La parola di oggi è semina, e neanche a dirlo oggi è la puntata numero trenta di questo diario: scrivo da trenta giorni, apro un excell dedicato a questo diario e cerco di fare ordine, numerare, ritrovare parole disseminate lungo la via un po’ per caso un po’ per intuito un po’ per progetto, ricordare tutte le canzoni che mi sono dedicata, e che cullavano il momento. La loro colonna sonora: mi trovo, in serata, a pedalare senza suggestioni di ascolto, e vuoi un po’ per far crescere idee un po’ per emozionarmi, ascolto una canzone di Pino Daniele e la soundtrack di Hook Capitan Uncino. Mezz’ora vola in un attimo, mentre riprovo tutto, ritrovo tutto: me stessa, i mie punti sensibili, i punti di contatto con gli altri, con il mondo. La parete sfonda, è tutto improvvisamente chiaro e sereno. Pensare che ero ferma.
Oggi è una giornata serena: la primavera soffia aria tiepida e colora di bello la strada che guardo dal vetro dietro la scrivania. È primavera nell’aria, e si sente. Faccio una videochat con l’amica di sempre, “non sembra cambiato niente” è la frase che rassicura in tempi bui e strani, e che riporta all’origine di tutto. Siamo sempre noi, nonostante 27 anni trascorsi, che a pensarci sono una vertigine. Nonostante grosse fette di vita, incontri, esperienze, probabilmente anche idee. Ma sappiamo quali sono i consigli giusti, le buone pratiche per ritrovare noi. Sappiamo che a seminare cose in giro, poi qualcosa nasce, qualcosa germoglia.
Intanto spargo semi di anice in un impasto sofficissimo che lievita da ieri sera. È straordinaria la forza di un lievito che ho attivato ormai quindici giorni fa e che oggi è così forte da tirare su e riempire di bolle farina, uova, burro e zucchero. Si chiama pizza di Pasqua abruzzese, la sera scopro che forse è anche una schiacciata toscana, ma non importa, al centro di tutto c’è l’orgoglio gastronomico nazionale, e ci piace così. La tavola parla di questa stagione, e la spesa racconta di delicatezza e profumi: fragole, fave, piselli, asparagi. La cura nelle cose, la bellezza, la freschezza. Le cose ricorrenti che, si sa, torneranno. Mai come in questo momento servono a consolare, a ridonare un ritmo, quello delle stagioni, della natura.
Con la stessa ritmica certezza scavo nei ricordi per un giochino sui social e trovo dieci film che mi hanno segnato la vita. Il processo è abbastanza immediato, procedo sicura, e mentre riguardo i titoli e attendo commenti dagli amici, mi accorgo che questi dieci titoli sono un po’ un ritratto di me, di come vorrei la vita, di come spesso la vedo, di cosa mi solletica, mi diverte, mi piace. So che almeno un paio di persone ne sono coscienti, perché mi leggono attraverso, e mi conoscono da una vita, dunque mi solleva una videochiamata in serata di chi intuisce che la lirberia che ho alle spalle mi protegge e mi serve, e per cui è tutto normale, le mie idee, il mio casino, i miei fogli. Ed è tutto, nuovamente, così sereno da cancellare il mondo fuori, l’impazzare dell’epidemia che stravolgerà le vite di tutti.
Devo aver seminato qualcosa, in tutto questo tempo, trent’anni e trenta giorni che sono trascorsi nelle loro diverse fasi: l’angoscia, la rabbia, il senso di annientamento, la rinascita in serenità, tenendo per sè il poco di piccolo eppure importante che c’è ovunque, nelle cose di tutti i giorni. «Aspettiamo la “fase due” come un miraggio. La verità è che questa non comincia – non comincerà – con l’annuncio del governo o della Protezione civile. Dovrebbe già avviarsi oggi, dentro di noi. Con essa anche la preparazione alla successiva “fase tre”» leggo sulla newsletter del Corriere della sera cui mi sono iscritta. Ci trovo della verità, mi guardo dentro e vedo le tappe, vedo i segnali, le luci di segnalazione, vedo in fondo una consapevolezza, quella di qualche amico importante, di un percorso definito che disegna i contorni di ciò che sono. Una determinazione inedita, miope per forza di cose, eppure più solida, forte di cose seminate e ora cresciute in un bosco interiore che ossigena l’aria.
«Il 7 marzo era sabato – scrivo su Facebook la sera, un occhio al calendario mentre scaldo la cena che faremo tardi per via del gas e dei casini con la caldaia che fa nonna – Sono andata alla Galeazza, avevo con me due libri lasciati a metà. C’era Cultura orizzontale, di Zanchini e Solimine, c’era Isole, un arcipelago semiotico, con testi a tema. Il mare era frizzantino, il sole però scaldava noi pochi esseri umani che sfidando la crescente distanza sociale annunciata dal tg avevamo deciso di rifugiarci tra gli scogli. È stata l’ultima volta che ho visto il mare da vicino. E ho letto di paradigmi comunicativi modificati, di orizzontalità nella fruizione culturale, di superficialità pericolosamente dominante, di isole e arcipelaghi del senso, di eroi fuggiti sulle isole per salvarsi, o al contrario costretti a scappare perché soffocati in una gabbia. Ho letto il futuro e non lo sapevo, un mese fa: l’ultimo giorno che ho visto il mare».
Anche in questo caso, avevo seminato. Ci penso mentre stendo una lavatrice e mi cade una molletta di legno giù in cortile, mentre mostro il dolce lievitato agli amici, mentre chiacchiero di notte con l’amico lontano che non vedo da agosto e sembra una vita, e mi manca pressante un abbraccio, mi manca la sicurezza di poterci incontrare come se fosse tutto normale in un borgo ligure che ci racconta, ci descrive e ci consola sempre. Ma continuo a seminare, arriverà il giorno in cui qualcosa nascerà.
Passa in radio e sembra proprio di tornare indietro, a tempi altri, tempi dove c’ero io: Maybe Tomorrow, Stereophonics:
It wastes time
And I’d rather be high
Think I’ll walk me outside
And buy a rainbow smile
But be free
They’re all free

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Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!