione dei freelance. Ne apro uno scaricato all’epoca – 2013 – da Valigia Blu, un tempo che sembra distantissimo ma in realtà leggo metà ebook e trovo storie che sembrano la mia. Mi rinfranco tantissimo. Leggo il giornale, mi sembra di essere più vicina a tutto, ora che so che non è colpa mia. Non del tutto, per lo meno.
La giornata è definitivamente persa, allora sai che c’è? Che finisco Il treno dei bambini iniziato ieri sera. Quando arrivo all’ultima pagina di un romanzo che trovo bellissimo è ormai ora di cena. Un po’ mi vergogno: sono ancora in pigiama. Succede solo quando sono malata, e so che non va bene, mi riprometto che oggi era una pausa, da domani si riprenderà, più attivi, con tanti progetti che sono forse troppi, dentro mi ci perdo. E domani, domani, sì, cosa faccio domani?
Per fortuna mi allontano dai pensieri con l’ultima puntata del Bar Lume in tv, non c’entra niente coi libri ed è piuttosto demenziale, ma fa ridere, distrae. In effetti prima mi sono già distratta, ci ho riso su perché ho letto il tweet di Fabio de Luigi: «Finalmente la natura s’è ripresa i suoi spazi: ho il giardino pieno di delfini», con Luca Bizzarri che gli risponde «gegno» scritto così. Sembra un dialogo demenziale tra due amici. Un’amica mi fa venire in mente una serata estiva che diluviava, molto in tema con la giornata uggiosa di oggi: cerco un autoscatto che avevamo fatto, ridiamo rilassati, il che mi strappa un sorriso, mi dà conforto, che è l’espressione molto delicata che ha usato la mia amica.
La mattina si apre recueprando One World Together At Home, il mega concerto organizzato sta notte negli Usa da Lady Gaga. Ed è proprio lei a cantare un classico di Nat King Cole che mi regala… Il sorriso: Smile.

Smile though your heart is aching
Smile even though it’s breaking
When there are clouds in the sky
You’ll get by
If you smile through your fear and sorrow
Smile and maybe tomorrow
You’ll see the sun come shining through for you

Leggi tutte le giornate del mio diario di quarantena: 25 giorni a casa.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!