18.20, La cura di Battiato risuona in un tramonto rosa immobile tra i tetti e i rami. Sono sul portone di casa, sto scendendo giù nel mio studio e mi fermo sulla soglia perché a colpirmi è l’effetto cromatico del sole che va giù – notare, l’orario: è sempre più tardi e le giornate si allungano – e irradia una strana fluorescenza rosa tutt’intorno. Se fossi sul mare sarebbe un vero spettacolo, me lo immagino dall’angoletto dello scalo dei cantieri, a Oneglia, ma sono a casa, ho palazzi e alberi davanti e la bellezza la posso solo assaporare.

Va detto che però il sottofondo sonoro è degno del momento, e difatti sorrido da sola: la delicatezza, e insieme la forza delle parole di Battiato, aggiunte al fatto che sono appena uscita di casa (no, non è che esco, è che il mio studio è al piano terra e devo uscire dal portone: lo so, è un grande privilegio per me poter fare questo spostamento e cambio di ambienti, e ne sono molto felice infatti) profetizzando che in questa città non faremo mai niente. Alle 18.00, infatti, ci sarebbe dovuto essere il secondo flash mob dai balconi, cosa che in effetti in tutte le città circa è avvenuta.

Ma in questa landa di liguria di Ponente non siamo estroversi, tutt’altro: gente rivoltata nel proprio ego, gente avvolta da scorze dure come gli scogli che si conficcano a mare. A noi vedere una coppia che balla su Il mondo di Jimmy Fontana sfruttando lo spazio del balcone suscita quasi disprezzo. A noi: a certi. A me infatti, che pure sono ligure e mi porto la mia dose di scorza addosso, fa solo commuovere e pensare, à la Severgnini, italians! con un sorriso complice.

Ma oggi, via le polemiche, oggi è il 14 del mese, è il giorno per riflettere sulla parola nascita. Oggi un bimbo è nato da un mese, e quello che penso è che è già passato un mese da quella notte che, distrutta e assonnata, leggevo il “si sono rotte le acque” sul cellulare, ma non reggevo al sonno e dunque mi svegliavo a san Valentino scoprendo che Matteo c’era.

Cosa potrà mai voler dire compiere il primo mese di vita mentre l’Italia è nell’occhio del ciclone per un’emergenza sanitaria gravissima? Per il bimbo, molto poco: a giudicare dalle notizie che mi arrivano via messaggio lui mangia e dorme, come è naturale che sia. Ma c’è una mamma in casa, che non si muove, ci sono mamme che saranno, delle quali provo a immaginare l’ansia. Chernobyl: è lì che va a parare la mia, di mamma. La centrale esplose che lei era incinta da pochissimo. Eppure, nonostante ansie, dubbi, paure, probabilmente pensieri bui, difficoltà, e un oceano di interrogativi, eccomi qui, a vivere l’epoca del Coronavirus con tutti: neonati, ragazzini per i quali hanno studiato spot in tv (funzioneranno?), coetanei, genitori e nonni.

Ci siamo tutti, e questa cosa – questo momento – finirà in un libro di storia che qualcuno un giorno studierà, cercando forse di immaginare com’era allora, come si viveva all’epoca del Coronavirus, in quel mese, circa, in cui gli italiani furono costretti a casa. Niente bisbocce con gli amici, niente scuola, niente ci prendiamo un caffè, niente abbracci e contatti, i negozi ciusi e le strade abbandonate dove la natura si infila suggerendo la primavera alle porte. Una primavera che è difficile vivere dentro le mura di casa, le dita sulle tastiere perché ormai è così, ne siamo un po’ schiavi, e al contempo ci nutriamo del rimpasto costante di vignette, scemenze e meme che ci fanno ridere e sentire tutti sulla stessa barca. Come le caffettiere la mattina sul fuoco, come la pizza del sabato sera che bene o male tutti recuperiamo anche se non possiamo trovarci al tavolo di una pizzeria a raccontarci la settimana. Una settimana di angosce, mascherine, bollettini al tg che nemmeno voglio più ascoltare, mani lavate a ogni movimento sospetto, amici lontani che sembra di stare in erasmus dall’altra parte del mondo e cercare come una medicina la chat, l’interazione, il messaggio. Cercare le voci, almeno le voci.

Nascerà davvero qualcosa di nuovo dopo questa eperienza epocale? Sono tanti a domandarselo, me compresa. Oggi ho dedicato tre ore alla lettura di giornali che avevo accumulato, e tra quelli recentissimi, di ieri e di oggi, ho trovato molte firme impegnate a riflettere proprio su questo tema: servirà a cambiarci? Servirà a far nascere qualcosa di nuovo?

Concita De Gregorio, col suo stile parlante, raccontava storie di persone che si riscoprono nei legami familiari e di reciproco soccorso, città vuote dal traffico imperante che finalmente si rivedono sotto una luce nuova, dimenticata. E se forse imparassimo che ci piace di più così? Impariamo a cambiare vita, ci invita Michele Serra dalle colonne di Repubblica: una riflessione forzata su questa gigantesca pausa che come le medaglie ha due facce, quella della crisi nera, quella delle possibilità inedite. Idee, dice Serra: pensarci come parte dell’ingranaggio della natura, una condizione che adesso è evidentissima, e che ci eravamo dimenticati. Forse, le priorità dovrebbero essere altre. E se un neonato non ha che da dormire e mangiare, per noi dovrebbe poter bastare quel poco di enorme che abbiamo – se non altro, la grande maggioranza di noi – a partire dalla casa, gli affetti, cibo per corpo e mente a sazietà, quasi da non poterne più nell’impazzare di download, cose da leggere, libri e streaming.

Se nascita deve essere, che sia allora il tempo per questa seconda faccia, quella della pausa necessaria a guardarsi dall’alto e capire lo straordinario strappo generato, il pericolo della distanza, cogliere le grida che hanno coperto i cinguettii e ammettere che forse era anche il momento di smetterla. Ora basta. Perché sì, c’è pieno di cinguettii a sera, li ascolto dalla porta socchiusa dello studio e il pavimento davanti si fa color rame per i raggi che giocano con il rosa e lo spalmano ovunque a sancire un altro giorno che trascorre mentre imperversa il Coronavirus in Italia. Un giorno di inferno per quanti, lontani da qui, lottano con la paura che cavalca, con la morte. Un giorno prezioso per noi che ne siamo fuori: il mondo ci sta facendo vedere come potrebbe essere se.

Se non affogassimo le nostre ansie nel consumismo, se non intasassimo le nostre geografie dello smog che poi respiriamo, se avessimo tempo da spendere fuori dalle meccaniche miopi del lavoro. Se tutto questo accadesse, nel nuovo giorno che nascerebbe ci saremmo forse noi tutti in pigiama affacciati al balcone a sentire suonare una canzone che ci ricorda di un sorriso, un’estate, una carezza, un istante che ha già in sè tutta l’incantata meraviglia di quel disco solare che si tuffa tra i tetti. Ci basterebbe così. Saremmo nuovi e sempre uguali a noi stessi, solo più sereni, forse più salvi.

C’è gente che ci sta salvando: la cura è tutto, ricordiamolo in questo orizzonte allargato dell’attenzione e della riflessione. La cura di chi ci assiste, ci risponde, domanda e pazienta, di chi ascolta un anziano ripetere cose già ascoltate che incalzano nella memoria, di chi culla un neonato nel primo mese di vita in questo strano mondo che forse, una volta finita la quarantena, potremo scegliere di guardare con rinnovati sorrisi. Una nuova nascita. Un nuovo tempo. Nuove regole. Un nuovo modo di vivere, come ho letto nei pensieri di Simone Perotti in Rapdodia Mediterranea. Si può? Io ci sto pensando.

In sottofondo, a notte fonda, una canzone: Pure immagination, Jamie Cullum

Come with me
And you’ll be
In a world of pure imagination
Take a look and you’ll see
Into your imagination

Leggi tutte le giornate del mio diario di quarantena: 25 giorni a casa.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!