Nell’estate 2015 scrivevo questo articolo, Doppiozero lo rifiutò e dunque è rimasto nel mio pc. Si tratta delle riflessioni su un romanzo Bompiani che mi piacque tantissimo, Parole in disordine, di Alena Graedon, un esordio uscito proprio nel 2015. Un testo che mi è prepotentemente tornato in mente oggi, 24 febbraio 2020, uno dei giorni caldi in cui l’ecosistema mediatico è concentrato sull’epidemia di Coronavirus in Italia. Ecco, questo romanzo parla di un virus, della sua diffusione, e dei media. Direi che è perfetto per il periodo.

Su “Parole in disordine”, di Alena Graedon, Bompiani, 2015

Un po’ mi viene da sorridere mentre, sull’ebook reader, leggo “Parole in disordine”, romanzo d’esordio dell’americana Alena Graedon. Sorrido, a tratti presa da una sottile e infida forma di turbamento, non tanto perché avvinta dalla trama – che pure sì, ha un ritmo scandito da continui colpi di scena – quanto perché mi rendo conto di avere tra le mani non propriamente “un libro”, piuttosto un oggetto elettronico sul quale le parole, quelle impronte di inchiostro che dovrebbero classicamente segnare la pagina di carta, sono riprodotte digitalmente. Ed è proprio questo il tema chiave del romanzo: la perdita delle parole, il disfarsi delle capacità di linguaggio, espresso sotto forma di una terribile malattia, la febbre verbale, causata dall’uso smodato dei dispositivi che ci hanno allontanato dalle forme analogiche di scrittura e lettura. Un’apocalittica caccia allo smartphone? Forse, in parte, ma soprattutto il recupero di un approccio storico – diacronico – alla prima forma di comprensione del mondo: il linguaggio, medium in grado di descrivere il visibile, aprendoci le porte della conoscenza, e di raccontare perfino l’invisibile. Non a caso Bartleby, il giovane etimologista coprotagonista del romanzo, ricalca Hegel affermando che “il linguaggio è l’unico filo che ci lega alle idee, altrimenti vaporizzate, dei morti […] le parole sono leggende viventi, rigonfie di significato”. Come non pensare a Roland Barthes, che attribuiva proprio alla lingua il primato semiotico rispetto ad altri sistemi di significazione ricalcati sul linguaggio?

Nel futuro prossimo e distopico dipinto dall’autrice con tratti di orwelliana memoria e un impianto thriller a toni complottistici, il 2016 è già alle spalle, si cita una ex Unione Europea, e il dispositivo elettronico più utilizzato a New York non è più lo smartphone sul quale già oggi passiamo gran parte del tempo, ma un aggeggio elettronico di ben più evolute capacità: il Meme, frutto della florida azienda Synchronic. Nessun nome – nessuna parola – è casuale in questa science fiction: la Synchronic sarà infatti la responsabile di una truffa colossale e della diffusione a livello planetario di un virus che debilita, fino anche ad azzerare, le capacità linguistiche umane.

Pregio del romanzo è, tra i tanti, quello di seguire il filo della narrazione, ansiogena e dai toni sempre più oscuri e minacciosi, in una costante tensione che non è solo alimentata dalla vicenda, ma dal linguaggio stesso, un sistema che via via va sgretolandosi, attaccato dal virus, segnalandoci, nella difficoltà di parola, l’incipiente malattia e l’allargarsi incontrollato del pericolo. Non è, ancora una volta, un caso, che il contraltare del Meme, vessillo tecnologico di modernità, sia un apparentemente vetusto dizionario, il Dizionario Nordamericano della Lingua Inglese, luogo – metaforico e reale – assai vivace. Caporedattore del DNLI è Douglas Samuel Johnson, che conosciamo fin dalle prime pagine attraverso i racconti che di lui fanno la figlia Anana, il cui nome oscilla tra il quasi palindromo gioco di lettere e una giocosa Alice carrolliana, e il collega Bart (Bartleby), entrambi impegnati a ricercarlo dopo la sua misteriosa sparizione. Anana, lo si capirà procedendo, sta scrivendo la storia per fissarla sulla carta e non dimenticarla, utile metodo rieducativo dopo il virus che l’ha colpita. Di Bart, invece, leggiamo stralci del diario, esercizio di scrittura tenuto dal giovane per esigenza di riflessione personale, ma rivelatosi poi utile per la ricostruzione dei fatti. Entrambi i personaggi saranno pedine centrali di una strana e talvolta metariflessiva avventura tra parole e cibernetica.

Memento meme: pecoroni senza più parole?

L’internet meme è quel testo diffuso online e caratterizzato dalla capacità di divenire virale in modo apparentemente incontrollato, lo spiega bene Gabriele Marino, annotando le caratteristiche di base del meme già individuate da Henry Jenkins: efficacia, smontabilità, replicabilità, personalizzazione e diffusione.  Il meme è un emblema della comunicazione online e social dei nostri giorni, origina fenomeni di comunicazione acefali e momentanei e innesca altrettante reazioni virali, come ancora ha spiegato Marino citando – solo per fare un esempio dei più recenti – la customizzazione della foto profilo di Facebook a strisce arcobaleno dello scorso giugno. Non sembra dunque una mera coincidenza che nel romanzo della Graedon Meme, con iniziale maiuscola, diventi il nome dell’apparecchio tecnologico che sembra aver superato l’attuale tecnologia smartphone e che si scoprirà essere il responsabile della tragica perdita delle parole. Il dispositivo è altamente personalizzabile e capace di entrare in profonda sintonia con l’utilizzatore stesso, generando l’apertura del finestrino dell’auto se si ha caldo, per esempio, o fornendo aiuti nei momenti in cui “mancano le parole” o ci si ritrova spaesati davanti a un temine di cui non si ricorda il significato. Come lo smartphone, questo apparecchio è dotato di programmi che fanno cose: proiettano testi – nel romanzo sono detti lumen, e sono i sostituti dei libri e di qualsiasi forma di testualità scritta -, diffondono canzoni, effettuano chiamate. Il Meme è insomma l’oggetto che attraverso il web ha fagocitato la vita quotidiana delle persone, acquisendo dati, sincronizzandosi su Life, il Facebook della fiction, luogo virtuale dove la gente carica informazioni personali che galleggiano nella rete e vengono riutilizzate dai Meme per organizzare i dati, dare suggerimenti, assorbendo in modo invisibile capacità decisionali, coscienza, facoltà analitiche, attenzione e concentrazione. Non c’è bisogno di pensare a come fare per chiamare la pizzeria e prenotare un tavolo: ci pensa il Meme. Non è necessario accostarsi alla libreria e cercare, sfiorando con l’indice le coste dei volumi, quel che si cercava da leggere: lo recupera il Meme dalla rete, e ve lo proietta davanti come un ologramma. Vi state agitando perché soffrite di claustrofobia e la stanza è piena di gente? Il Meme vi suggerisce di uscire all’aria aperta il prima possibile. Non siete più voi a pensare: il Meme ha assorbito la vostra vita e fa quel che voi non siete più in grado di fare. A partire dalle attività che ruotano intorno alla comunicazione: leggere, scrivere, interagire con i media, ma anche compilare un semplice biglietto di auguri. Più utilizzate il Meme, meno siete in grado di eseguire queste operazioni. Iniziate a sorridere anche voi, lettori di ebook?

La dipendenza dal Meme, diventato parte della vita delle persone, assume toni piscologici, tanto che l’assenza del dispositivo genera frustrazione e impossibilità ad agire. Di questa condizione si accorge la Società Diacronica Internazionale, organismo di “resistenza” composto da tutti coloro che, nel romanzo, si oppongono alle invenzioni e alla politica della Synchronic. Ancora una volta, termini non casuali, per i quali l’autrice è andata a ripescare dal repertorio terminologico del fondatore della linguistica strutturale, Ferdinand De Saussure. Sincronico e diacronico, attributi neutri del sistema linguistico, diventano il primo sinonimo di “un’etica miope di obsolescenza accelerata” promossa dalla Synchronic attraverso il Meme, il secondo dell’importanza della prospettiva storica, della memoria che sta scomparendo insieme all’inabissarsi del linguaggio.  “Come il meme sta sostituendo l’io” è il titolo dell’editoriale pubblicato dalla Società Diacronica, che punta l’indice contro il pericolo imminente:  “il sistema è stato all’altezza del suo nome (il termine “meme”, coniato dallo scienziato inglese Richard Dawkins nel 1976, significa: idea, modello comportamentale, pratica o stile che si diffonde rapidamente da persona a persona all’interno di un dato contesto culturale”. Meme, viralità, perdita della coscienza, dell’io, e del linguaggio: il dispositivo del romanzo è un cugino futuro dei nostri smartphone, ed è connotato negativamente, pericoloso coadiutore di un progressivo svuotamento delle capacità intellettive umane.

Se il Meme ha così tanto potere da influenzare interazioni, intrattenimento, acquisti, educazione ed espressione creativa, quale migliore spazio per delinquere ai danni delle persone, ormai dipendenti dall’oggetto? È su questa base che si innesta la trama complottista del romanzo, che prevede una vera e propria manipolazione delle parole. In un momento in cui nessuno legge più perché l’informazione si genera su algoritmi e ha perso la capacità di coinvolgere, e si è polverizzata ogni capacità di concentrazione, la Synchronic ha acquistato tutti i dizionari, per metterli a disposizione di Word Exchange, un’app a pagamento. Tra i meme-dipendenti si è infatti riscontrata la perdita della memoria delle parole, e gli utenti devono così forzatamente ricorrere a Word Exchange, che fornisce loro i significati di termini divenuti ormai oscuri come cinico, integrità, paradosso. Word Exchange vende parole come beni qualsiasi, di fatto fornendole a portata di mano, ma non più a portata di cervello.  Su questa esigenza, scatta da parte della Synchronic il piano commerciale di sequestro e infezione della lingua, che ha la deriva – folle e non controllabile – dell’eliminazione del linguaggio. Per implementare le vendite di parole di Word Exchange la società costruisce una fabbrica di neologismi privi di senso che rimpiazzano le parole non più capite e usate, dando luogo a una piazza di vendita delle parole. Una nuova Babele cibernetica e a scopi di lucro, regno del disordine assoluto dove nulla più si com-prende. Le persone, ormai afasiche, non si rendono conto di avere davanti parole inesistenti, oppure non hanno più la competenza linguistica per discernere, e acquistano così significati di parole finte. Un gatto che si morde la coda: più si usa il Meme, meno parole si capiscono, più si è costretti a usare il Meme per acquistare significati. Un meccanismo delirante, che viene infettato da un virus informatico generando primi deboli casi di “afasia benigna”, disturbi del linguaggio che si esprimono nell’incapacità di parola e di comprensione.

Il pericolo, come da buon thriller linguistico a toni distopici, non si ferma qui. Il nuovo modello di Meme, chiamato Nautilus, utilizza una tecnologia molto più raffinata, unendo cibernetica e biologia. Il virus rintracciato nel Meme, chiamato febbre verbale, passa così dal codice binario al dna, miscelando informazioni che si trovano irrimediabilmente fuse in un intreccio letale in cui gli utenti disimparano a parlare.

È chiaro, la vicenda è una finzione e sfrutta le caratteristiche del genere letterario cui appartiene. Ma l’idea che un Meme possa rubarci le facoltà di linguaggio e renderci così stupidi e privi di coscienza da non riuscire più a comunicare è una buona metafora dell’attuale indiscriminato uso del web e più in generale della comunicazione mediata (l’ipotesi è sottolineata anche dalla recensione del New York Times). Greggi di pecoroni immersi in sfere discorsive posticce–semiosfere, amerebbe dire un semiotico -ma con confini ben precisi, rivelatisi i quali tutto perde senso: non esiste una base analogica, una linearità costruita dal lento scorrere delle pagine di un libro, i caratteri ordinati da sinistra verso destra, nel tempo sacro –lungo, talvolta laborioso – della lettura, della comprensione, del pensiero astratto. La viralità acefala del web, l’accelerazione indiscriminata dei ritmi della comunicazione, il perenne migrare, saltando in modalità multitasking, da una tastiera a un’altra, ci hanno forse realmente resi più stupidi, soggetti al rischio di una febbre verbale?

Sensi polverizzati

Le parole sono organizzate per produrre senso, e per questo hanno un ordine (che si basa su relazioni sincroniche e diacroniche, ricorderebbe De Saussure). Le parole della distopia della Graedon sono invece in disordine, giustificazione per il titolo italiano che si distacca dall’originale  e difficilmente traducibile (con tutte le sue connotazioni semantiche)  The Word Exchange. “Le parole sono alluvionali, come le formazioni rocciose. I fonemi sono arbitrati. I significati no: maturano dall’esperienza condivisa” spiega la Società Diacronica, e sono proprio i significati che Word Exchange ha rubato, e distrutto, lasciando il linguaggio in un disordine incontrollato e privo di senso. Se già il Meme contribuiva a questo abbassamento delle soglie di memoria e attenzione critica, a far precipitare la situazione è il Nautilus (un nome letterario che riecheggiando gli abissi avventurosi di Verne occhieggia forse agli abissi in cui è sprofondata l’umanità?), dispositivo in grado di integrare componenti elettronici e biologia cellulare. Attraverso questa piastrina applicata sull’epidermide, i dati in codice binario immagazzinati nell’apparecchio agiscono direttamente sul dna, in una soluzione di continuità tra dispositivo e rete neuronale dell’utente. Tra mondo e cervello. La mente, luogo in cui dovrebbe risiedere, filtro e occhio sul mondo, il linguaggio. La mente che si ammala di un virus cibernetico diventato patogeno biologico, e che conduce all’afasia, un male che se non curato subito potrebbe rivelarsi fatale e portare alla perdita totale del linguaggio. Il silenzio perenne.

È davvero questo il rischio, oggi? Veder polverizzare i sensi delle parole e al contempo la nostra percezione visiva – ma non solo, l’intera gamma sensoriale a 360 gradi – del mondo, che senza la sua declinazione attraverso il linguaggio resta inespressa, incapace di prendere voce e di raccontare. E che genera post autoreferenziali sui social, un impazzare di selfie e sfolgoranti frecce puntate sull’io. Un io che tenta invano di emergere in un mondo dove il linguaggio si sta sgretolando, e che potrebbe presto o tardi ritrovarsi solo, nel silenzio più esterrefatto. “Invece di leggere ‘consumiamo flussi di dati’, invece di scrivere ‘ci messaggiamo’. Da quando il Meme la fa da re, un utente medio ha molta meno necessità di significati reali”, avverte la Società Diacronica dinnanzi a questa forma temibile di “svalutazione linguistica”. E se, al di là della fiction, la metafora volesse essere un piccolo avvertimento, un memorandum per il futuro? Tremano le mani mentre si volta pagina pigiando il tasto dell’ebook reader, e una voce nella coscienza tuona: ricordati di articolare il linguaggio, unico mezzo a tua disposizione per esprimerti, e relazionarti con gli altri, abbine cura, usa i social con attenzione critica, dopo averne studiato e capito i pro e i contro, e non stancarti di dibattere, argomentare, leggere libri che alimentino il tuo pensiero analitico.

Hermes contro L’Uroboro

Dio messaggero, protettore di ladri e commercianti, Hermes è un simbolo perfetto dell’operato della Synchronic, tant’è che è così che si chiama una delle sue società afferenti, incaricata non a caso di attivare l’inganno sulle parole a scopi di lucro. In una storia di nerd e smanettoni dove la tecnologia la fa da padrona, è proprio una giovane startup a inventare il modo con cui trarre profitto dalla commercializzazione del linguaggio. Il ladrocinio di Hermes si realizza paradossalmente attraverso un rovesciamento di quella stessa comunicazione di cui la divinità greca si farebbe simbolo: il cambio a tavolino del significato delle parole, la perdita di senso dei messaggi.

La comunicazione è il tema portante della storia: il modo in cui scriviamo, leggiamo, ascoltiamo, parliamo, con gli altri e con noi stessi. In altre parole: il modo in cui pensiamo il mondo. Le competenze comunicative sono via via erose dal Meme, che restringe la coscienza e le capacità di linguaggio, alla base della comunicazione. “Le parola costano poco. Ma l’ironia vuole che l’“aggiungere valore” alle parole abbia semplicemente diminuito la loro importanza. La Synchronic, attribuendo un prezzo (un prezzo bassissimo) al linguaggio, lo ha svalutato enormemente. Con il tempo è mutato l’atteggiamento verso le parole. Oggi, piuttosto che affidarle alla memoria, in molti usano semplicemente la funzione “memoria” delegando quel compito al loro Meme”. E nella delega, il messaggio del Meme porta inganno: il dio Mercurio sguazza nello scompiglio linguistico mentre la Syncronic ruba i significati, restituendo tessere di disordine, futuri indizi di silenzio. Le parole sbagliate, i neologismi vuoti, passano dai Meme, alle menti, alle bocche: è il Meme la fucina del nuovo linguaggio-non linguaggio. E un altrettanto simbolico indizio di questa centralità del dispositivo e del linguaggio – della comunicazione – è il fatto che la versione beta del Meme si chiamasse Aleph, la prima lettera dell’alfabeto fenicio ed ebraico, il simbolico inizio, premessa della fine. Il device emblema della comunicazione mediata moderna è la chiave della storia e della sua morale. La visione del futuro suggerita dall’autrice è quanto mai chiara e, nella sua limpidezza, paurosa: la comunicazione che mina alla base se stessa con i propri strumenti. Il mitologico e antico simbolo dell’Uroboro, il serpente che si morde la coda, creando un ordine circolare in cui origine e conclusione sono connesse, inizio e fine non hanno stacchi ma si trasformano l’una nell’altra, l’animale che inghiotte e distrugge se stesso.

Alice nello specchio-riflesso

Immagine centrale e di intensa forza figurativa e altrettanto impattante pathos, è la scena del rogo di libri – i volumi del dizionario – nel seminterrato della redazione. Uno scenario ormai fissato nelle memorie collettive: reali roghi nazisti, immaginari pompieri incendiari. Anche in questo caso, del sapere umano stampato su carta non resta che un fumo acre. Il riferimento intertestuale e metaletterario è una pratica ricorrente in un libro intessuto di citazioni e ammiccamenti, giochi testuali e inseguimenti letterari. In particolare è a Lewis Carroll che l’autrice ricorre, con il riferimento costante all’Alice del genio matematico inglese, nascosto sotto lo pseudonimo del bizzarro letterato. Alice diventa una sorta di nome in codice per Anana, eroina persa in un mondo quasi ripiegato su se stesso come un nastro di Moebius, incuriosita dal disordine e dal nonsense tanto da voler attraversare un misterioso specchio riflettente attraverso pericoli concreti e definizioni dizionariali sfaldate, in un viaggio nella natura stessa del linguaggio, delle parole.

Riflessione negli specchi, metariflessione sul linguaggio scritto e parlato, costanti giochi di parole, trucchi e caccie al tesoro nascoste tra un nonsense e l’altro, nella generale devastazione del sistema linguaggio. Che il romanzo abbia intenti metanarrativi è chiaro anche dal suo impianto paratestuale. Innanzitutto, il riferimento a Hegel con la composizione in tre parti: tesi, antitesi e sintesi. Parti che a loro volta sono suddivise in un totale di 26 capitoli, lo stesso numero delle lettere dell’alfabeto inglese, a ognuna delle quali, in rigoroso ordine, è intitolato ogni capitolo. Alla lettera che lo apre, nell’attacco di capitolo segue una parola che inizia con quella lettera e la sua definizione, o forse sarebbe meglio dire ridefinizione, utile a plasmare la malleabilità dei significati in accordo e a supporto della narrazione. Così risulta interessante la C di Comunicazione, che riporta tre significati: 1) il riuscire a colmare le soggettività 2) l’atto di diffondere una malattia 3) qualcosa di avventato, da evitare. In un contesto mutevole, anche i significati si trasformano, diventano soggettivi. Dizionario diventa 1) uno dei vari beni che vengono uniti in uno scambio privato 2) oscuro: un testo di consultazione usato per decodificare simboli linguistici arbitrari; un artefatto culturalmente importante. Lampante è il Meme, alla lettera M: un dispositivo usato per comunicare.

La riflessione sul linguaggio che innerva il testo è d’altro canto una delle soluzioni rintracciate contro l’afasia, un attaccamento alla comunicazione analogica che garantisce una certa resistenza al virus della febbre verbale. Su questa scia, gli stralci diaristici di Bart sul linguaggio stesso e sull’amore rappresentano un’arma per lui e un mezzo utile per la comprensione dei fatti a posteriori, e non fanno che ribadire il fondamentale messaggio linguistico e semiotico del romanzo perseguendo ciò che già sosteneva Benveniste: il linguaggio è lo spazio all’interno del quale costruire soggettività e relazioni tra un io e un tu. Nella “traballante ecologia di significati” innescata dal deviato uso dei Meme, il linguaggio assume i connotati del baluardo di riferimento, la cui perdita si concretizza sempre più come estremamente pericolosa. È nel linguaggio che si rintraccia quella che i semiotici definiscono enunciazione, ovvero la riproduzione della situazione comunicativa in cui gli interlocutori si trovano a dialogare. Perso il linguaggio, sarà minato dall’interno qualsiasi altro sistema di comunicazione. La metariflessione è fondamentale: permette di capire.

Ecco cosa pensa la Società Diacronica: “il XIX secolo ha visto il trionfo di quello che abbiamo chiamato il pensiero lineare, un modo di analizzare il mondo possibile solo tramite i libri. In maniera fortuita, nell’arte della rilegatura, il codice ci ha educato alla concentrazione, al pensiero astratto e alla logico. Di natura siamo inclini alla distrazione, scrutiamo l’orizzonte alla ricerca di predatori e prospettive. I libri ci aiutano a ripiegare quell’attenzione verso noi stessi, a costruire castelli sempre più alti dentro il pacifico reame della nostra mente”. Sull’onda di una sorta di spirito reazionario e librofilo, i componenti della società sono tutti librai, bibliotecari, insegnanti, scrittori, editor, agenti, editori, pubblicisti, lessicografi e linguistici, traduttori, poeti, critici e lettori, estimatori delle vecchie fanzine. Gente che lavora con le parole, che fa parole sulle parole, e che, come Alice, oltrepassa lo specchio della superficie del linguaggio alla ricerca di sensi più profondi.

Fine inizio

Un mondo intero minacciato da lingue ormai infettate e in pericolo di estinzione, l’incoraggiamento a organizzare laboratori del linguaggio, stanze di lettura, dibattiti serali: questo lo scenario poco roseo su cui si chiude la vicenda. Da una New York futuristica e super moderna, indietro di millenni in una nuova Babele dove la tecnologia ha cancellato i significati, svuotato le parole, le librerie, le biblioteche, retaggio di coraggiosi resistenti fedeli al sistema analogico. Fuori, ogni testo è ormai scorporato, rimbalzano nella rete accozzaglie di lettere divenute simboli del vuoto che attanaglia le comunicazioni tra soggetti. È ancora l’Uroboro che morde se stesso in un circuito senza fine a dipingere il quadro distopico in cui la comunicazione distrugge se stessa. Ma se questa è l’immagine più pessimistica che all’improvviso si insedia nella coscienza del lettore (ed è infatti qui che ho iniziato a guardare con antipatia al mio ebook reader, rimpiangendo di non aver acquistato una vecchia e sana copia cartacea del romanzo da impiastricciare a matita), la Graedon lascia uno spiraglio per del nuovo ossigeno, nuove possibilità. Il pericolo raggiunto è talmente grave e spaventoso che la tragica fine del linguaggio non potrà non fare come il serpente, nascere da dove finisce, ricreandosi, rigenerandosi ancora una volta. La simbolica fine della narrazione, e delle parole, è cancellata per dare voce a un nuovo inizio. Un inizio che è forse una coscienza un po’ meno edonistica e più salda sul sistema che in ogni istante ci permette di comunicare. Con i telefoni, con i computer, con i giornali, le televisioni, le radio, ma anche e soprattutto nel flusso privato che attraversa noi stessi, ogni qual volta, con il linguaggio, elaboriamo pensieri – non per forza espressi –  sotto forma di immagini, concrete e astratte, che prendono forma attraverso parole. Parole che vanno a comporsi nella nostra mente rispondendo in ogni istante a un senso: parole in ordine.

Il suggerimento per un approccio sensato al linguaggio che ci circonda arriva dal signor Douglas del romanzo: “Leggiamo per entrare in connessione con le altre menti. Ma perché leggere quando sei occupato a scrivere, a descrivere l’ammasso di detriti microscopici della tua stessa vita. A registrare compulsivamente tutto: quando mangi un boccone, quando hai freddo o magari quando hai il cuore spezzato per una partita di football. Un flusso infinito che scorre verso un pubblico composto da chiunque, e da nessuno. Chi ha tempo per il passato quando è già abbastanza difficile tenere il passo con il presente? Invece abbiamo bisogno del passato. E di cose che durino più di un giorno”.

Immagino che a questo punto chiuderete l’ebook reader e riaprirete con immenso gusto un libro di carta, spegnendo il cellulare e brandendo una matita profumata di legno in mano.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!