Olimpiadi strane, quelle di questo 2021: anno dispari con un logo olimpico che descrive un anno pari: l’anno della pandemia. Olimpiadi strane anche perché, nonostante il loto potere simbolico e il per ora ricchissimo medagliere italiano che riempie di orgoglio anche chi, come me, non segue e non sa nulla di sport, la loro narrazione è come sospesa in un’estate fatta di pandemia, green pass, vacanze e dubbi. Olimpiadi lontane, queste di Tokio 2020 che si svolgono nel 2021, con le solite polemiche su come sono descritti gli atleti, grande tifoseria, felicità e storie di coraggio e riscatto.

Tra i narratori di pregio delle Olimpiadi c’è, inaspettatamente, un giovane Italo Calvino, ventinovenne aspirante giornalista alle prese con la cronaca dei giochi come inviato dell’Unità a Helsinki. Correva l’anno 1952: quasi 70 anni fa. Cercando informazioni in rete su questo episodio della vita di quello che sarebbe poi diventato uno dei più grandi scrittori e intellettuali italiani, mi sono imbattuta in questo interessante approfondimento di Rai cultura dedicato a due narratori sportivi d’eccezione: Calvino e Pasolini.

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Olimpiadi di Helsinki, 1952

È strano, in effetti, associare la carriera e gli scritti di Calvino a questo insolito focus sullo sport in pieno dopoguerra. Calvino era appassionato di sport? Non sembrerebbe. Eppure, ad alcuni potrebbe venire in mente il personaggio di uno degli incipit di Se una notte d’inverno un viaggiatore, impegnato a fare jogging per tenersi in forma, oppure la leggiadra descrizione della sciatrice in L’avventura di uno sciatore, tratta da Gli amori difficili, una prosa di rara grazia le cui immagine restano limpide in mente.

Nel 1952 Calvino però era lontano da tutto questo, al suo terzo romanzo (Il visconte dimezzato), si dice fu inviato a Helsinki per decisione dello stesso Togliatti, o forse di Gian Carlo Pajetta, dirigente del Pci, o di Davide Lajolo, direttore dell’Unità, con l’idea di solleticare l’abbinamento letteratura e sport. In effetti, i tentativi di narrazione di Calvino non sono affatto giornalismo, ma qualcosa di più profondo della cronaca. Calvino racconta che a Helsinki si muoveva con Paolo Morelli, cronista della Stampa inviato alle Olimpiadi, il quale era miope ma più acuto di lui nello svolgere il lavoro giornalistico al grande evento: “io gli descrivevo le scene e le situazioni che accadevano – dice Calvino – Guarda qui, guarda là. E poi scoprivo il giorno dopo, leggendo La Stampa, che era riuscito a raccontare meglio di me quello che era accaduto”.

Le Olimpiadi del 1952 si svolgono in piena Guerra Fredda: Calvino quindi, sebbene non calato nei panni del cronista sportivo ideale, è uno sguardo acuto su una manifestazione altamente simbolica in un tempo carico di tensioni. Poca cronaca sportiva nei reportage del giovane Calvino, ma al contrario tante narrazioni che già lasciano intravedere qualcosa di una voce che emergerà negli anni seguenti.

Lo sport come contesto

L’impermeabile, si capisce, lo portiamo noi comuni mortali, perché la pioggia non riesce ad offuscare la noia dominante e caratteristica di questo clima olimpico, costituito dai colori delle tute di allenamento ancor più vistose delle giacche della divisa da passeggio degli atleti e dei dirigenti delle varie squadre: gli italiani, col loro splendente doppiopetto, coi bottoni d’oro, hanno tutti un’aria da principe azzurro: emergono con loro, in vistosità, i messicani, con le loro giacche rosso-vino, mentre invece gli inglesi portano una giacchetta nera assai modesta.

Questo è quanto si legge sulla cerimonia d’apertura dei giochi olimpici. È già evidente come lo sport sia solo un contesto dentro il quale si agitano persone, anzi personaggi, e situazioni che alimentano la fantasia dello scrittore. Le cronache di Calvino non sono affatto cronache, ma storie, che hanno lo straordinario potere, a decenni di distanza, di restituirci un intero mondo non appena posiamo l’occhio sui fogli datati 1952 e, iniziando a leggere, ci immergiamo.

Come leggo con interesse in questo articolo accademico dedicato a Calvino narratore di sport, a parte il marciatore Dordoni (una delle glorie della marcia, citato anche di recente sui giornali per celebrare la vittoria italiana a Tokio 2020), sono poche le figure di sportivi italiani ai quali Calvino si dedica nei suoi reportage olimpici. Il microcosmo di Helsinki riservava allo scrittore altre suggestioni, è il caso di dire da tutto il mondo. C’è per esempio  Paavo Nurmi, campione finlandese di mezzofondo, tedoforo all’inaugurazione, ma anche l’atleta ceco Zatopek, vincitore dei cinquemila, diecimila e della maratona. Proprio nella rubrica “Personaggi dei Giochi olimpici” Calvino dipinse chi aveva incontrato nei suoi tentativi assai più profondi di cronaca sportiva, e tutt’intorno. Perché non ci sono solo sportivi, e non ci sono solo discipline, c’è anche Helsinki, “una città che sa di pesce e di prato, cresciuta com’è in mezzo ai boschi e all’acqua”.

Le narrazioni di Calvino approdano sull’Unità: sono lette dal Pci, e dunque i racconti degli atleti e delle performance americane assumono una sfumatura particolare. Ecco cosa scrive Calvino dando prova del tempo, anno 1952:

È un trionfo dell’America? La stampa americana e quella che ad essa s’ispira fanno di tutto per diffondere quest’idea: levano alte alle stelle le vittorie degli S.U., minimizzano le altre. Ma se dallo Stadio passiamo alle gare ginnastiche, la musica cambia: qui i sovietici (e le sovietiche) fanno strage di medaglie, s’aggiudicano tutti i premi. Dunque, dallo sport coltivato da elementi selezionatissimi, sottoposti a un continuo, rigoroso allenamento, passiamo agli sport di massa, dove i dilettanti sono veri dilettanti, e dove vengono provate l’efficienza e l’estensione delle attrezzature sportive del Paese, la diffusione della pratica sportiva nella gioventù, allora l’America scompare e l’Unione Sovietica ha un vantaggio incontrastato […] Cantate pure con contentezza il vostro inno ogni volta che le stelle e le strisce salgono sul pennone: nessuno può negare che il vostro sia un grande popolo, soprattutto quando i millesangui negri e bianchi che fecondano la vostra terra sono in grado, come qui, di farsi valere sullo stesso piano. Ma, vi prego, riflettete un momento: voi sapete come nascono i vostri campioni, i vostri grandi specialisti, saltatori con l’asta, podisti, discoboli; sapete che sono beniamini dei “colleges” universitari dove essi vengono mantenuti, studenti spesso solo di nome, per dare lustro sportivo all’Università e servire d’attrazione pubblicitaria, e dove non hanno altro da fare che allenarsi, migliorare la propria tecnica e il proprio stile, come raffinati virtuosi, frutti di quel compromesso tra cultura, accademia sportiva, industria, che sono gli istituti d’istruzione americani.

Una partita che non ho visto

Mi ha divertita un episodio sensazionale, da scrittore totale, nel quale Calvino ha saputo dimostrare la sua stoffa di narratore anche senza alcuna nozione di sport. Ai giornalisti capita spesso di improvvisare: sono persone curiose, sanno poco di tanto, ma assai raramente un cronista ha tempo di approfondire e specializzarsi, quello è il ruolo dell’esperto di un settore, cosa che Calvino certo non era né aspirava a diventare. Tant’è che, quando nel 1948, Calvino ebbe l’incarico di raccontare la partita Italia-Inghilterra – altro episodio che ci riporta insolitamente a questa estate olimpica del 2021 – lo fece senza assistere alla partita in un articolo intitolato Una partita che non ho visto. Non è geniale?

Italia-Inghilterra sarebbe stato il primo incontro del dopoguerra, una domenica pomeriggio di marzo del 1948 allo stadio Comunale di Torino. Dove, però, Calvino non entrò mai. Perché? Perché fuori da quello stadio c’era un universo brulicante da esplorare: tifosi, bancarelle, bagarini, la città di Torino trasformata e resa metropoli allegra tra viali grigi e aria settecentesca, e un’aria di festa, grida al bar, pullman, auto… Tutto enormemente più interessante della partita, specie per un non sportivo come lui:

Io la partita l’ho vista di fuori – scrive – Certo anch’io avrei potuto comprare un biglietto all’ultimo momento, quando gli sfortunati bagarini facevano di tutto per dar via all’ultimo momento le loro rimanenze, ma ho preferito gustarmi l’atmosfera di festa per le strade, assaporare questa domenica di festa tanto diversa dalle altre.

Non arriva quindi a sorpresa il commiato di Calvino alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, così come scrive nel suo ultimo articolo da inviato, dall’eloquente titolo Salutiamo a malincuore il microcosmo di Helsinki:

La fine delle Olimpiadi arriva proprio nel momento in cui ero riuscito, io profano, a entrare appieno nel loro meccanismo, a viverle davvero. Adesso posso confessare che le prime giornate, in mezzo alla gran giostra delle gare più disparate, stentato a raccapezzarmi, specie là nel grande stadio dell’atletica leggera, tra tante competizioni simultanee, tra tanti nomi che mi giungevano nuovi, tra tanti numeri. Alla fine degli otto giorni di atletica leggera, ero già un accanito appassionato. E proprio allora tutto finisce. Così m’è successo per la pallanuoto, il nuoto, il ciclismo. Ma voglio parlare soprattutto dell’atletica, di questo enorme spettacolo in cui ho trovato nuovi personaggi, nuove dimensioni di bellezza e di valore umano. Credo che resterò un appassionato di atletica, ma tante rappresentanze di popoli diversi, tante figure che erano divenute familiari e esaltanti, dove e quando le ritroverò?

Lo potete leggere per intero qui. Un altro articolo originale d’epoca sulle Olimpiadi di Calvino è qui.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!