Tutto quello che è un uomo di David Szalay (Adelphi) è un libro che resta dentro. Non ho ancora capito perché, eppure l’ho finito da un po’, ed è ancora nella mente che riaffiora, bussa, chiede di tornare. Non mi stupisce che un amico mi abbia detto che lo ha amato tantissimo, e che ha riletto alcuni racconti. Credo lo farò anche io: una rilettura è forse lo strumento più utile, e talvolta necessario, per aprire la porta al quel bussare di un libro con una potenza di struttura e narrazione rare.

Tutto quello che è un uomo è, tecnicamente parlando, una raccolta di racconti: sono nove, ciascuno dedicato alla piccola-grande storia di un uomo nel corso di diverse età della vita, dall’adolescenza, alla prima maturità, all’età adulta fino all’inevitabile tramonto. Passiamo così dai ragazzini che partono in interrail a spasso per l’Europa e hanno le prime esperienze con l’altro sesso, al ventenne già stanco che subisce gli eventi, all’impulsivo, bodyguard vicino ai trenta, mentre nei trenta, rampante, è l’accademico ancora immaturo. E poi c’è il giornalista affermato che getta la sua vita nel lavoro, l’agente immobiliare nel pieno della vita adulta, tra scelte e aspirazioni chiuse dentro, il cinquantenne fallito che inizia a percepire un declino, il magnate che perde soldi e fiducia nel futuro, e il settantenne che si guarda indietro perché davanti, ormai, c’è poco orizzonte.

«Un oggetto unico», così ha definito Paolo Giordano questo «romanzo in nove racconti» di David Szalay alla presentazione torinese a cui ho avuto il piacere di partecipare, una sera di marzo alle Ogr. E ringrazio Adelphi per avermi coinvolta in questa iniziativa permettendomi di conoscere questo oggetto così particolare, che non interpone tra le sue pagine e il lettore quella fatica che, solitamente, io sento con le raccolte di racconti, ma quasi invita a proseguire. Sono gli invisibili fili ricorrenti che intrecciano quasi impercettibilmente i racconti a farne quasi un romanzo, a permettere al lettore di soggiornare in una narrazione complessa, lunga, in cui c’è spazio, e non la veloce risoluzione di un racconto.

Si tratta infatti di una struttura piuttosto ragionata, dove nessun elemento è casuale. Ogni protagonista di questi racconti è un uomo – da qui il titolo – e ognuno di questi racconti procede, in progressione dell’età. Cambia la voce a ogni racconto, ma non cambia l’immersione temporale, che è quella nel nostro contemporaneo, su una scala idealmente parallela dove potremmo collocare tutti questi personaggi maschili, quasi sovrapponendone le esistenze e provando a ricostruire così, alla fine, Tutto quello che è un uomo: un’integrità, che cresce attraverso le età, e che in quegli strati anagrafici differenti individua il fulcro, l’umanità.

L’immagine di copertina di questo bel volume blu scuro è emblematica: c’è un ragazzo che voga, colto nello sforzo di procedere, nel momento in cui, calati in acqua i remi, sforza per provocare la mossa successiva, smuovere la superficie, con un colpo di reni che può essere faticoso, a volte doloroso. È un uomo che procede, tutto quello che, spogliato dai fronzoli, resta di una vita umana in movimento, sul fiume della vita. «È come se avessi voluto raccontare una vita esemplare di oggi» ha infatti spiegato Szalay: entrare dentro la testa di uomini di diverse età, cogliere in loro il punto di contatto del remo sull’acqua, la vena di sottile fragilità che causa movimenti, scelte, mancati passi, e strutturare così nove esistenze piene, che ci parlano di noi stessi, del mostro mondo. Che, immediatamente, lette solo poche righe del primo racconto, ci risuonano già dentro.

Non è certo solo merito della struttura e dell’intenzione di questo romanzo-raccolta di racconti che con il suo congegno tende una sfida alla forma classica del romanzo, ma anche della lingua. Vero, ho letto questo lavoro di Szalay in traduzione (l’ottima traduzione di Anna Rusconi), ma la lingua emerge – io credo – in modo ugualmente vivido. Flussi di coscienza, colti nel vivo di menti pensanti da un narratore in terza persona che vede tutto, anche gli inceppamenti che nemmeno i protagonisti sanno spiegarsi, le impasse in cui restano imbrigliati. Ed è così che in quelle menti, in tutto quello che questi uomini sono, noi lettori ci troviamo un po’ a casa, nell’imperfezione perenne che ci contraddistingue e che ci rende i complessi esseri che siamo. Credo si nasconda qui il magnetismo di queste narrazioni, quella perfezione del racconto che suscita la voglia di riprenderli, di rileggerli, per la loro forma e struttura ineccepibile e per la loro lingua.

«Ho iniziato a scrivere e non mi trovavo più nella forma del romanzo – ha spiegato l’autore alle Ogr di Torino – ero alla ricerca di qualcosa di diverso, il romanzo classico con la sua struttura non mi corrispondeva più. Avevo iniziato a scrivere una storia breve e arrivato alla fine ero felicissimo del lavoro, soddisfatto da una lunghezza giusta: era sufficientemente lungo per approfondire dei contenuti dal punto di vista della narrazione della storia, ma anche breve per permettere di non dover indagare i trascorsi del personaggio». Ed è realmente questa, l’altra caratteristica folgorante di questo libro: i racconti bastano a se stessi, lunghi quel tanto da entrare nelle corde del personaggio, ma brevi come soffi, pochi attimi sulla vita – e su uno specifico momento della vita – di chi vediamo in scena, dei suoi problemi, delle evoluzioni che determinati episodi creano e causeranno. L’equilibrio perfetto: una formula che Szalay ha trovato, e restituito con queste pagine.

Ha infatti proseguito l’autore: «non mi interessava esplorare ogni sfumatura che definisce il personaggio ma scrivere qualcosa con una valenza universale, in cui tutti potessero ritrovarsi, e non solo un singolo individuo. Dovevo capire come collegare queste storie, serviva un significato generale che le caratterizzasse tutte. Allora l’ho impostato secondo una progressione temporale specifica, nella dimensione transeunte della vita, del tempo che scorre. Le singole dimensioni temporali di ogni età hanno infatti dimensioni limitate, volevo soffermarmi sul tempo che passa».

Ogni storia, una perla. Ogni storia, la storia di un personaggio calato nei panni di un uomo della sua età, sia esso un ragazzino adolescente, un adulto maturo, un uomo prossimo alla fine. Ognuna è autonoma, perfettamente equilibrata, eppure tutte rimano con le altre. Non è un caso, Szalay ha raccontato di essersi divertito a tessere la trama di rimandi, che talvolta, ha detto, sono stati casuali, ma sull’onda dei quali ha ricucito invisibili indicazioni, segnali, ritorni. Sono questi riverberi  – oggetti, dettagli, aspetti quasi subliminali tra una storia e l’altra – a pungerci, attivarci un dubbio, mettere in moto la grande macchina interpretativa nella testa di noi lettori e, sono arrivata a spiegarmi, a farci sentire come dentro un romanzo, dove dalla prima a all’ultima pagina, come diceva Ferdinand De Saussure, tout se tient.

Tutti gli uomini raccontati sono, spesso, definiti da ciò che fanno, dalla professione, specifica, funzionale alla struttura del libro, nel consueto gioco che, lasciando autonoma ogni storia, la rende tuttavia parte di una struttura più grande, quella del libro. Tutti gli uomini raccontati sono altresì colti in un punto problematico, incapaci di mettere a fuoco una relazione e scendere in profondità, sospesi su possibilità future per la propria vita e per il momento che si trovano a vivere e che spesso li soffoca. A cambiare le carte in tavola non sarà mai una scelta definita, ma una rivoluzione casuale e disorganizzata: ed eccoli, questi uomini, buttati nella vita, rimessi in gioco.

Alla fine di questa lettura avremo tante storie nella testa, ma un unico bagaglio fatto di scorci su diversi uomini, diverse situazioni di vita. A legarle tutte, due fattori, di cui uno crea la vibrazione interna e psicologica, e l’altro funziona da scenario sullo sfondo. C’è infatti, attraverso ogni storia, una tensione viva tra l’esperienza soggettiva degli uomini di cui si narra e una sorta di stereotipo che la società gli ha imposto. È nella dimensione del confronto tra questa casella sociale e la vera esperienza quotidiana dei personaggi che si apre lo spazio – che è uno spazio misurato sulla distanza – di solitudine, di isolamento, di agitazione.

Il secondo aspetto, legante dei nove racconti, è l’ambientazione. Non è singola, non è precisa, ma è grande come un intero continente, perché questo è un libro tutto europeo, e lo dichiara apertamente  non solo chiamando lo yacht del magnate dell’ottavo racconto proprio Europa, ma variando di narrazione in narrazione lo spazio, che non è mai uno solo, ma è spesso un viaggio attraverso luoghi del continente antico. In Tutto quello che è un uomo l’Europa è uno spazio di libera circolazione per persone in movimento, colte nel loro spostarsi da uno stato all’altro. Non a caso il libro si apre con un’interrail, ci sono voli aerei, viaggi in auto, percorsi in mare. «Volevo scrivere di un’esperienza personale, che è la mia – ha chiarito Szalay, che ha una biografia segnata proprio da spostamenti e abbattimenti di confini e soglie tra Regno Unito, Ungheria, Francia – è una dimensione, quella europea, interiorizzata ormai dalla mia generazione e da quella dopo».

La dimensione del viaggio, dello spostamento, è presente e vivida: senza, questo libro non avrebbe lo straordinario potere letterario che cattura e affascina il lettore. Uomini, a tutto tondo, ma dentro a un contesto che, senza più confini, è anch’esso a tutto tondo. Una realtà estesa, uno sguardo allargato, che forse più di tanta cronaca e geopolitica riesce a restituire l’immagine contemporanea di tutto quello che è, oggi un uomo europeo. La condizione di immobilità mal si intona a queste storie, narrazioni in movimento. «Scrivere un romanzo è un viaggio: non sai dove arriverai» ha significativamente concluso Szalay nel suo incontro torinese. Leggere queste storie è un viaggio altrettanto importante e formativo: non ho ancora capito dove sono arrivata, è il bello di questa esperienza di lettura, che risuona, fa vibrare corde, e invita, ancora una volta, a non posare il libro e a rileggerlo, e ancora rileggerlo.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!