«Sembra Ferragosto». A dirlo sono io che esco dal portone, manca poco alle 4 della prima domenica di lockdown, lo chiamano così: Italia chiusa per Coronavirus, tutti a casa. È tardi, la parte bella della giornata se n’è un po’ andata ma, come accade ininterrottamente da una settimana, io non riesco ad avere tempo libero. Tutti a domandarsi come faremo, come impiegheremo il nostro tempo, calamità e terrore. Io, da buona partita Iva che domani festeggerà la prima settimana a paga dimezzata, lavoro quanto prima e, esattamente come prima, porto avanti la mia vita costellata di tutte quelle attività non pagate che succhiano via il mio tempo.

Oggi, per esempio, ho scritto una puntata radio e ne ho registrate due. Da casa, si intende, con buffe facce davanti al microfono e un gustoso riverbero dato dalla stanza – il salotto -, dai cani che abbaiavano fuori e dal bimbo del piano di sopra che ha deciso di mettersi a correre ininterrottamente avanti e indietro mentre registravo, facendo tremare i pavimenti. E poi video, e poi cose da fare al pc con i file. Insomma: lavori di ore, ore che – come è consuetudine nella mia vita, anche quando non c’era il coronavirus – mancavano.

No, il Coronavirus non sta affatto modificando lo stress che tutto questo mi genera. Quindi quando oggi sono uscita dal portone nella bolla calda di una domenica di sole, avevo addosso il formicolio nervoso del non essere riuscita a mettermi alle spalle gli impegni, il conteggio a spanne delle ore che mancavano a fine giornata in cui no, non ci sarebbe stato tutto quello che dovevo ancora fare.

Però c’era una cosa insolita, una cosa che mi ha fatto per un attimo rimuovere quel nervosismo latente. C’era il silenzio. Solido, diffuso, irreale. Sembrava Ferragosto, ma senza le cicale. Nessun rumore d’auto, nessun rumore di lavori in corso, nessuna voce. Solo cinguettii, e un sole che aveva cambiato colore e conteneva già qualche goccia d’oro. Un sole che prometteva l’estate, un pomeriggio che aveva tutta l’aria di un Ferragosto: l’Italia in vacanza.

Ah, già: no, è il Coronavirus. Piccola scossa tellurica di angoscia nello stomaco, la radio che annuncia i morti. È il settimo giorno, ed è domenica, biblicamente ma è così. Ne approfitto per spostarmi in campagna, quelle due ore tra verde e sole, per cambiare aria, perché oggi è bello e la testa rotola giù per la via, verso il mare, la passeggiata, la spiaggia. Se fosse Ferragosto sarebbe gremita, la fuggirei perché odio quel tipo di folla. Oggi vorrei esserci nel mezzo per attestare che non è così straziante la sensazione di vuoto e silenzio che riempie la solita via, la solita strada, il sole di marzo che ci attira verso il mare.

No, al mare non si può: per fortuna c’è la campagna, che oggi è un’esplosione di fiori di pesco, e pratoline, e margherite e gemme gonfie. Tutto regolare: la natura se ne frega del Coronavirus, e accade questa sorta di miracolo per cui, tra una coccola alla gatta che mi snobba e due raggi di sole filtrati tra i rami d’ulivo, tanto da far abbassare gli occhiali da sole, mi dimentico del mondo allucinante e distopico in cui sto vivendo. Sembra estate, tutto procede regolare: non penso all’isolamento, non penso al lavoro e a come ne troverò altri, non mi ricordo che stanno morendo persone e migliaia di medici non vedono nè il sole nè i fiori nè sanno della primavera. A loro non è concesso.

Quanta grazia, tutta regalata, in mezzo alle storture del mondo. Dovrei restare sul mio gradino di ardesia al sole, e sparire nei miei pensieri, cullata dalla nube di cinguettii che sento più forte oggi che mai. Sarà un caso? C’è un silenzio piattissimo, alcun rumore umano. Deve essere il traffico, quel rumore di fondo costante che fa sentire parte di una città, di un organismo umano. Invece ora è solo natura, sovrastante natura. Si sarà intuito: la parola del settimo giorno è proprio questa, natura. Anche il virus, in fondo, è un pezzettino di natura, anche se i fiori di pesco con i loro batuffoli bianchi, rosa tenui e fucsia se ne infischiano del virus, anche se la terra se ne frega degli ospedali, le api sui fiori se ne fregano delle mascherine. Natura e basta: nostra madre terra su cui danziamo incoscienti, ingenui, a volte stupidi.

Oggi abbiamo trapiantato un’agave. Me l’hanno regalata tre anni fa: una piantina con una radicetta piccola piccola. Proviamo a metterla in un vaso? Proviamo. Oggi è larga un metro, ha generato due piccole agavi figlie e ha spine che iniziano a incutere un certo rispetto: la natura non è solo fiori, ma spine e virus. Come previsto, tirata fuori dal vaso in cui è cresciuta negli ultimi due anni, ormai troppo piccolo, è un grumo di radici, in particolare ne emerge una spessissima, sembra un cordone ombelicale, è bianca e umida, si spezza, facendo il lavoro di trapianto, viene abbandonata per terra.

La vanga frantuma una zolla secca vicino a un ceppo d’ulivo spaccato come un libro, sale odore di terra, odore di realtà, odore di infanzia e cose che risuonano dentro remote, forse irrecuperabili. Sarà molto complicato, passata l’onda, riuscire a distillare da tutto questo vorticare di pensieri ciò che ci risuona nella testa come cinguettio remoto: un tempo nuovo, un cambio di prospettiva. Un cambio antropologico? C’è qualcosa di nuovo che tuttavia ha già attraversato questa terra, nel silenzio della domenica pomeriggio, giorno sette della quarantena da Coronavirus. Lo leggevo appena sveglia stamane in un post di Simone Perotti. Una frattura: qualcosa si è rotto, il ritmo si è inceppato, gli occhi, di qualcuno, si sono aperti, lo stanno facendo. E poi?

La natura chiama, stupisce, affranca. Nella natura dimentichi anche l’isolamento della quarantena perché non c’è tempo per pensare agli altri che non vedi, al lavoro che non hai: devi legare le viti, pulire i vasi, seminare i pomodori per l’estate. Arriverà l’estate? Come ci troverà? Un po’ mi fa paura il dopo: siamo dentro la tempesta e non oso pensare all’umiltà che servirà per rimettere piede fuori di casa e sorridersi guardandosi negli occhi, ricolmi di una fiucia che oggi va sgretolandosi.

L’albero di limoni è piegato dal peso: super produzione quest’anno. «Abbiamo qualcuno a cui regalarli?». Una domanda retorica – abbiamo sempre fatto le borse per gli amici – che oggi ci lascia impietriti: «lo avremmo anche, solo che… ». Il Coronavirus è silenzio. Un silenzio che sembra Ferragosto, ma senza le cicale.

Stamane ho visto un video di Fabrizio Bosso alla finestra che suonava l’inno di Mameli, e quella voce mi è vorticata in testa tutto il giorno fino a farmi riafforare il suo grido forte di Libero nell’aria, Sergio Cammariere:

Così la gente del paese
dice che è normale
che non restava neanche
molto tempo tempo per pensare
qualcuno disse è falso
qualcuno disse è vero
e il caso restò avvolto
dal mistero.
Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!