Il caso ha voluto che il 23 maggio, giorno di uscita in libreria della mia Torino di carta, mi trovassi in Liguria, a casa. Mentre percorrevo il lungomare in una coltre di umidità grigia insolita per maggio, accompagnata dalla bolla odorosa di iodio e fiori di pitosforo, riflettevo così sui concetti di residenza e domicilio. Pensavo che la residenza è una cosa che, per quanto burocratica, ha a che fare con le radici: in fondo risiedo qui, nella testa, nel modo di vedere il mondo. Me l’ha insegnato Calvino: inutile cambiare orizzonte, la prima immagine del mondo sarà sempre quella del parapetto affacciato sul mare, un promontorio a Levante e uno a Ponente, l’opaco alle spalle, sui suoi palchi di teatro che salgono tra le umide fronde boscose.

Il domicilio, invece, è un luogo che si sceglie. E a me è capitato, per caso e forse per intuito, di scegliere Torino. Era il 2005, l’idea di finire in una città che nessuno conosceva tra le mura di casa mi spaventava un po’, ma in qualche modo era come se sapessi che quella facoltà che c’era solo a Torino, organizzata così come piaceva a me, avrebbe fatto al caso mio. E così fu Torino. Nulla sapevo di una città che ai miei occhi di piccola provinciale era grande, grigia, caotica. Ricordo la sensazione di libertà nell’uscire e farsi parte di una folla variopinta. Avevo un paio di scarpe giallo limone che a casa tutti indicavano sconcertati dall’affronto postadolescenziale di quel colore: «ma dove vai con quelle?». A Torino erano libere di percorrere le lastre di pietra sotto ai portici. Quanti portici, quante strade lunghissime.

I primi tempi – eravamo in un’epoca ancora pre-digitale – per capire dove andare aprivo la mappa cartacea sul letto della stanza e costruivo itinerari, studiavo la città sulla cartina: i nomi delle vie, la collocazione dei musei o degli edifici storici, gli incroci, «questa via incontra quest’altra, poi svoltare a sinistra e arrivare alla segreteria universitaria». Studiavo, stampavo nella mente, uscivo senza uno smartphone alla mano e osservavo, leggevo i nomi delle vie, trovavo conferme. Era un po’ più complesso con la mappa, anche quella cartacea, retaggio di un’altra era, dei mezzi Gtt. Un lenzuolo di carta solcato da mille linee colorate e pallini: era difficile capire quali linee fossero bus, quali tram. All’epoca non c’era ancora la metropolitana, per esempio. Anche in quel caso le sedute di studio affacciata alla mappa di carta erano lunghe, appassionanti: erano viaggi letti con gli occhi, come fossero storie sui libri.

Ed eccolo lo snodo fondante: viaggi da lettrice. Quanti ne ho fatti, di treno in treno pendolando tra la mia residenza e il mio domicilio, tra casa e l’altra casa. A stare in un posto solo non mi sono mai decisa, tanto che da qualche tempo ho fatto mio il motto del Maxibon anni ’90: «Due is megl che uàn». Perché privarsi delle radici salate e delle possibilità culturali e non solo di una grande città? Nel tratto che separa le due facce, ho sempre letto tantissimo. Credo sia stato così che ho scoperto l’accesso, neanche troppo segreto, solo molto sabaudamente discreto, alla Torino di carta.

Tanti viaggi, dicevo: su ferrovia e su pagina. «Guarda! Raccontano di via Po!», e sguardi stupiti tra i libri e i portici, a cercare dettagli da imparare, storie da aggiungere alla storia letta sui libri. Camminavo per Torino, e leggevo: è stato così che ho imparato a conoscere la città che mi accoglieva. Una raccolta di osservazioni tratte dalla realtà e dalle storie, dal mio sguardo e dagli sguardi dei tanti autori che, oggi, sono finiti dentro Torino di carta. I miei ciceroni, e un po’ anche i miei amici.

Il senso di meraviglia che mi sorprende da qualche giorno, da quando mi arrivano foto di scaffali di librerie torinesi e non solo che espongono Torino di carta, da quando librai mi chiedono di presentare il libro, da quando si formano capannelli di persone a chiedermi una dedica oppure lettori sconosciuti vengono attirati dalla Mole verde bosco di Simone Geraci in copertina, ecco, quel senso di meraviglia lì, che ancora mi stranisce, mi ha fatta tornare indietro a quei pomeriggi di autunno col naso tuffato nella mappa di Torino. C’era una storia che iniziava: era la mia relazione con una città ancora tutta da conoscere.

Che questo amore abbia ricevuto benzina anche dai libri, per 13 anni stratificandosi e arricchendosi goccia a goccia, è un fatto magico. Del resto è magico il fatto che a maggio 2019 esca in libreria il mio libro, e che fiumi di sorrisi, condivisioni, parole stupende mi stiano circondando, creando un’atmosfera bellissima e facendo brillare quella Mole sotto la quale sono diventata anche l’autrice di Torino di carta.

Chiudo con alcune delle «fascette» più belle a corredo del libro, ricevute nei suoi primi giorni di vita:

«Oggi ho iniziato a leggere il tuo libro, sono a pagina 25, ho letto pochissimo e ti posso dire che mi sembra di ascoltarti mentre passeggiamo e tu mi spieghi le cose» Marco

«Sono arrivata ad Arpino e oltre… È davvero arricchente leggere il tuo libro, un bellissimo viaggio in questa città che è una continua scoperta e complimenti per la scrittura, davvero felice. Brava!» Noemi

«Ho visto questo libro nascere: la prima volta che Alessandra me ne ha parlato era poco più di un’idea. Mi ha accompagnato per un anno, discreto e operoso come la sua autrice e Torino sanno essere» Marta

«È davvero speciale! ti faccio i miei complimenti, sei davvero bravissima a scrivere. Ma la cosa più bella è che nonostante la densità e l’enorme quantità di contenuti, rimane semplice e chiaro, quasi una chiacchierata» Gaia.

 

 

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!