C’è concitazione nel dehor su corso Vittorio. Sono lì al bar con la mia amica, è tutto normale. No, non è vero, l’atmosfera è strana, non ci si può avvicinare, c’è qualcosa, qualcosa nell’aria. Vado alla fermata del tram e anche lì tutti mi guardano, io cerco a fatica di mantenere la distanza, ed eccomi a Porta Nuova, dove c’è il caos: persone in tuta di biocontenimento, persone con la mascherina…

Il virus è entrato nei miei sogni. È così che mi sveglio oggi, con la testa nella mia vita passata, a Torino. Resto un attimo stranita, sorpresa, piena di domande e sottili lampi di angoscia. Mi sento spaesata. Non sono nemmeno ancora fuori dal letto e già mi commuovo: a chi è spaesato ma si sente ancora parte di un paese, e giù immagini di un’Italia bellissima e vuota in modo struggente, occhi di persone e sorrisi, e la voce di Sofia Loren calda, ferma, orgogliosa. Sono già sopraffatta da tutto, ma su whatsapp trovo abbracci notturni di amici che non ho fatto in tempo ad acchiappare perché mi sono addormentata. Mi sento piena di affetto, mi sento bene anche se non è che poi abbia le idee così chiare.

Ciondolo, si dice così qui da noi: ciondolare, vagare per la casa, magari in pigiama, il caffè in mano. Abbiamo sbagliato a comprarlo, è quello per moka, e quindi abbiamo tirato fuori la moka. A me piace di più, ha un aroma avvolgente e caldo, la mattina è quel che ci vuole. Stamane, poi, serve davvero una cosa forte per permettermi di toccare con mano le mascherine cucite con grazia e amore che la mia amica sarta ci ha confezionato. Sono sincera: mi fanno impressione. Nemmeno provo a indossarla, si vedrà quando dovrà succedere.

E così riprendo a scrivere, non combino nulla. Nulla, oggi davvero deserto. Continuo a rileggere appunti, a cercare di allestire idee, mando una mail assurda a cui nessuno risponderà, ma intanto ci ho provato e mi ritengo un po’ a posto. Senza aver concluso nulla, senza nemmeno idee, circondata da stimoli, cado ancora una volta nella trappola del troppo. Ma non cado solo io: oggi è il giorno in cui un altro ponte in Liguria crolla rovinosamente come se fosse di cartapesta. Si evita il disastro solo grazie al decreto che ci chiude tutti in casa, ma le immagini fanno impressione, ancora una volta, sembra la normalità. Non dovremmo mai scordarci che non lo è, anche se oggi il virus si prende la scena, anche se siamo preoccupati per altro: ma in Liguria crollano ponti e il Morandi è una ferita ancora aperta di nemmeno due anni fa.

Ecco, il 2018. A darmi la spinta finale per invischiarmi in un palco di ricordi e lacerti di storie possibili e passate è una foto di Facebook. La foto che mi ricorda chiramente che siamo ad aprile, e aprile, la sua forza, i suoi profumi, le sue spinte, è proprio la parola di oggi. Ci sono quelle due sedie di plastica sugli scogli del molo, in mezzo al mare che è azzurro come in un pomeriggio di aprile con il sole, il primo sabato con la giacca leggera, tre amici importanti, ritrovarsi in uno spazio che ci ricorda le radici. È tutto così naturale, così calmo, così pacificato che svisceriamo il mondo: aprile 2017, mari di emozioni, i sorrisi sotto gli occhiali da sole, le fragilità di ognuno, bellissimi, quanto affetto che provo per quei tre, li vorrei qui, vorrei abbracciarli. Consolarli, chinare il capo ed esplicitare le mie pochezze e la vergogna di non essere abbastanza forte, e basta recitare, giù il sipario, che diventeremo grandi, passeranno tre anni e sarà la rivoluzione di ogni cosa che avevamo lanciato come sasso in mare di quel pomeriggio pigro di aprile. C’era l’odore del mare e del sole sulla pelle ancora bianchissima, il profumo della prima fioritura gentile dei pitosfori sul lungomare, che inondava la sera immobile, e in quella stasi che era una promessa d’estate esplodeva la bomba. Come faccio a dimenticarmelo? Come faccio a non pensare con una vagonata di magone e frastuono al mio amico che mi racconta quello che mai avrei pensato? Chi sono, io, in quella foto di aprile, per raccogliere i cocci del mio amico e rifarne una persona piena, e sorridente?

Non sono nessuno: io sono quella che è rimasta a pensare a una scena di aprile che torna sullo schermo e spiega le sensazioni di questo mese, la voglia di vita, di abbracci, di amici, di parole che scavano profonde e risate libere, e scemenze e mare e pomeriggi di azzurro e progetti. Sono quella lì, che si attacca prepotente a un’immagine mentre intorno il mondo è un altro, ha già fatto tre giri completi e regalato capelli bianchi, canzoni e nuovi orizzonti.

No, oggi ho davvero troppi pensieri per mettere a fuoco una trama dignitosa, è meglio adagiarsi al sole. Rieccomi: sullo scalino di ardesia dove oggi sto in mezze maniche come d’estate finisco un libro sulla storia di Salinger, ne ricavo un ripasso di tematiche già studiate e una manciata di immagini folgoranti. Oggi sono così in cerca di affetti solidi dal passato che finisce per mancarmi anche Holden, e in questa commistione di vita e pagine finisco dentro un secondo romanzo, Notturno di Gibilterra, ma la luce arriva così dorata che non cercare di fissare questa bellezza di aprile sarebbe un peccato. Mi aggiro con la Canon, vedo cose, afferro colori, inseguo una gatta. In un attimo è sera: non ho fatto niente ma le occhiaie mi segnano un viso che vorrebbe raccontare serenità e non ce la fa.

Sono le otto quando i lampeggianti di un’autoambulanza entrano dal vetro della cucina. Non c’è stata sirena, e non è un’ambulanza, ma un’unità mobile. Mi sto infilando una maglia e tra le fibre dico a mia mamma «guarda se escono gli operatori con le tute». Dopo pochi secondi arriva la risposta, ed è un sì. Vorrei vedere, vorrei che gli occhi registrassero l’immagine terrificante che ho appena evocato come fossi dentro un dialogo al cinema, ma non faccio in tempo. «È appena entrato dal portone» dice mia mamma, e mi indica il palazzo di fronte al nostro, pochi metri, la luce blu si specchia sul nostro terrazzo e sul balcone lì davanti esce una signora con mascherina che riferisce «quarto piano». Mi spavento, mi suggestiono, mi cade il mondo addosso. Sotto casa, ora, qui: un film alla finestra, di quelli che non avrei mai voluto vedere nella realtà. E si svolge, non c’è il tasto pausa, non è possibile uscire e ritrovare l’aria, perché in quella stessa aria leggera di aprile adesso c’è anche il lampeggiante, e sosta minuti, minuti interi senza che si senta nulla. Tiriamo le tende, chiudiamo i vetri: la discrezione. Solo poco dopo l’aria dell’imbrunire si rianima con la chiusura del portellone: mi affaccio. Li vedo. L’unità mobile si mette in moto, dà la precedenza e si ferma, ed è lì che l’occhio vorace va alla cabina di guida, e li vedo, vestiti di bianco, con le tute che li coprono tutti. Sono le otto di sera e noi ceniamo, il telegiornale va ora in onda oltre la finestra, sotto casa mia.

Serve molta forza: non credo di averla. Servono idee che non sono ancora maturate, fiducia che è miope, amici che sono lontani, abbracci che arrivano mentre dormo, progetti che provano a stare in piedi barcollando. Sto pensando di preparare un orto: la voglia di fare, dopo una giornata così, è feroce.

Suoni dal passato rischiarano l’atmosfera della mattina: è una Splendida giornata, Vasco Rossi

Oh splendida giornata
Che comincia sempre con un’alba timida
Oh splendida giornata
Quante sensazioni, con quali emozioni poi
Poi alla fine ti travolgerà

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Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!