Questo articolo è stato scritto tra il 7 e l’8 marzo 2020, prima dunque del lockdown totale dovuto all’emergenza Coronavirus, prima delle cifre stravolgenti e allucinanti di morti e contagi: se vi stupirete di alcuni riferimenti ancora “leggeri”, per quanto il clima fosse ormai quello che viviamo oggi, 25 marzo, il motivo è questo. Come tante altre cose che penso e scrivo, questo articolo ha provato a farsi trovare da interlocutori più nobili e noti di questa pagina, senza successo. Ve lo presento dunque qui con un po’ di ritardo sull’ideazione, sicura che le riflessioni e i riferimenti che contiene siano ancora attuali e apprezzabili.

Isole. Un arcipelago semiotico

«Mi hanno chiamato amici dall’Australia, mi hanno chiesto cosa succedeva in Italia, mi hanno offerto rifugio sicuro da loro: sono un’isola!». Questo ascoltavo una settimana fa nello spogliatoio della palestra, prima che tutto accadesse, prima di adesso. Un’isola: una porzione di terra separata dal resto del pianeta, intorno solo mare. Ingenuo, mi dicevo: viviamo in un mondo globalizzato, se deve propagarsi, lo farà.

Poi, il dilagare implacabile dell’epidemia. Le navi da crociera bloccate al largo o nei porti: isole a forma di scafo. La ribellione nelle carceri: isole di cemento e sbarre. L’idea di costruire ospedali su isole, come proposto dalle autorità indonesiane. Noi tutti rifugiati a casa, nell’isola dei nostri piccoli mondi, pareti domestiche che soffocano, o sfondano il muro, magari quello della libreria, per ampliarsi a dismisura su altri mondi.

Fuggire dal virus e approdare a un’isola incontaminata, dove stare al sicuro, si è rivelato il sogno di molti. E magari i confini dell’isola erano proprio le mura di casa, un po’ strette ma protette, territorio sicuro, lontano dal mondo fuori che impazza. Ma è dilagato anche, al contrario, il senso di angoscia soffocante generato dal trovarsi dentro una zona rossa, un’area protetta e circoscritta: un’isola, ancora, infetta e velenosa. Una gabbia, un pericolo.

Il senso dell’isola si allarga, prende la via del mare e si infrange contro una situazione sociale e politica inedita, riverberandosi in tutta la sua ricchezza semantica e metaforica. Isole nuove, familiari o di plastica, di terra e sogni: isole da circoscrivere, e cercando le quali perdersi, ricominciare a navigare. Forse è proprio questa la ragione ultima di Isole. Un arcipelago semiotico, la raccolta antologica a cura di Franciscu Sedda edita da Meltemi. Saggi di Gilles Deleuze, Fernand Braudel, Predrag Metvejević, Umberto Eco e tanti altri dialogano in un mare interdisciplinare, osservando ogni volta l’isola da punti di vista differenti, mettendone in luce volti, insenature nascoste, segnando percorsi.

Arcipelaghi di senso

Godfrey Baldacchino, presente nella raccolta di Sedda, descrive gli Island Studies come vero e proprio campo di ricerca accademica: «le isole possono offrire identità e spazi distinti in un mondo sempre più soggetto a fenomeni di omogeneizzazione e di perdita del senso del luogo», afferma. Quali sono, dunque, i possibili sensi dell’isola in un mondo che, lo abbiamo intuito, è denso più che mai di isole reali e metaforiche, di volta in volta rifugi o gabbie tra cui destreggiarsi?

La proposta metodologica di Sedda è quella di allestire una rete, bussola di riferimento – per restare nell’ambito della metafora marinara tanto affascinante -, strumento per esploratori di arcipelaghi. Reali o metaforiche che siano, dalle isole si sprigiona infatti un enorme potere comunicativo: è la forza dell’archetipo, quell’avvincente geografia limitata e finita che costruisce mondi chiusi, e dunque soggettività, modelli di relazione.

In quanto tali, dunque, le isole sono delle idee di mondo, ognuna diversa, ognuna esaminata da un punto di vista differente. L’idea di Sedda per fare ordine in questo arcipelago è quella di costruire una tipologia basata sulle relazioni, quelle tra isola e mare, tra le isole e il continente, tra isole e isole, e tra l’isola e la sua stessa idea riflessiva. Incroci da cui, secondo la semiotica, discendono piste di senso, possibilità e valori applicabili non solo alle isole concrete, ma alla società, alla cultura.

Non si tratta di assi oppositivi netti, naturalmente: ogni relazione si declina su una scala graduata su cui collocale isole reali, isole artificiali, isole allegoriche, isole metaforiche che popolano il mondo e le storie, le narrazioni antiche – l’Odissea non è altro che un viaggio tra isole – e quelle più contemporanee, legate alla stretta attualità di un’epidemia che spinge verso la fuga o il rifugio. «La capacità degli spazi insulari di tenere fuori (o dentro) determinati oggetti è sempre relativa», Baldacchino lo ricorda. Sospese tra realtà e immaginazione, le isole ci parlano del mondo, raccontano i confini, lasciando intuire come forse, sempre più spesso, si tratti di barriere labili, mai nette, a distruggere l’ipotesi sicura e insieme inquietante dell’isola chiusa in se stessa, della geografia finita.

Il pregio della rete di sensi che si propaga dall’isola è, come spesso accade in semiotica, l’apertura di un campo complesso di dinamiche: i sensi dell’isola si moltiplicano, nascono modelli che possono essere analizzati sulla base di tensioni significanti ogni volta differenti. Isole come porzioni di mondo, «sineddochi» che imitano il mondo riproducendolo in piccolo e diventando così laboratori del senso da cui ripensare la realtà. Osservare il mondo dalle isole è pure sempre identificare un punto di vista, ricorda Sedda: «le isole sono oggi più che mai un luogo da cui guardare il pianeta a 360 gradi». Un invito, come ribadisce il curatore, ad “arcipelagarsi”.

L’utopia letteraria dell’isola-confino

E cosa, meglio della letteratura, favorisce l’esplorazione delle isole e dei loro molteplici sensi? Le isole nascondono passaggi segreti, insenature, golfi e calette dove farsi inghiottire dalla piacevole fuga letteraria. Geografie immaginarie tra le più affascinanti, da sempre le isole alimentano la letteratura mondiale. Luoghi carichi di desideri, di paure, di speranze e di sogni, le isole sono protagoniste delle storie, da Ulisse a Lost, dall’antichità che sprofonda nel mistero di Omero, allo storytelling di oggi. Come le epidemie, infatti, anche le isole hanno il potere di svelare l’essere umano, la sua relazione con lo spazio, con la paura, con il sogno. Isole difficili da vivere, isole ambite, isole collettive e individuali, straordinarie e quotidiane.

Se infatti è il confine a definire l’isola, tipicamente il mare, cornice che la separa dal contesto, come tale l’isola può essere costruita artificialmente: ecco le navi, gli aerei, e perché no le stazioni spaziali, concretamente fuori dal mondo, piccolo universo definito a parte. Un luogo dove mettersi al riparo dalla minaccia attuale del Coronavirus; un luogo dove subire il contagio inevitabile, lo raccontano le cronache delle navi da crociera respinte dai porti perché cariche di ammalati.

Ogni volta un paradiso in cui sperare, un’utopia da fondare – e del resto anche l’utopia di Thomas Moore era un’isola -, per ripartire da qualcosa di nuovo. Accade a Robinson, il protagonista di Daniel Defoe, che trascina con sé modi e visione europacentrici, accade per i coloni ingegneri dell’Isola misteriosa di Jules Verne. Ma l’isola è anche confino in cui patire e struggersi: come non pensare alla Montecristo di Dumas, diventata labirinto inespugnabile nell’omonimo racconto calviniano di Ti con zero?

 Mondi da rifondare: verso Ultima Thule

Anche le isole della fantasia, quelle letterarie, parlano di un’idea di mondo, quasi fosse loro connaturata: hanno a che fare con la fondazione che segue al disastro del naufragio, e sono un cosmo a volte soffocante dove la furia della natura – onde, vulcani, tempeste – non permette lo sviluppo della vita. Sospese tra la fuga e il desiderio, tra il disastro e la voglia di ripartire.

Mai come oggi è forte la voglia di proteggersi, mettersi in salvo, lontani da un modo di divere che, l’epidemia di Coronavirus lo ha evidenziato come mai prima, si sgretola alla prima fragilità. L’economia in ginocchio, i legami globali che scricchiolano e i confini che chiudono sotto l’imperativo dello stare fermi, stare a casa: ognuno un’isola, in un arcipelago dalle frontiere ormai sprangate.

Sull’orizzonte nebuloso di un periodo la cui fine è ancora da scrivere, svetta tra riflessi acquatici e sospiri di cambiamento una nuova isola, la leggendaria ultima Thule, territorio mitico, meta di coraggiosi e intrepidi marinai che, dai diari del greco Pytheas nel quarto secolo Avanti Cristo a oggi, non hanno smesso di cercarla. Ultima Thule, narra la mitologia dei naviganti, potrebbe trovarsi nel nord Atlantico, potrebbe essere la Groenlandia, forse l’Islanda. Ma Ultima Thule è soprattutto un grande mito letterario.

Un’aspirazione a una nuova vita, la promessa di una pagina bianca su cui riscrivere il destino dell’uomo che fa sua Simone Perotti in Rapsodia Mediterranea (Mondadori, 2019), racconto di una spedizione scientifica, umana e marinara nel Mediterraneo. Gli occhi dell’autore, noto per aver scelto di cambiare radicalmente vita abbandonando il sistema consumistico per dedicarsi ai valori profondi dello studio, della conoscenza di sé e della barca a vela, si posano sull’orizzonte delle tante piccole isole che costellano il Mediterraneo invaso dalla plastica, punteggiato di giubbotti di salvataggio abbandonati da migranti dispersi in mare. Torna l’idea di utopia, l’isola dove trovare un nuovo equilibrio, un nuovo stile di vita: l’ultima Thule virgiliana, ultima terra da svelare, oltre il mondo conosciuto, oltre a quello che possiamo vedere.

Cosa ci può insegnare la straniante e inedita esperienza dell’epidemia da Coronavirus? Forse proprio una forma di navigazione, e il successivo approdo a un’isola. Potrebbe essere un’ultima Thule dove ripensare al mondo, ai suoi ingranaggi distorti, al nostro stile di vita miope. Un’ultima isola, distante dalle zone rosse e dalle pressanti mura di case diventate nidi soffocanti, per tornare a respirare aria sana, quella che tutti respiriamo da quando le attività umane sono diminuite, facendo calare lo smog. Un luogo ideale, forse immaginario ma che, come tutte le isole letterarie, ha a che fare con la salvezza dell’uomo. Quello del 2020 è stato l’inverno più caldo degli ultimi due secoli, ci racconta la scienza, un caldo record che in Antartide ha sciolto ghiaccio e disvelato una nuova isola. Ghiacciata, ancora inesplorata. I ricercatori l’hanno battezzata Sif Island, dal nome di una dea norrena della Terra. Un nuovo segnale del fascino senza tempo delle isole, un invito a non smettere di cercarle in un momento in cui possono diventare: «stazioni di ricarica delle idee sulla condizione della natura o dell’umanità, o semplicemente […] stazioni di ricarica delle idee per il bene stesso delle idee».

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!