Sono passati 10 giorni dalla fine del Salone del libro di Torino 2018. Mi sono domandata spesso, mentre trascorreva affannato e imperterrito questo tempo, se avesse senso aspettare così tanto per scriverne. Non è stato un attendere l’ispirazione, il disegno perfetto delle idee, lo stimolo: è stato piuttosto un sopravvivere, tener salda la baracca per non sprofondare in mezzo ai doveri. Sopravvivere al lavoro arretrato in agguato dopo cinque giorni di Salone, alla stanchezza e al sonno rimasti anche loro a covare, agitati dall’adrenalina, a una pazzia ferroviaria decisa all’ultimo, e a una vacanza prenotata da tempo. Resistere insomma all’ondata in piena di vita che, esaurita l’allegra caciara del Salone, ha proseguito al trotto, senza curarsi del fatto che al Lingotto si stessero facendo gli scatoloni. Non c’è stato spazio, prima di questi dieci giorni, per scrivere del Salone. Forse perché non c’è stato in fondo spazio nemmeno per ripensarci, a quei cinque giorni di folla, parole e sorrisi del Lingotto.

Il lunedì sera, una volta tornata a casa dopo l’ultimo atto, densissimo come sempre e in più forte anche della conferenza stampa finale con dichiarazioni istituzionali e quant’altro, sentivo la festa di cinque giorni depositarsi lentamente nei tessuti della memoria, sulla metaforica pelle del lettore. Per me il Salone è sì un’esperienza di lavoro che, come altre nel corso dell’anno, mi mette alla prova, mi stimola e mi diverte: sono così tutti i festival, la maratona dell’Ariston, le grandi kermesse che con il succedersi imperterrito dei loro impegni non permettono mai di staccare la spina e accendono la voglia di lavorare, e di fare tutto al meglio anche se si hanno poco tempo e mezzi on the road. Ma il Salone ha di più: il Salone è anche la casa della me lettrice, spazio di gioia dove perdersi respirando profumo di carta, sentendosi abbracciata dalle tonnellate di parole e frasi stampate che ogni libro racchiude e custodisce. Sta a me scovarle, farmi sorprendere, solleticare e incuriosire.

Dunque, cinque giorni in questo palleggio straordinario: tra l’appeal mediatico degli eventi e le passioni, tra la necessità di fare foto ai personaggioni e la voglia di correre ad ascoltare incontri con intellettuali di spicco, tra la capacità di tenere la barra a dritta e scivolare lungo i padiglioni per attenersi strettamente alla tabella di marcia e la scivolata laterale per seguire un amico, una passione, un puro piacere libero. Spesso le due cose hanno coinciso, altrettanto spesso – ed è stato questo uno dei risvolti positivi di questa edizione – alle due facce della mia personale medaglia del Salone se ne è aggiunta una terza, e cioè il fatto che a quegli incontri, che seguivo per me e per il giornale, ci fossi con persone che seguivano insieme a me. Sta in questo dettaglio niente affatto banale il senso della comunità dei lettori e di chi “ha a che fare con l’editoria” della quale mi sono sentita una piccola parte.

Il Salone 2018 è stato infatti, più di qualsiasi altro, la casa dove sentirsi un piccolo granello di sabbia tra gli altri simili nel mondo dell’editoria. La macchina pre-organizzativa ha funzionato alla grande, complice il mio manuale semiserio compilato da tanti amici che, nel giro di poche ore, ho avuto la fortuna inaspettata di incontrare casualmente al Lingotto. Ho iniziato subito, la prima mattina, già alla coda per l’accredito, tra sorrisi, abbracci e promesse di caffè insieme che sono poi diventate un piccolo rituale portato avanti per cinque mattine. Sentirsi simile tra i tuoi simili rinfranca e aiuta ad affrontare le maratone di resistenza del Salone. Vedere quindi che non solo io ma altri avevano la lista dettagliata degli eventi da seguire, vedermi e vedere gli altri destreggiarsi con la mappa dei padiglioni alla stregua della mappa di casa propria, e ancora percepire la gioia e la curiosità degli altri per eventi legati ad autori e libri, mi ha messa di buon umore nonostante abbia girato più giorni con il lavoro letteralmente sulle spalle, pronta a rispondere e parare colpi e improvvisate.

Altrettanto felice è stato il carosello interminabile di incontri che, senza alcun tipo, ma davvero alcun tipo di programmazione, si sono avvicendati lungo le mie cinque giornate al Salone. Non esagero se dico che dentro al Lingotto nei giorni del Salone del libro 2018 ho incontrato il mondo. Perché così è stato davvero: amici torinesi, e colleghi che ho

risalutato dopo mesi senza vederci – tutti negli stessi posti, tutti impegnati sulle stesse pieghe del lavoro giornalistico -, autori intervistati, personaggi conosciuti grazie al giornale. E poi gente legata al mondo dei libri, legami coltivati negli ultimi anni e mesi, amici dei tempi dell’università, persi per le vie delle vite che dopo gli studi diventano adulte e si inerpicano per tragitti tutti personali, e ancora gente conosciuta solo online con cui darsi appuntamento cercando di riconoscersi, e passare delle ore dialogando, scoprendosi, condividendo la lunghezza di un nome importante. Scrittori che ti riconoscono e ti salutano, editori che riconosci e ai quali chiedi una foto: Fabio Genovesi mi ha salutata in mezzo ai padiglioni, io ho fermato il signor Sellerio insieme a Marco Malvaldi chiedendo loro un sorriso per uno scatto. Ma non è mica finita, perché il Salone è anche il luogo dove rivedi persone che hai conosciuto lì l’anno scorso, ed è il caso della libraia Daniela, della libreria Dovilio di Caltagirone, che è una città siciliana dove non sono mai stata ma non importa, so che la sentirò vicina quando mai ci andrò, perché dei sorrisi, delle parole gentili e della stima di Daniela è stato traboccante il nostro incontro con selfie allo stand Exorma.

E poi c’è stato Marino Magliani, come sempre incontrato per caso negli ampi spazi della fiera torinese, il suo inconfondibile cappello, il profilo malinconico di un Biamonti del 2018 che si aggira e osserva, e forse pensa alla Liguria. Quante persone “di casa” ho incontrato al Salone? Tantissime. La mia amica biologa che mi chiama e con la quale vado a seguire l’incontro di presentazione de Le assaggiatrici, romanzo di Rosella Postorino che ha dialogato in modo speciale con Michela Murgia, il mio migliore amico libraio salito apposta dalla Liguria per immergersi nell’atmosfera del Salone, visi incrociati senza sapere di riconoscersi, la mia amica di infanzia del mare che vive a Piacenza ma fa la giramondo e con l’entusiasmo di decenni fa mi ha trovata e salutata.

È davvero incredibile quanto il mondo dei libri possa unire, accendere legami, far conoscere persone. Si sono conosciute Giusi Marchetta e Alice Basso, autrici che stimo e che ho avuto occasione di intervistare, insieme per un firmacopie dai librai di COLTI, che ormai ho imparato a conoscere. Le dediche sui libri raccontano di chiacchiere, sorrisi, interrogativi e sguardi sul mondo. E sono impreziosite dalle foto dei disegni di Pia Taccone, l’illustratrice che ho conosciuto tra un pastello e un temperino, scoprendo poi che è legata alla rivista Carie e dunque a tutto un altro universo con cui sono in rete e intorno a quale mi muovo.

Parte di un ingranaggio, mi sono sentita così. Piccola pedina che nella corrente grande, immensa delle parole scritte finisce per rinsaldare amicizie, stima e storie, mentre ne conosce altre, cibandosi delle perle preziose raccolte all’incontro con il Nobel Herta Müller, del 97enne Edgar Morin, per non parlare di Javier Cercas e del suo colorato accento spagnolo nell’italiano con cui ha declamato la sua toccante lectio di apertura del Salone sull’Europa.

Lo sguardo sul futuro è stato sognante, per niente imbarazzato di sentirsi alto, esteso, immenso, bello e solido, nutrito a cultura, umanesimo, spirito democratico e curiosità insaziabile. Che è poi il motore dello stesso Salone, quello che ti fa rimbalzare da un incontro all’altro perché vuoi vedere Giovanni Floris e sentire che ha da dire sul mondo della scuola, e Piero Angela, che ha una sala gremita di giovani che farebbero la ola per lui solo, ma anche Javier Marìas, che pensavi di aver perso ma la fila al firmacopie è talmente lunga che lo recuperi. E se hai perso Alessandro D’Avenia perché la sala era gremita di scuole prenotate, lo recuperi di sguincio all’incontro che fa con Andrea Marcolongo per parlare della Misura eroica, tra argonauti, greco antico e mitologia, con due personaggi che forse stanno diventato delle allodole mediatiche, biondi, occhi azzurri e bellissimi entrambi, ma così profondi e ricchi di parole che pazienza i media, è importante leggerli anche quando non saranno più di moda.

Ricostruisco la mia girandola di incontri, libri, autografi e dediche al Salone del libro attraverso le foto. Sono tante, perché tante sono state le situazioni, le suggestioni, i colori e i sorrisi. Le foto raccontano occhiate, abbracci, stanchezza e incontri speciali, c’è anche un selfie con il Premio Pulitzer 2018 per la narrativa Andrew Sean Greer, il cui romanzo Less ho letto in tempi non sospetti, e che avevo incontrato mesi fa al Circolo dei lettori. Ogni tanto mi viene da pensare non sia del tutto “normale” fare una vita in cui capita molto spesso di incrociare Nobel, Pulitzer, ma anche in cui fermare Ernesto Ferrero e riuscire a parlare con lui di Italo Calvino, provando un’emozione fortissima.

Come ogni anno, alla fine del Salone c’è una foto che faccio e che mi serve per ricostruire, attraverso i libri che ho acquistato – un po’ perché già li volevo, un po’ perché li ho incontrati per caso -, cosa è stato il mio Salone, il mio percorso, la mia storia di cinque giorni. Quei libri, che ora dormono insieme agli altri sulla mia billy bianca, sono come mattoncini di storie future che verranno, e che forse saranno completamente slegate dall’atmosfera del maggio torinese e del Salone, porteranno aria nuova, le voci dei loro autori e il segno del mio pensiero e delle mie idee al di là di questi singoli cinque giorni di coloratissima e affollata frenesia. L’idea si sposa perfettamente con il titolo dell’edizione: un giorno, tutto questo. È il motto che dedico al mio Salone: un giorno tutto questo saranno sorrisi, abbracci, parole e stimoli nuovi, idee da coltivare, slanci da seguire, paure da non tenere chiuse ma da esplorare, sviscerare. Perché i libri sono questo: storie di persone, di pensieri, di evoluzioni.

Scrivo mentre piove, la giornata di sole di maggio squarciata da un temporale che adesso picchia sulle tegole fuori dalla finestra, sembra il fragore dei temporali esplosi mentre girovagavo per il Salone, sembra in fondo che non sia passato poi molto. 12 giorni da quell’11 maggio in cui si è tagliato il nastro, e poi? Poi, dopo il carosello di autorità, che è accaduto? Ho ripreso a vivere quasi come se niente fosse, chiusa la parentesi, tornata la vita, tornato imperante il lavoro che sembra non voler lasciare spazio ad altro, eppure negli ultimi due anni ha aperto orizzonti, slargato strade, intessuto legami. Scrivo del Salone mentre da pochissimo se ne è andato un grande della letteratura mondiale, Philiph Roth. C’è una sua citazione che in molti hanno condiviso, e che oltre a essere una guida per la vita, mi dà lo spunto per una rilettura a distanza del senso della mia esperienza al Salone in questo 2018, ovvero l’immersione caotica e imperfetta, ma forse proprio per questo stupenda, nella vita e nelle relazioni con la gente. Che poi non è altro che ciò che racconta la letteratura.

In ogni modo, capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando.

Forse ho sbagliato a non cogliere la palla al balzo, sottrarmi alcune ore di sonno e urgenze di lavoro e non scrivere a mente fresca del Salone, dati alla mano, entusiasmo delle dichiarazioni istituzionali ancora vivo, interrogativi che sembravano avere la meglio sul resto, tutto il resto. Ma visto da qui, dal futuro che rappresentano questi dieci giorni dopo il Salone che si interrogava proprio sul futuro, non è poi male questo sbaglio: mi permette di stemperare tutto, di scorrere con la mente sulla galleria dei visi amici che ho incontrato, che sono il tesoro preziosissimo di questo Salone, la spilla da tenere appuntata sul petto (insieme a quella, bellissima, del marinaio donatami dalle edizioni Cliquot). Mi permette di scorrere con il dito lungo la libreria, scegliere in quale storia immergermi, percepirla carica di vitalità e di idee, di voce umana con cui mettermi a confronto, ancora una volta, per dare linfa a tutta questa cosa meravigliosa chiamata vita e chiamata scrittura. Il confine a volte è così solido, altre quasi inesistente: il bello sta proprio nel moto perpetuo che agita il tutto. Tutto questo, un giorno.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!