Se dovessi descrivere novembre direi una parola sola: nebbia. Una situazione di stasi, attutita dalle ore passate in casa, le giornate buie, le luci un po’ surreali, l’attesa dell’entusiasmo di Natale dietro l’angolo, e intanto un lungo mese d’autunno, foglie gialle e pagine, tante, tantissime pagine. Occhi stanchi e mente dolente. Si dice dolente, riferito alle mente? Pensieri stanchi, un po’ affranti, preda di ansia, senza spazio per ossigenarsi, riprendere fiato. Una specie di tunnel di fatica, testa china sulle pagine – l’ho detto che a novembre ci sono tante, ma davvero tante pagine – avanzare, intravedere la nebbia fuori dal tunnel, altro che la luce, ma sempre avanzare, senza trovare risposte, senza diradare i veli posati sulle cose. Il futuro: a fine anno bussa alla porta, e spesso non si hanno anticipazioni: lui bussa, tu vorresti accoglierlo, ma è una dama velata, avvolta nelle bende dell’ignoto da logiche che stanno fuori dalla tua esistenza, e che hanno deciso altri. Altri a cui interessa a dire il vero molto poco di te. E allora chissà, nel dubbio si continua a lavorare.

Sono stanca: credo sia stata la frase che ho ripetuto più volte in questo mese iniziato una notte di pioggia al jazz club di Torino, tra i rimbalzi di mille colori delle luci d’artista. Sono stanca di non avere risposte, di aspettare perché le scelte dipendono dagli altri, di dichiararmi perdente perché tanto è sempre il solito ricatto, di sorridere agli ipocriti. Le solite cose, ecco, solo che a novembre hanno assunto dimensioni pregnanti, vere, dame velate nella danza della nebbia, perché novembre ha l’immagine di una piazza avvolta da una coltre color latte. Spiazzante come certe letture, da Marcovaldo a Giorgio De Maria, fino a Giovanni Arpino. È novembre del tornare a casa a piedi di notte percorrendo chilometri di infilate di portici e tappeti di foglie, binari di tram e sagome di neon rosso.

Novembre è buio, tè e fette di torta, pioggia, tanta pioggia, concerti e teatri, battere frenetico sui tasti. E una presa d’aria: casa. Una sola, breve e struggente di bellezza tra il mare d’inverno e una passeggiata al tramonto dopo una bellissima esperienza musicale. Attimi fragilissimi di una serenità che altrimenti è sperduta e rannicchiata in un angolo. Aspetta. Cosa, non lo sa nemmeno lei: è nebbia ovunque.

E poi novembre è anche l’emozione forte di un teatro Regio invaso da gente comune per ascoltare Ezio Bosso e le sue prove aperte, per vedere l’energia folle di una persona che ama il proprio lavoro – la propria vita -, una passione così grande che lenisce, ma che forse è così vasta, profonda e pura da restare fuori dal recinto delle esperienze personali al motto di “nel mio mondo non sarà così, mai”. Eppure una spinta c’è, più che uno stimolo a fare, un puntello piantato solido a ricordare. Tornare, e ricordare. Aggrapparsi al puntello in caso di slavina, in caso di perdita di punti di riferimento altri. Novembre è una danza delle foglie nella nebbia mentre si aspetta che ritorni il sole. Perché diamine, tornerà.

È pazzesco, ma tra lavoro, corsi di formazione obbligatori accelerati per ore, serate angoscianti di fronte alla sfrontatezza umana e candeline spente sopra un paffuto krapfen, novembre è tutto qua. Tantissimo e in fondo una manciata di ricordi persi nella nebbia. È capitoli, righe, pagine – sì, lo so, l’ho già detto e lo ribadisco, le pagine – tabelle di marcia, telefonate e qualche bella intervista acchiappata di sguincio che in pochi purtroppo hanno letto (come quella sul Forum del libro e quella con Marco Pisani di Inrim, o come quella più personale fatta col mio amico Matteo). Ed è anche arrabbiatura, amarezza per le disparità e le ingiustizie di una carriera e di un lavoro, dall’università al presidente Mattarella a Torino, che pure sono riuscita a vedere dal palchetto bellissimo del Teatro Carignano. Ancora, svaporato il malumore, novembre è serate tra le luci vagando al freddo, pacchi di biscotti, scorci fugaci di città. E un profumo di lavanda che accarezza, rasserena, calma il fiato. Nell’attesa che torni ordine, che il velo strappi l’attesa nebbiosa, la fatica e l’impegno miope e si riveli uno scenario chiaro, attivo, dinamico, consapevole, più leggero. C’è bisogno intenso di leggerezza. Forse di Natale. Forse di casa. Forse di tutto questo messo insieme per ricostruire nitida l’immagine dell’unico appiglio che resta in mezzo alla nebbia di novembre.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!