EDIT di novembre 2023: come si può leggere dalla data, ho scritto questo articolo il 25 ottobre. Una manciata di giorni dopo Ernesto Ferrero se n’è andato. Vorrei allora che questo scritto fosse un affettuoso omaggio. Leggetelo così. Grazie.

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«Si immagini di parlare con un nonno». Mi ha detto così lo scorso aprile, al telefono, Ernesto Ferrero. Grazie a una catena di gentilezze ho avuto la fortuna per me preziosissima di poter sottrarre alla routine privata di un ex ufficio stampa Einaudi, nonché direttore del Salone del libro di Torino per anni, quasi un’ora di chiacchiere telefoniche alla ricerca delle memorie vive di Italo Calvino che io non posso avere, e che invece Ferrero tiene tra i ricordi più cari.

Questo lo sapevo perché, anche per costruire Torino di carta ed entrare in “casa Einaudi” avevo già letto I migliori anni della nostra vita, e più di recente, lo scorso anno, Album di famiglia. Che Ferrero abbia verso il mondo Einaudi un affetto sincero, eredità di anni di lavoro appassionato e produttivo, emerge nitidamente da questa pagine dense di entusiasmo e attenzione di un giovane che dentro a quell’officina editoriale ha imparato un mestiere, ed è entrato a far parte di un mondo. Il mondo Einaudi è anche il mondo di Calvino, e Calvino, inserito da Ferrero nei “preferiti” insieme a Primo Levi in Album di famiglia, è uno degli ingranaggi più importanti di quel mondo. Questo il nocciolo di partenza per un viaggio che Ferrero decide di percorrere in Italo, il suo libro omaggio uscito nell’elegantissima foggia Einaudi, bianco e con un bianco e nero dello scrittore in copertina che a me risulta inedito.

Una biografia senza io

Italo, semplicemente questo il titolo. E una foto che trovo bellissima: emerge uno sguardo pungente, forse ironico, certamente sfidante. Non a caso Ferrero parte dall’esplicitazione della grande sfida che ogni percorso biografico dedicato a Calvino si pone: il guscio protettivo dietro al quale lo scrittore si è sempre rifugiato, anzi nascosto, consapevole, insieme distaccato e divertito. Una conchiglia, non so se per influenza di Domenico Scarpa o meno, anche Ernesto Ferrero chiama così questa istanza tutta calviniana. E tuttavia Italo non è semplicemente una biografia, anche se percorre in senso cronologico le tappe del viaggio esistenziale di Calvino, dall’infanzia, anzi dai genitori, fino a quel giorno del 1985 a Castiglione della Pescaia. Non è una biografia perché è anche un ricordo. Un ricordo nel quale Ferrero intreccia con sapienza considerazioni, analisi, raccordi.

Lo fa con una discrezione sabauda: l’io non compare quasi mai. E se la vulgata si riferisce all’io di Calvino, dedito ai nascondini, qui mi riferisco all’autore di questo libro: Ernesto Ferrero porta avanti un lavoro scientifico, rigorosissimo. Ci sono fonti biografiche, testi calviniani di riferimento, e le ubique lettere, che sono forse lo scorcio di un Italo inedito ai suoi lettori non specialistici, vibrano delle sue parole più autentiche. E ci saranno certamente anche i ricordi personali di Ferrero, che nella redazione Einaudi ha lavorato insieme a Italo. Ma sono filtrati dalla penna che scrive, dall’autore modello che con grande umiltà e saggezza Ferrero allestisce per raccontarci il grande Calvino, sottraendo spazio a sè.

Ho detto quasi. Perché un paio di eccezioni le incontriamo: parche, nei capitoli approfonditi del testo, ma talmente forti da squarciare il velo e rinsaldare un legame tenuto a bada dal tipico understatement torinese. Incontriamo infatti un “mi”, per dire a me, quando si parla dell’ufficio stampa Einaudi (lo curava Calvino, uomo del multitasking editoriale, e poi passerà allo stesso Ferrero) e nelle ultime pagine un ricordo che Ferrero stesso mi aveva raccontato a voce, e che avevo già letto nei suoi libri di ricordi sul mondo Einaudi. Riguarda quel giorno a Castiglione, il malore dovuto al primo ictus, Italo che viene portato via dall’ambulanza e una telefonata. A Torino Ernesto Ferrero chiede di Calvino, gli risponde il domestico dicendo che il signore è andato via. Via dove? Sarà Daniele Del Giudice ad avvisare Ferrero, e i fatti a seguire sono storia ahinoi nota.

Il piacere di rendersi invisibile

C’è però un’altra concessione all’io di Ferrero: la si trova nei paratesti del libro, poco prima dei ringraziamenti (che sono tanto tanto sabaudi, anche loro, e per questo mi hanno fatto sorridere: gentili, sentiti, ma discreti). Ernesto Ferrero mi aveva raccontato al telefono un fatto familiare che riguardava Calvino e che non svelerò qui: c’è in queste righe del libro ma compare, nelle parole del protagonista, anche nel recente documentario Italo Calvino. Lo scrittore sugli alberi. È una memoria di grande tenerezza che ci permette di intravedere un volto, uno dei tantissimi, dello scrittore nascosto dietro la conchiglia. Una conchiglia dalla quale ci guarda, e ci sfida, una volta prese le distanze, a cercare di raggiungerlo, di capirlo. Ci avvisa, però: non troveremo nulla tranne una scatola vuota. Il percorso di Ferrero tra le pagine di Italo insegue questa sfida, come dicevo. Anche lui, come già Scarpa, ci presenta una storia che è la costruzione di un personaggio: missione ben riuscita.

Chi era dunque davvero Italo, semplicemente Italo, uno straordinario scrittore e creativo, ma anche un uomo calato nel mondo? E cosa c’era, davvero, dentro la sua scatola magica? La risposta si articola tra i capitoli che partono da Villa Meridiana, a Sanremo, e tappa dopo tappa ripercorrono la vita dello scrittore. Non è una biografia propriamente detta: ha toni del racconto, si avvale di fonti, non lesina dettagli che arrivano dal molto studio e probabilmente dalla conoscenza diretta che filtra e che Ferrero non lascia mai prendere la scena. Per esempio i bagni Morgana, lo storico stabilimento sanremese il cui nome fu inventato da Antonio Rubino, o il fatto che Eva Mameli avesse una passione per i dizionari, dall’alto della quale guardava con divertita indulgenza l’inclinazione letteraria di Italo. Ferrero cuce insieme informazioni sulla vita, le scelte e la scrittura così che il racconto di Italo sia una storia che procede lineare, piacevole: non una biografia, come dicevo, non una disamina da critico letterario. Intrecciate insieme ci sono osservazioni acute che non parlano mai in prima persona (la tendenza a farsi vedere il meno possibile contagia anche il progetto dell’autore di questo libro: chi è per esempio Lia dello Scrutatore? Si allude a un vero amore, ma la discrezione è mantenuta fino all’ultimo), citazioni dallo sterminato patrimonio calviniano.

I titoli dei capitoli segnano le tappe del percorso, e sono un bel modo per anticipare a cosa corrisponderà quel frammento: “entrare nella vita” per esempio è composto da poche pagine densissime del pensiero del giovane Italo che scrive lettere a Eugenio Scalfari e rileva i suoi sogni e speranze, ma c’è poi anche Chichita, tutto per la moglie, o un capitolo per la storia con Elsa De Giorgi. È un racconto, il racconto di una figura complessa e sfaccettata, per entrare nella scatola-rifugio del quale c’è bisogno di allargare lo sguardo e abbracciare tutto, fin dall’infanzia, dentro tutte le esperienze di vita di cui si trovano tracce negli scritti, nelle relazioni personali all’Einaudi di Torino, e anche nell’immaginario.

 Com’è difficile fotografare Italo in una posa ufficiale, di quelle da mettere sulle sovracoperte, o da mandare alla stampa. Appare subito sulla difensiva, si irrigidisce, assume pose innaturali. Meglio farlo spuntare da una porta, da una finestra, con l’aria di chi passa lì per caso e viene colto di sorpresa, il volto seminascosto, come un animale che esce dalla tana ed esplora cautamente un ambiente infido

La vocazione del semiologo

C’è un filo semantico colto da Ferrero che mi è molto caro perché è quello che ritrova, fin dagli albori, la vocazione semiotica di Calvino. La parola semiotica ritorna parecchie volte in Italo e mi rasserena: il primo capitolo della mia tesi sosteneva la medesima vocazione calviniana a partire da un paio di racconti cosmicomici: sono proprio gli stessi citati da Ferrero. “Gli viene spontaneo trasformare le cose in segni astratti, carichi di un significato simbolico”: Ferrero si accorge che a poco più di 20 anni Calvino non sapeva ancora di avere la vocazione del semiologo, ma lo scoprirà vivendo, leggendo, scrivendo e osservando. Tanti sono gli incontri, tante le tappe del percorso che lo faranno arrivare a toccare il cosmo con Qfwfq, e a giocare con le strutture à contrainte con l’Oulipo.

la sua è la guerra di un semiologo che cattura segni e cerca di sistemarli in un discorso organico; ma anche di un antropologo che si ritrova sottomano uno spaccato sociale brulicante di diversità; di un disegnatore e caricaturista che sa cogliere i dettagli che rivelano un uomo o un paesaggio

Queste riflessioni sono intrise di semiotica, che del resto è la scienza che si agita anche dietro tante realizzazioni pratiche nella scrittura di Calvino, con le quali lavora e si arrovella nel tempo. C’è lo spunto per un discorso molto interessante che riguarda l’atteggiamento di Calvino verso i calcolatori e il codice binario, in queste pagine. Ferrero aveva già accennato in Album di famiglia alla propensione di Italo per il pensiero affine al funzionamento del codice base dell’informatica. Qui l’idea viene ripresa e avvicinata alla modernità: è una delle rare volte in cui l’autore si espone attraverso le domande che si e ci fa: chissà come avrebbe reagito, cosa avrebbe fatto, detto, scritto e pensato Italo davanti alla modernità, lui che lavorava come i calcolatori, per opposti, e chissà quanti spunti gli avrebbe offerto il digitale, a lui che “è lo scrittore ideale per calcolare potenzialità e rischi dell’era del computer che si affaccia all’orizzonte, misto di magie e pericoli”.

Calvino viene definito da Ferrero con una perifrasi che mi sembra molto ben indicativa di una certa attitudine alla semiotica e al mondo dell’editoria e dei media, dentro il quale volente o nolente il nostro scrittore entra avvinghiato. Lo chiama maestro della comunicazione, e mi trova d’accordo. Del resto diceva di lui Giulio Einaudi che “la stessa persona poteva scrivere un romanzo e una pubblicità redazionale, senza troppo soffrire, ricavandone di che vivere con dignità e sicuro di essere al centro delle cose, o almeno nella sua prossimità”. Il mondo della comunicazione e della semiotica ha infine dimora tra le pagine di Italo anche per il ricorrere, che trovo molto simpatico, di Umberto Eco per ben due volte. La prima volta Ferrero lo cita come traduttore degli Esercizi di stile di Raymond Queneau, mentre nella seconda sono sempre delle strutture à contrainte a tenere insieme i nomi Calvino ed Eco. Siamo infatti in Se una notte d’inverno un viaggiatore e Ferrero ricorda la dedica che Italo fece alla copia per Eco, scritta in latino.

Torino: una città che assomiglia a Italo

A un certo punto Ferrero dice una cosa bellissima, e la fa in una delle due volte in cui cita Primo Levi, altro suo scrittore del cuore. Dice che la Torino scelta da Calvino per l’avventura Einaudi, per quella di giornalista e di militante del PCI è la Torino di Tino Faussone, il protagonista di La chiave a stella di Levi, uno dei romanzi che più amo. È una Torino dedita al buon lavoro, al rigore, all’etica. È in questa città, in questa forma del mondo che Calvino sceglie di entrare: sceglie Torino perché gli assomiglia: è “scontrosa, di poche parole, dedita all’etica del fare delle botteghe artigiane”. Una Torino perfetta per un “giovane provinciale poco provinciale” quale era l’Italo in costruzione degli anni Quaranta. Un’autocostruzione che, di fatto, si svolge tutta a Torino, tra l’Einaudi, l’Unità, le stanze in affitto, e poi la casa di via Santa Giulia che Ferrero descrive, altra concessione velata ai ricordi personali, e che ricorda scarna di mobilio e con un tavolo rustico sul quale troneggiava la Olivetti Studio, “solenne come un totem”.

Come Torino, Calvino è spesso contraddittorio nel suo nascondersi e rivelarsi a sprazzi. Con un bell’ossimoro, Ferrero ci dice che continuamente cerca la discontinuità, e che ha bisogno di opposizioni per attivare la propria creatività. Italo è taciturno, tutti ricordano la sua balbuzie, però scriverà oltre cinquemila lettere. È anche l’Italo sempre più afflitto da una sorta di perplessità sistematica che distilla in tanti personaggi, da Marcovaldo a Palomar, dal redattore dalla Nuvola di smog ad Amerigo Ormea nella Giornata di uno scrutatore. Sono quasi tutte (a eccezione di Palomar) storie torinesi. E questo uomo perplesso e meditabondo lo vediamo camminare con le mani in tasca – che non sia proprio una di quelle immagini la cui didascalia recita Corso Re Umberto? – distratto al volante, negli episodi che Ferrero ha spesso narrato nei suoi libri (qui dice che addirittura scortecciava con l’auto gli ipocastani di corso Re Umberto!) e poi concentratissimo, quasi a creare disagio nell’interlocutore.

Eccentrico, insomma, quasi fosse sempre lì con un piede sulla porta, in procinto di andarsene, di cercare un altrove che infatti non smette di inseguire, spostandosi in tante città, senza mai mantenere un rapporto personale con alcun luogo che non sia la sua scrittura, il lavoro ben fatto. Chi è davvero questo Italo da pessimismo precoce, ironico ma disincantato, maestro delle favole, redattore esperto e scrittore, creativo ma rigorosissimo? Ferrero lo rintraccia nei nove ritratti che di Italo fece Carlo Levi, ora in mostra a Roma per Favoloso Calvino, si vede “un uomo contrariato, la fronte solcata dalle rughe delle domande, chiuso in se stesso come una pigna”. La ricerca della conchiglia, insomma, non finisce qui.

La raccolta di tutti gli articoli in cui parlo di pagine dedicate a Italo Calvino

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!