È trascorso dicembre, dicembre 2020. Come è stato? La risposta è che ancora me lo chiedo, mentre l’annus horribilis alle spalle è simbolicamente archiviato dal cambio di calendario, di data, dal riprendere lento dell’allungarsi delle giornate dopo quel periodo di buio, concentrazione dentro di sé e calore domestico che, in altri tempi, avrei atteso e apprezzato. Invece dicembre 2020 arriva così, senza attese desiderate, senza annunci clamorosi. La città si veste a festa, ma non giro e non vedo se non poche decorazioni, eleganti tronchi altissimi di palme che ingentiliscono la notte e dovrebbero invitare a vivere le feste. No, non è ancora tempo.

Parte il calendario dell’Avvento che anche nel 2020, rocambolescamente, sono riuscita a mettere insieme per A contrainte, nei primi giorni del mese inizio con fermezza e dolcezza a tirare fuori decorazioni pianificando le attività scandite dal tempo classico familiare che però quest’anno classico non è più. È diverso e siamo diversi, fuori è diverso e in cerca dello spirito del Natale quest’anno flebile e silenzioso mi interrogo insieme a un’amica al bar ai primi del mese. Era un sacco di tempo che non andavo al bar, che non entravo sedendomi e stando tranquilla a un tavolino. Tranquilla, si fa per dire: mascherina, gel, e ansia da contenere. Il senso di irrealtà avvolge la scena mentre piove e la città alle 4 del pomeriggio è territorio esclusivo di gruppi di adolescenti. Il Natale che non si percepisce, che non percepisco ancora, forse, se non nel discreto brulicare di qualche negozio, nelle lucine intermittenti che stonano con i lavori in corso di cui la città è invasa.

A volte c’è il sole, in questa prima parte del mese, a volte sembra tutto regolare, leggero, una vera attesa, come indica l’Avvento, che quest’anno passa in sordina senza nemmeno un minuto a meditare su qualcosa. No, quest’anno c’è solo un grande senso di irrealtà, un desiderio di protezione in mezzo a un tempo in cui non si può programmare nulla, solo vivere il presente. E il presente porta novità, inattese, impreviste, e pure enormi. Vanno comprese, analizzate, accolte senza farsi ingannare dalle sirene ammalianti: vivere in difensiva, questo mi porto dietro dagli anni precedenti, così ancora, e sempre ingenua, sono in questo dicembre in cui indosso un vestito in mezzo a un diluvio trionfale per andare a prendere la novità bellissima che mi riguarda. E sono così viziata – o privilegiata – da trovare un autista personale da remunerare in biscotti mentre guadiamo l’Aurelia.

Arriva una stella di Natale in mezzo al sole che scalda le ultime foglie d’autunno: la stagione invernale sta per esplodere e per questo preparo e mi preparo. Ci si adegua: tisane calde, cappellini e sciarpe anche se lo spirito natalizio, quello, non è affatto impetuoso. Il 3 del mese scende la neve sulla terra brigasca e piano piano prende forma il Natale domestico tra albero, presepe, decori e un generale color rosso: ho letto che è apotropaico per il periodo, e direi che oltre al calore visivo ne abbiamo decisamente bisogno. Perché alle tre di pomeriggio del tre dicembre 2020 esco a ritirare la roba stesa e c’è un’ambulanza covid sotto casa. L’effetto che mi fanno gli operatori in tuta bianca, dei quali non vedo il volto, è uguale identico a quanto accadde in aprile. La stessa angoscia, uguale uguale. Non è finita proprio per niente.

L’olio nuovo che dopo la pioggia torrenziale scivola verde-oro sul pane rustico mi coccola e mi riporta a me stessa in mezzo al caos di eventi personali e globali: si apre l’orizzonte e il cielo di dicembre è più leggero e sopportabile, il ritmo della stagione qui la fa da padrone, come sempre regolatore, una carezza in mezzo al caso. Avevo in testa un progetto: non so come ma pezzetto dopo pezzetto riesco a portarlo avanti, nonostante la raucedine e un principio di afonia che spaventano tutti. Ingenui: è solo il primo terzo del mese, deve ancora succedere tutto. Però registro cose nel silenzio e nel freddo, sintomo forse di una incrinatura da curare. È difficile: quest’anno non ci sono scadenze, tutto scivola nell’indistinto calderone di attese che non dipendono da nessuno e insieme da tutti. Il futuro si prende così, come arriva, niente di pronosticabile, programmabile: qualche sorriso, speranza, ipotesi di stabilità di un qualche tipo ancora sconosciuto, ancora da scoprire, in mezzo a fastidi e punti interrogativi, per non farsi mancare niente nell’incertezza generale.

L’11 dicembre è una giornata decisiva, ma quando il giorno inizia non lo so ancora, e a dire il vero non lo saprò per qualche giorno. Così si lavora e si portano a termine progetti in costruzione, tra una video call, un viaggio con la musica nelle orecchie, il jazz di Bill Evans che coccola nel buio-cappellini-luci intermittenti e una fine pomeriggio di dicembre, vuoi mica vedere che sto trovando qui lo spirito natalizio, sotto forma di una malinconia tutta elegante, raffinata? Ci sono telefonate operative e appunti presi da un autobus, un altro autobus perso per un pelo sotto la pioggia, uno zaino pieno di libri, e messaggi, e incontri, mentre per la prima volta vedo le luci della città e il centro tutto nuovo. Sembrerebbe un inizio: c’è un sacco di dinamismo nonostante il buio cali prestissimo e il centro sia silenzioso.

Anche il giorno dopo è dinamico, pieno, assolato e scaldato da una colazione al bar come non ne facevo da tantissimo, con scambi di regali, pacchetti, giri senza senso in un supermercato popolato a cercare la farina per onorare santa Lucia e fare i dolcetti. Non so ancora nulla, e mentre va in onda la prima puntata di Ricomincio da Rai 3 e mi ri-innamoro del teatro, lievita un impasto profumato che diventerà tanti lussekatter. Altrimenti detti: Gatti di Santa Lucia, ricetta tipica della Svezia per celebrare la Santa che perse la vista, e che dunque è simbolo di luce nella stagione più buia. “Sti svidisi!”, mi pare di sentire Camilleri: perché a me gatti acciambellati non paiono proprio, casomai delle s di brioche che in questo anno pandemico sono finalmente uscite bene, lievitate a puntino e soffici. Le chiameremo quindi, queste briochine, S di Santa Lucia: serenità, sole, sorrisi, sicurezze, sbocchi, svolte, scemenze, sussurri, stravolgimenti, sogni…

Stampo foto di attimi sorridenti che sembrano epoche remote, ritaglio cartoni, preparo biglietti e la testa si svuota mentre le mani ritrovano antiche passioni per le quali, ormai da anni, non c’era la concessione di un pugno di minuti utili a far respirare la vita. Sono presa da troppi pensieri, a dicembre. Lo dico mentre ancora è l’11, non so niente e mi sforzo, al mattino presto, di finire L’appello di Alessandro D’Avenia, libro che ho iniziato più di un mese fa e che per ragioni forse dovute ai miei pensieri, piuttosto che alla storia toccante e profonda, non riesco a portare avanti. Ma l’11 lo finisco, e ci penserò dopo, alla simbologia di questa cosa, alla fine di una storia, di un tempo e di un ritmo, mentre inizia altro. Intanto però brindo a spritz da asporto e salatini su una panchina mentre fa un freddo assurdo e però sono molto contenta.

Faccio bene a esserlo, a registrare e organizzare e fare tutto quel che devo prima che il lunedì porti con sé la notizia che sconvolgerà il mio dicembre 2020. Sono entrata in contatto con un positivo. Io. A contatto, diretto seppure con tutte le riserve del caso. Con un positivo. È partito il tracciamento. Potenzialmente potrei avere il virus. Sarebbe logico, sarebbe normale, se fosse. Ma io ancora non lo so: ho solo un’ipotesi che si abbatte come una lastra di ghiaccio artico sulla metà del mese, e travolge me, i contatti ravvicinati degli ultimi giorni, la mia famiglia, il mio stomaco, che senza preavviso si contorce per una crisi di ansia come mai prima.

Trascorrono 24 ore di pura ansia, ansia e basta, che porta via il sorriso e il sonno sereni, i messaggi con gli amici – potrei averli contagiati, mi dico – e tiene a bada il batticuore per le persone di casa. Non so cosa fare, razionalizzo, spero: sto bene, non mi sento nulla. E se? Il dubbio non lascia spazio alla calma: vivo una giornata di ansia tonante e l’unico aiuto sembra fornito da un tampone rapido privato che casca nell’ultimo giorno dei miei 33 anni, una simbologia, anche qui, meravigliosa. Mi scavano nel naso e lacrimo in una mattina in cui ho lo stomaco ribaltato e una strana adrenalina che devo tenere a bada. Negativo. Penso di camminare a due metri dal suolo, compro una focaccia con l’angolo ed entro in chiesa dopo mesi. Ma, tuttavia, per i protocolli non esiste la certezza matematica perché sono passati troppi pochi giorni. Il medico mi dice di stare a casa.

Compio 34 anni e sto a casa, quindi, una quarantena che finirà, ancora una volta in grande spolvero di simbologie, il giorno di Natale. Come la prendo? Come viene: così, un po’ a caso, un po’ presa da tutta una serie di attività da finire e sistemare che per fortuna mi occupano il tempo e i pensieri mentre l’ansia, che pure si è ridimensionata, fa capolino e spera, spera, spera. Dicembre mi si è trasformato tra le mani e non vedrò negozi affollati di cui tutti si lamentano, amici con cui prendere caffè d’asporto, non farò scambi di regali, anche perché alcuni regali non potrò comprarli, tanto meno consegnarli. È sconvolgente e al tempo stesso è così normale da non turbarmi, almeno apparentemente, perché ho il dubbio che sotto sotto qualcosa covi: chissà quando e come darò un senso a questa evoluzione del mio dicembre 2020.

Il compleanno splende luminoso e caldissimo tra fiori color pesca, bracciali blu, sorprese sotto casa, una tempesta di messaggi che mi fanno stare bene e sorridere: come se non fosse successo niente. Ma io sono contenta, ed è tutto autentico, e posso sperare ancora un po’: una piccola favola di Natale, e non è una frase a caso ma il titolo del libro che mi sono autoregalata e che inizierò a leggere tra la Vigilia e Natale, cercando di prolungare quello stato di benessere, di non infliggermi troppe colpe per gli sbagli, di tenere le luci accese sul senso del Natale, del periodo, sulla mia crescita. Partono i bilanci nella mia testa, ma in fondo intorno è ancora caos e non è nemmeno la terza parte del mese, quella delle feste intense che parte col 20-21.

Il 18 dicembre Conte torna a parlare in tv: sono gli annunci ufficiali del DPCM delle feste, con nuovi colori, nuove giornate gialle, arancio, rosse, la certezza che, per chi potrà uscire al contrario mio, saranno giorni un pochino pasticciati e complicati, mentre la gente si accalca nei negozi e io mi domando quali negozi e quale shopping natalizio, visto che tutto il periodo buono allo scopo lo passerò in casa senza vedere niente. È uno spirito del Natale tutto nuovo e da costruire. Gli amici contribuiscono non poco: arrivano ceste di blu e argento piene di cose bellissime che mi fanno tornare un po’ di nostalgia per Torino, candele profumate, libri inattesi e arriva anche la variante inglese, sotto forma della mia amica in arrivo da Londra per le feste.

Mentre sono chiusa in casa lavoro e organizzo cose, tanto che lei finisce sul giornale e poi in quarantena: sistemata per le feste, appunto. È strano come tutto continui, anche con grande intensità, mentre non posso uscire e inizia a mancarmi il non poter camminare. Arrivano persone sotto casa, produco, penso scrivo, e mi prendo bonariamente in giro con un mio vecchio racconto. Vecchio, poi… Era solo questa estate, e sembra una vita fa. Il peso della fine dell’anno inizia a gravare nella testa, carica di interrogativi, voglia di fare bilanci che tuttavia restano opachi, necessità di trovare un senso, bisogno di spiegarsi un cambio di vita così grande, e i relativi disagi e ripensamenti e modalità vecchie e nuove ritrovate. È cambiato tutto, ma sono sempre ancora io, a lavorare davanti all’albero di Natale acceso praticamente tutto il giorno perché mi conforta e mi rasserena, a cercare le sere coccolose sul divano con mia mamma, che magari la tv è accesa ma leggiamo.

Dicembre, carico come è stato, mi sembrava un mese dove non riuscire a leggere, e in effetti ho forse letto poco, quattro libri di cui oltre ai due già menzionati anche Thoreau sull’inverno e il suo fascino e le 28 domande sul futuro di Zeldin, che avevo iniziato nel dicembre 2018 e mai finito, e che invece ho ripreso – tu guarda – proprio l’11 dicembre e trascinato fino al 29. Ma dicevo: pochi libri forse, ma moltissimo spazio alla lettura in senso generale. L’attesa più grande del mese è stata per il reading-evento che ho messo su per un pelo prima della quarantena grazie ad amici straordinari: Se una notte d’inverno Italo Calvino. Straordinario successo, emozione e felicità di cosa bella e gratuita, fatta per puro piacere.

Ma ci sono state anche altre belle occasioni seguite da tante persone care approfittando della quarantena e dei suoi risvolti. Il 15 dicembre Torino di carta è arrivato alla Mondadori di Imperia in una bella intervista video con la libraia Nadia, che come sempre si è rivelata super organizzata e insieme alla mia mamma mi ha permesso di firmare alcuni libri da regalare anche se non potevo uscire di casa. C’è stato il video registrato per Q Code Magazine, e poi la diretta del 30 dicembre con La linea laterale e Radical Ging sui libri letti nel 2020, a cui ho dedicato anche un articolo qui sul blog.

“Ventature”, di questo ho sentito tanto la presenza mentre il Natale si avvicinava e mi sentivo bene. Poi è arrivata la terza decade del mese, l’inverno, il chiasso delle feste e un inciampo che ha rischiato di spegnere la luce. È stato faticoso tenerla accesa, ci sono riusciti i pensierini deliziosi di tutti che ho spacchettato sotto l’albero tornando bambina, senza quasi accorgermi che il giorno dopo, l’assolato e deserto Natale 2020, sarei stata libera di uscire in mezzo al vento e sole che non vedevo da tanto.

La città deserta ha fatto impressione, e così è stato strano il pranzo da asporto, la passeggiata per digerire fatta fino in cima al molo per riappropriarmi del profumo di mare e arieggiare i pensieri. Credo di aver visto tre persone in tutto. Ho iniziato un libro, scattato foto, inviato messaggi e tutto sommato, in questa stranezza, ho cercato di stare bene fino a sera, guardando film romantici di cui mi lamentavo continuando a guardarli e leggendo.

I giorni dopo Natale hanno profumato di cardamomo e tanta energia, di passeggiate al sole nel deserto, di mare orlato dalla prima neve delle Alpi Liguri, uno scenario che spalanca il cuore. Il 27 dicembre dovevo ritirare il mio ambito panettone al pistacchio in pasticceria, ero senza auto, camminare non è un problema e dunque mi sono fatta due chilometri ad andare e due a tornare in mezzo alla città deserta di una domenica 27 dicembre zona rossa. Avrò incontrato una dozzina di persone, alcuni runner, parecchi padroni di cani, qualcuno col giornale. C’era un silenzio irreale, lo ricordo con stupore e un senso misto tra irrealtà e realismo fin troppo crudo, dietro la mascherina e col sole negli occhi, per la me del futuro che leggerà.

Ma quelli in chiusura di anno sono stati in fondo giorni belli: giorni di regali inaspettati profumati di amicizia e luminosi, di custodie per boe, libri prestati, persone sotto casa. E poi di incontri realizzati ad hoc con thermos, distanziamento e mascherine, e con gli amici, che erano l’ingrediente principale di un paio di scorribande di piazza improvvisate dove abbiamo dato il meglio di noi in quanto a organizzazione logistica, cibo, cioccolata calda, biscotti, regali, punch al mandarino e tazze rigorosamente portate da casa, nonché bicchieri di mais che si sciolgono e pinza per non toccare il cibo con le mani. Sembravamo gli alpini in piazza la notte di Natale, o forse no, sembravamo solo delle persone che si divertono e stanno con piacere insieme: credo si veda dalle mie facce sorridenti nei selfie a distanza costruiti con prospettive da architetti.

Il 30 dicembre sono andata sul molo a vedere il tramonto: ricordavo quello spettacolare di fine 2019 e volevo vedere se 365 giorni dopo avrei avuto una visione illuminante. Era velato: neve che altrove ha coperto queste giornate e qui no, qui abbiamo il clima migliore d’Italia, e tramonti che anche se nuvolosi regalano colori e una calma sorprendenti. Il 31 dicembre c’era il sole, e un vento fortissimo che scuoteva il pon pon del mio cappello di lana. Ho attraversato la Spianata deserta col giornale in mano, e ho pensato al concetto di sgombro, dopo un mese così pazzesco, affollato, denso di pensieri e persone, nonostante la casa, lo spavento, il cambio di passo, nonostante la paura che mi ha fatto percepire sulla pelle la gravità della situazione che ha connotato l’anno, qui e nel mondo. Ho pensato che per il 2021 avrei voluto il tempo sgombro: dai veleni, dai tormenti, dall’ansia. Un 2021 così: sgombro da tutto quello che intossica e immobilizza. Perché il mio 2020 è stato un grande movimento verso il nuovo, con tutte le difficoltà che questo comporta, con tanta energia però, con la speranza di brindare ancora insieme a chi mi sta vicino, di rivedere chi è lontano, di cogliere un luccichio negli occhi e riprendere a crederci. Il 31 dicembre l’abbiamo passato in famiglia, in pigiama, pizza, birra e Propaganda live, a mezzanotte ho stappato lo spumante e mi si è riversato sulla coperta tra la ridarella generale. È stato uno dei capodanni più sereni e rilassanti di sempre.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!