I libri sono viaggi, e questa frase facile a volte non è affatto tale ma, piuttosto, una verità spicciola che si percepisce aprendo la prima pagina di un romanzo e accompagnandone la lettura, fino all’ultima riga e ancora, dopo, quando lascia nella testa quel sapore di buono e quella sensazione bella, capace di restare sospesa a lungo, ancora e ancora, anche dopo essere arrivati al capolinea della storia.

Mi è accaduto così con il secondo romanzo di Alessandro Barbaglia, L’atlante dell’invisibile (Mondadori), che, tanto per cominciare, ha una copertina azzurra e bellissima, fatta di luna, nuvole e tuffi. Un libro così non poteva che essere un libro per accompagnare l’ingresso nell’estate, e difatti è stato proprio così. Giugno, 7 del mattino, banchina della stazione, L’atlante in borsa, un’amica che inaspettatamente prende il mio stesso treno e, sedile a fianco al mio, tira fuori lo stesso libro dalla borsa. In questa maglia di relazioni e sorrisi, di coincidenze e pagine comuni, è iniziato il viaggio. Non solo metaforico – ogni libro, dicevo, è un viaggio – ma vero e proprio, due mondi e una strada, Liguria e Piemonte che rimbalzano tra una partenza e un ritorno, una presentazione, una luna piena, un soffitto a stucchi barocchi e una balena sulla maglietta, una barca, un microfono, un pescatore (di storie?) sul bavero.

Chi lo ha già incontrato e ascoltato raccontare storie, lo sa: Alessandro Barbaglia è così. Così come scrive: sognante, poetico, mai scontato nei giochi che intreccia di parola in parola, nei viaggi in cui si tuffa, e che quando lo portano sulle rotte tra Piemonte e Liguria, guarda caso, incrociano anche i miei giri. Mai come in questo atlante le geografie di presentazioni e incontri si sono trovate strada facendo, su e giù, un po’ di montagna, un po’ di mare, passando di borgata in città. Ecco dunque perché sono così affezionata a questa bellissima storia dalla copertina azzurra, ed ecco perché tengo care le parole e immagini utilizzate da Elena Varvello durante la presentazione torinese del romanzo di Alessandro (che nel frattempo è diventato un amico, e dunque lo chiamo per nome) al Circolo dei lettori di Torino.

Nella sua storia – dopo La locanda dell’ultima solitudine ancora una volta un racconto stupito sul gioco del mondo – L’atlante dell’invisibile mette infatti insieme dei doppi, anzi degli antipodi, le due facce di cose che forse a guardarle sembrerebbero una sola. La strada maestra, anche lei doppia come si rispetti, è quella che vi ho già anticipato, quella che da Milano, Lombardia grigia di pianura, scende in Liguria e attraverso il tunnel spazio-temporale del Turchino raggiunge l’azzurro, quello della copertina, sì, ma anche quello del mare di Sanremo. Il mare di casa mia, sulle rive del quale ho conosciuto Alessandro l’anno scorso e l’ho ritrovato quest’anno, tra un mappamondo e un pesce. Non è un caso: proprio nulla è un caso in questa storia che acchiappa e si mescola alla vita vera. Non lo è perché dentro al libro si parla della Milano-Sanremo, la celebre corsa di bicilette che passa proprio sotto casa mia, sotto quel Capo Berta che incontra gli atleti già provati da centinaia di chilometri, ora sulla costa, prossimi all’arrivo nella Città dei Fiori.

Quando la porta del Bar Sport si apre ancora, ed erano minuti che non succedeva più, il Coppi sta pedalando come un pazzo sul lungomare di Imperia.
È adesso che allunga la mano fin nel triangolo della biciletta, è ora che prende la borraccia con dita fortissime, è in questo istante che se la porta alle labbra. Beve. È adesso che al Bar Sport entra Teresa, mentre Coppi, a Imperia, beve un sorso dalla borraccia.

Due mondi: quello del romanzo e quello vero, il mio. Che buffo ritrovare la Milano-Sanremo in una storia, viverla come in quel 1946, edizione di un dopoguerra che resterà nella leggenda perché incoronò vincitore Coppi, primo assoluto, così primo che non furono i secondi a separare il suo arrivo da quello degli altri, ma minuti interi, riempiti alla radio da nient’altro che musica da ballo. È su questo episodio che si incontrano i due protagonisti della prima storia contenuta nell’Atlante: ve l’ho detto, tutto è doppio qui dentro, e anche le storie sono due, ambientate in luoghi diversi e con personaggi diversi, eppure destinate a incontrarsi lungo la strada.

Protagonisti dei minuti di musica da ballo che separano l’arrivo di Coppi da quello degli altri ciclisti al traguardo di Sanremo sono Elio e Teresa, all’epoca ragazzi, che si conoscono al Bar Sport di Barlassina, città lombarda del distretto dei mobili, e da quel giorno non si lasceranno più. Una coppia fatta ancora una volta di antitesi, lui sognatore, costruttore di mappamondi di legno spesso più immaginari che reali, lei razionale e pronta a riprendere il suo compagno e riportarlo alla geografia corretta. Perché infilare il mare in Svizzera e una grande virgola in mezzo all’oceano, visibile solo grazie alla luce di un faro di biciletta simile a una luna? Per sognare di fare il mondo come ci piacerebbe che fosse, e con poche pedalate, da Barlassina, raggiungere il mare, direbbe Elio, leggero e azzurro come il suo stesso nome. Ma non è così che accade nella realtà, risponderebbe Teresa, ripiegando sull’orizzonte terrestre, non è giusto così. Anche se, forse, sarebbe meglio.

«Fanno i mobili qui» si era detto, «e non si sono mai spostati di un chilometro. Io farò l’immobile, resterò fermo, a farmi girare tutto il mondo dentro gli occhi.»
E così era successo: Elio si era messo a costruire mappamondi.
Mappamondi giusti? Mappamondi precisi? Mappamondi copie di una realtà esistente?
No: mappamondi suoi.
Non faceva mappamondi: a dire il vero, li inventava

Ma Elio non è l’unico a giocare con la geografia, e mentre nel suo laboratorio costruisce con perizia pianeti immaginari grazie ai suoi mappamondi, a qualche chilometro di distanza, a Santa Giustina, Trentino, tre ragazzini la somma delle età dei quali fa 42 (la Risposta, penserà qualcuno: io, per esempio, l’ho pensato!) vivono la fine del loro paesino, minacciato dalla costruzione di una diga che, come un lago, sommergerà tutto. Nella loro ultima estate a Santa Giustina, così, Dino, Ismaele e Sofia si ingegnano per costruire un Atlante delle cose invisibili, uno scrigno dove raccogliere e conservare tutte quelle cose che non si sa dove vanno a finire quando finiscono: Santa Giustina, per esempio, ma anche cose più eteree come l’infanzia, l’amore, i ricordi, il dolore… Tutta una serie di cose invisibili che, pure senza farsi vedere, ci tengono vivi. Nelle pagine centrali del loro atlante i ragazzi sistemano così la luna, rubata una sera di quell’estate, promessa per rivedersi quando… Eh no, ora tocca a voi scoprire la storia, vi sciuperei la poesia e la delicatezza dell’intreccio, tra un doppio e un rimando di cui è intessuta dentro e fuori tutta questa trama invisibile.

Le cose infinite non finiscono, continuano invisibili

Elena Varvello ha cercato di radunare intorno a una sorta di schema tutti i doppi che fanno perno alla prima originaria antitesi tra Milano e Sanremo, quella che è tenuta insieme, come il pezzettino di pasta dura intorno alle ali di una farfalla, dal tunnel del Turchino. Si parte dal foglio di carta, che se ci pensate è l’emblema delle due facce, recto e verso, due dimensioni inscindibili, insieme visibile e invisibile, realtà e mondo immaginario tenuti uniti dal filo della scrittura. Basterebbe già questa immagine per riassumere tutta la magia della storia di Alessandro, che proprio grazie alla sua natura di storia, raccontata con parole, su un foglio, diventa un pertugio fantastico per accedere all’invisibile nascosto nelle cose tangibili di tutti i giorni. Me lo ha scritto lui stesso nella dedica al libro «Per te, Alessandra! Perché l’invisibile è il modo che abbiamo di vedere meraviglie nel visibile». Esiste forse qualcosa di più potente di un libro, per avventurarsi in questo viaggio?

Il visibile, ha spiegato Alessandro, è un po’ una porta per l’invisibile: il lago diventa i ricordi di Santa Giustina, il mappamondo diventa la traccia di una geografia sognata, una sorta di scollamento tra quel che accade davvero, e quello che sarebbe possibile.  La porta della verità che lascia spazio all’immaginazione. Altrimenti detto: l’essenza della scrittura. Vi avevo avvisato che questo dentro l’Atlante sarebbe stato un vero e proprio viaggio. Sempre giocoso, tra rimbalzi di concetti e parole, ma tanto azzurro e leggero da finire per dire cose piantate a terra come colonne fatte per tenere su il cielo stesso. Insomma: concetti essenziali.

I mappamondi servono a questo: a metterci sopra un dito e a navigare sulla superficie. Ma perché allora metterci i confini, sulle mappe, se poi giocherai a sconfinare? Sai cosa penso? Che il mappamondo più grande di tutti è il mondo. E se lo guardi, dall’alto, ci cascasse sopra il cielo se ci vedi dei confini

In fondo poi questo opporsi di terra e cielo non è che il ritorno dei doppi elencati di Elena Varvello: la terra solida, Milano, e l’orizzonte del mare di Sanremo dove prendere il volo. Una strada che permettere di raccontare l’invisibile, e renderlo così percorribile a tutti, come illuminato dal faro di Elio, un po’ luce di biciletta un po’ luna da conservare dentro l’Atlante per le occasioni speciali. «Gli aquiloni raccontano benissimo questa doppia via – ha spiegato Alessandro al Circolo dei lettori – ho l’impressione che raccontare una storia sia proprio come far volare gli aquiloni». Piedi in terra, testa tra le nuvole; radici nella realtà, rami protesi nell’immaginazione, occhi capaci di vedere il visibile e, se tenuti chiusi, di esplorare i mondi dell’invisibile.

Il gioco dei doppi potrebbe proseguire ancora e ancora: Milano come limite, regola, punto e cosa giusta, Sanremo e il mare come infinito sconfinato, il meglio al posto del giusto, la virgola con cui chiudere una storia, la natura che si contrappone alla tecnica. L’invisibile contro il visibile. E al centro il tunnel del Turchino, che mi piace immagine già tendente al blu marino, del resto il nome gioca proprio su questo immaginario, una fata turchina che chiude gli occhi e apre una strada, una possibilità. Per questo passaggio, una stradina, Alessandro ha trovato un nome bellissimo: l’infinito presente. Un posto dove si può scegliere di volta in volta di abitare, piastrellato di quegli istanti di vita perfetti, da cui il ricordo non toglierà mai nulla perché sono stati istanti fisici, perfetti e così precisi da essere lì, infiniti ma sempre presenti, e per questo visitabili, «grandi nodi della nostra spina dorsale che ci tengono in piedi, anche quando sono dolorosi».

Ci sono momenti che non passano, mai. Sono pezzi di infinito: infinito presente. Se ci penso bene sono tutti i momenti di cui ho scritto nell’Atlante. Sono momenti che saranno lì per sempre, porzioni di tempo a cui non puoi scavar via nemmeno un istante, non puoi erodere neppure un secondo.

Il gioco sta tutto qui, nel passo che separa le due facce del foglio bianco, visibile e invisibile: il giusto e il meglio, che scoprirete nella storia di Elio e Teresa, ma anche quel che è coperto dal lago e quello che si scopre, come accadrà a Dino, Ismaele e Sofia. L’invisibile e l’infinito infatti, con l’ennesima giravolta rodariana di parole, non fanno che ri-velare, ovvero velare due volte. Come quando si tengono gli occhi chiusi, e si fa lo sforzo di descrivere ciò che si vede: l’invisibile, che però esiste, proprio come le storie che non smettono di dire cose, di farci fare viaggi meravigliosi, le storie capaci di finire con una virgola. Anzi,

Vedi, Teresa, io non mi fido dei punti cardinali. Sono troppo statici. Il mondo non ruoterebbe se fosse inchiodato solo a quattro punti fermi. Se le cose stessero davvero così non girerebbe mai. E invece gira eccome… E sai perché gira? Perché i punti fermi, spesso, sono un errore: secondo me ci sono storie che si meriterebbero il privilegio di finire con una virgola. E io l’ho messa, la nostra virgola, in mezzo al mondo. Io non voglio essere il punto di nessuna storia, nemmeno della nostra, io voglio essere una virgola, una parte, una voce, l’onda di una mareggiata.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!