Cara Galeazza,

come stai? Lo so, è una domanda di quelle banali formulate con malagrazia in circostanze drammatiche in cui si dovrebbe essere così illuminati e saggi da trovare parole migliori, o da tacere. Mi scuserai, ma avevo bisogno di parlarti con urgenza, e non sapevo come altro iniziare questa lettera che mi scappa dalle dita mentre scorro le immagini dei disastri della tempesta perfetta – così la chiamano al tg – della notte tra lunedì 29 e martedì 30 ottobre 2018.

La data la scrivo per esteso, nei dettagli, perché deve essere ricordata: è la data di un evento atmosferico inaudito e sconvolgente, una mareggiata e una burrasca con venti e violenza di un’intensità che qui, dove stai anche tu, nella Liguria di Ponente, non si era mai vista. Dico Ponente, ma dovrei dire Liguria e basta: tutta la regione è stata devastata da questa mareggiata mai vista, evento che sarà inserito negli annali della navigazione per le sue forze segrete e scatenate che si sono trovare mescolate tutte insieme a manifestare la furia di Gaia.

Da Spezia a Ventimiglia, nessuno è stato escluso. Sono volati giù alberi secolari come fuscelli, tetti, serre, dehors, chioschi… Te lo racconto perché forse non lo hai saputo, tu che sei lì con le radici fonde a bagno, all’estremità est della mia città. Chissà cosa hai visto, se lo sai, che il lungomare di Diano Marina è stato invaso dall’acqua, alberi caduti in passeggiata, i chioschi dei bar affossati come fossero di carta velina, un cimitero di posidonia spiaggiato su quel che resta del litorale. Molto, molto poco.

Chissà se ti sei accorta di quello che accadeva dalla parte opposta, nelle spiagge di Imperia che stanno a ponente della tua figura triangolare che svetta: dell’anfiteatro della Rabina invaso dall’acqua, del muricciolo del Pennello andato giù sbriciolato sotto la forza delle onde così alte come non si erano mai viste. Le stesse che hanno aggredito con una violenza terribile il muretto di marmo bianco della Spianata. Per me è l’immagine del disastro: la balaustra che non c’è più, dietro gli spruzzi, alti come un geyser sconosciuto a questa costa mediterranea, un vuoto che non spiega quale esplosione allucinante abbia divelto la pietra, l’abbia scagliata in alto, sulla passeggiata, e in parte l’abbia inghiottita, portandola nella turbina degli abissi marini.

Chissà se hai letto, dalla tua posizione, il cedimento del molo lungo di Oneglia, nel tratto nuovo, quello che hanno costruito negli anni Duemila, dei box dei pescatori travolti, migliaia di euro di reti trascinate in porto, irrecuperabili, barche affondate, l’acqua che si riprendeva il piazzale fino a scorrere sui gradini della Capitaneria. No, questo da dove sei tu non potevi vederlo. Forse, però, potevi immaginarlo, mentre ti ancoravi sempre di più al fondale per resistere alle raffiche furiose, alla corrente furente, certa di vedere strappare dalla violenza delle onde quella scala di cemento appiccicata lì e già in bilico da anni. Forse attendevi l’attimo in cui il gorgo del mare, dopo averla staccata, te l’avrebbe scagliata addosso ferendoti. Invece mentre chili e chili di acqua e pietre si trituravano colpendoti nella loro furia, la scala è rimasta miracolosamente illesa. È lì, ancora attaccata. L’ultimo gradino finisce in mare in quell’immagine così poetica che ho sempre ricollegato alla scena iniziale che ha per protagonista l’uomo con la gardenia blu all’occhiello del Bar sotto il mare di Stefano Benni. L’omino cammina sul molo, sicuro, spedito. Raggiunto il faro scende una scala, si inabissa, sparisce alla vista di noi esseri dotati di polmoni e si ritrova per incanto nel regno sottomarino delle storie. Ci pensavo spesso quando ero al mare, sdraiata su ciottoli che chissà ora dove sono stati gettati, a osservare scogli e patelle che con tutta certezza non hanno retto alla furia smodata di lunedì sera. Perché la spiaggia, anche in questo caso, non esiste più.

Cos’è successo quella notte, Galeazza? Tu c’eri, tu lo sai, lo hai sentito sulla tua pelle. Schiaffi così potenti dal tuo Poseidone non ne avevi forse mai sentiti. Eppure sei ancora lì, ti hanno vista i miei genitori, ti hanno fotografata e ti hanno fatta arrivare sullo schermo del mio telefono, come a dire «c’è ancora, è al solito posto, punto fermo in una città che crolla, si sgretola e va giù, si inabissa sotto il nostro sguardo attonito e impotente».

Mi è tornata in mente la solita poesia di Giuseppe Conte che mi risuona nei pensieri quando succedono questi disastri. Mi è arrivata negli occhi contemplando sconvolta i gozzi di Arenzano galleggiare come fantasmi nelle vie del centro invaso dall’acqua, aggiornando pagine online che mi mostravano l’avanzata del mare, l’ineluttabilità di quelle onde con gli spruzzi bianchi schiaffeggiati dal vento atroce e dalle correnti. Ecco perché questa volta è diverso, se penso a quella poesia. Questa volta è un risuonare più intenso, un’eco che diventa una sirena di allarme, come quella della boa dei pescatori di Noli, che lunedì notte suonava, suonava come in guerra, in mezzo al fragore apocalittico del mare. Quella poesia mi è tornata in mente perché assolve in pieno al suo titolo visionario: Secondo la profezia.

Eccola, te la faccio avere, perché forse tu, saggia roccia triangolare abituata agli schiaffi del mare e alle sferzate del vento, sperone di poesia affondato nell’azzurro, potrai aiutarmi a capire cos’è successo, cosa c’è stato prima, e cosa ci riserverà il futuro.

La Liguria crollerà in mare, è certo, i suoi
confini alti al vento di abeti e di agrifogli e le
colline antiche terrazzate, di pinastri, di
ginestre, di ulivi, le rocciose
aeree propaggini del cactus e dell’aloe, interi
parchi di palme e di araucarie, ville
bianchissime, le chiese intatte e quelle già sventrate
dai terremoti: su tutto calerà il silenzio colmo di
fondale. Sul pelo dell’acqua poche rame
di precoce mimosa, dell’errante pitosforo.
Liguria dalle città livide, algose, di gusci, traversate
da squame e da correnti: incrostate
di buio, del buio bagliore attonito
di dopo le catastrofi. Noi soli ci
salveremo, noi che abbiamo imparato a
camminare sull’acqua: sul pelo dell’acqua
poche rame di precoce mimosa
basteranno, il vento soffierà l’Isola Viola
nuova ai nostri occhi, seguiremo la rotta dell’errante
pitosforo.

La Liguria sta precipitando in mare, e si inabissa. Le cose crollano: ponti, muri, argini, tetti, pini marittimi, rugosi ulivi secolari, alberi da frutto strappati agli orti che da generazioni sottraiamo alla frana e conteniamo con i muretti a secco. Il mare si riprende ciò che è suo: colate di cemento, moli, infrastrutture, passeggiate e spiagge. Tu Galeazza lo sai bene: eri lì quando hanno aperto l’Incompiuta, quella strada che non esisterebbe, striscia di asfalto imposta a tagliare un crinale che da Capo Berta si tuffava in mare in una scarpata di roccia e pini e ginestre. L’Incompiuta che è sempre crollata verso il mare con frane, voragini, cedimenti e aggressioni corrosive del sale marino. Chissà come è adesso, quella strada fantasma che mio papà percorse con una vecchia Fiat una volta sola, all’inaugurazione, prima che si capisse che non era carrozzabile e finisse così, incompiuta come il suo nome, pista preferita di runners, ciclisti, poeti e sognatori.

C’eri anche quando hanno costruito il muraglione di pietra di cui ogni estate contempliamo un po’ impauriti l’erosione, onda dopo onda, colpo di pietra dopo scoglio. Il mare lo ha piano piano scavato come, nel giro di poche ore, lunedì 29 ottobre ha fatto con gli scogli che sorreggono i binari del treno tra Albenga e Ceriale. Gutta cavat lapidem. Ma quando si scatena la furia degli abissi con una tempesta di carattere oceanico come quella dell’altra sera, i muri che parevano poter durare per sempre si sbriciolano e cedono a chi è più forte.
Avrei giurato e sperato di vedere per sempre quel muretto di marmo bianco della Spianata. C’è in una vecchia foto di mio papà bambino, negli scatti di quando era ragazzo e ci camminava sopra in verticale, era la corsia per mia mamma quando mi portava in carrozzina da neonata, e il simbolo delle corse in bici quando ero più grandicella. Sulla Spianta, al riparo di quel muretto, c’era la giostra, i chioschi, l’edicola, Sogni d’estate con il suo scivolo da acqua park e la piscina azzurra che ora è stata squarciata insieme a tutto quanto lo stabilimento. Quante volte seduti su quel muretto a leccare coni gelato, a chiacchierare, a salutare la gente in spiaggia. Quanti fuochi d’artificio ammirati seduti in punta alla piattaforma, quella lì vicino alla Scogliera che poi è diventata il Koko Beach e che adesso non esiste più. Quante passeggiate sul molo, quante onde prese avventurandosi in inverno in cima, senza pensare che un giorno quelle stesse onde, di potenza inaspettatamente maggiore, avrebbero squarciato la pietra e avrebbero mandato giù il braccio sul mare preferito di chi è nato qui. Il molo è protezione, abbraccio sul porto e luce che segnala l’approdo sicuro. Il molo di Oneglia, con la sua propaggine fuori norma e frutto di un progetto farraginoso, era una passerella in mezzo al mare che arrivava fino quasi alla foce del torrente, in punta al canalone d’aria che scendeva giù dalle Alpi Marittime. Quanto vento, là in cima. Quanti sogni, foto a tramonti infuocati, attimi di pace, quanti sguardi rivolti all’orizzonte e altrettanti spalle al mare a contemplare il quadro a colori pastello di casa mia.

Perché sì, lo so che lo stai pensando: quanto sono provinciale e autoreferenziale a dirti tutto questo e a continuare a parlare di casa mia che crolla e si sgretola sotto la forza degli elementi e la morsa del cambio climatico, se poi a Rapallo non esiste più un porto e ci sono danni incalcolabili, se Boccadasse è stata cancellata, se a Savona hanno preso fuoco decine e decine di auto.

Non penso solo a casa mia, dai, non dirmi così, lo sai bene che ogni volta che osservo l’orizzonte dietro la tua sagoma è a tutto il mare, che penso. Quel mare si è mangiato in un boccone la mia terra intera, una Liguria fragilissima, e come il dispiacere per casa mia, immensa è la preoccupazione per tutta la costa. Per le persone che hanno subito il mio shock, per chi ha perso la barca, per i pescatori, per le attività turistiche tutte, dai bar, ai chioschi, agli stabilimenti balneari. Tutta la Liguria vive di questo: piccola terra sul mare, con le sue casette, le sue pescherie, la focaccia da mangiare mentre si passeggia sul mare. E tutto questo adesso non c’è più. Non ci sono le reti, i box, le spiagge, i locali: è solo silenzio e contemplazione dalla forza del mare. Poi giri le spalle alla collina e ti accorgi che insieme ai tronchi secolari sono volate via nella furia degli elementi anche le olive. In pieno periodo di raccolta. Un terzo di olive perse significa un terzo di economia locale in meno. Così alla pesca e al turismo aggiungi anche l’agricoltura, perché mentre l’ira degli abissi si mangiava la costa, la furia della bufera tornava a logorare la terra strappata alla gravità e la picchiava forte, così forte da farla sanguinare ancora.

Galezza, tu come fai a restare sempre lì, immobile e fiera, in mezzo alle schiume e alle correnti implacabili? Come fai a non sentirti perduta e finita? Me lo sveli? Perché se io osservo tutto quanto mi circonda in questi giorni di maltempo e devasto non so più cosa raccontarmi, cosa pensare. Ruotano nella testa vorticosamente le scene delle onde, i discorsi sul dissesto idrogeologico, le foto in bianco e nero dei bisnonni, i cortei di protesta per il porto nuovo, le pulizie delle spiagge, i tramonti dall’Incompiuta, le giornate di luglio a mezzo metro dal mare cristallo, il treno deragliato durante l’alluvione qualche anno fa, le uscite in mare a vedere i cetacei, l’odore dei frantoi, la frana che ha travolto Monesi, la chiazza verde argento degli ulivi salendo nell’entroterra. Il bello e il brutto, la natura e l’uomo, la potenza e la fragilità.

Come fai tu a resistere, con tutte queste contraddizioni? Come fai a non arrenderti, a cedere, lasciarti staccare dalle correnti più forti di te? Non lo so, come fai. Avevo paura di non trovarti, o di scoprirti ferita e agonizzante, invece sei ancora lì, fiera e gonfia come una vela al vento pronta a salpare. E io ti ammiro sempre di più, simbolo immortale di casa mia e della mia terra, dura roccia, rughe al vento, al sale e al sole, scorza di ulivo fatta fossile resistente anche agli schiaffi più duri, pronta ogni volta a uscire dalla bufera di schiuma e mostrare la tua inconfondibile silhouette per dire che ci sei, tra la terra e il mare tu sei lì. Resisti. E risplendi.

Ci vediamo presto, torno a trovarti.

Con immenso affetto.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!