Adesso mi sveglio e scopro che è finito tutto. Adesso apro gli occhi e basta, dai, un gioco è bello se dura poco: non è vero niente, non c’è un mondo pazzo fuori, non siamo confinati in casa e non sta morendo gente come mosche per un maledetto virus sconosciuto che non ha vaccino né cure. Eh? Dai, in fondo è Pasqua, oggi può finire tutto: usciamo fuori, a questo tiepido sole, facciamo che le strade si ripopolano, la vita riprende, si può camminare, si può stare insieme.

Domenica. È Pasqua. Mi prende l’angoscia. Sottile, strisciante, invadente. Oggi è angoscia. A dire il vero questa mattina ancora non sapevo, sembrava tutto normale, in questo surrogato di normalità che mi ostino a chiamare tale illudendomi sia davvero così. Ho cucinato, ho guardato la messa di Pasqua in tv da una San Pietro vuota, con il vangelo in greco che mi ha commossa. E poi?

Poi deve essersi stracciato qualcosa. L’incrinatura che si fa più evidente, la mancanza che pulsa, la malinconia che si infila nella prima stradina buona del mio io. E crolla tutto. Non sto male nel senso proprio dello stare male, ma sto male uguale, sto in angoscia. Mi preme questa cosa sullo stomaco che non mi fa rilassare, non mi fa accontentare della giornata tranquilla che sto vivacchiando, qui col solito libro che ha smesso di piacermi, ma meno male che c’è e si porta via qualche oretta. La Pasqua, il pranzo, l’uovo Kinder, i selfie, i fiori e tutto quanto. Ma non basta.

Sconforto cosmico, lo chiamo così. Mando sbandieramenti di aiuto al mio migliore amico che sa, è abituato a incassare i colpi della mia malinconia immensa, a cercare di arginarla, e toccare il punto esatto dove il male è così acuto e che mi metto a piangere, e sfogo, e passa un po’. Ci penso la notte, nel letto: non riesco a dormire forse per il caffè, forse perché la giornata di Pasqua si chiude con la notizia sconvolgente letta su Facebook: è mancato Massimo De Nardo. Massimo era un editore, un contatto digitale mai conosciuto di persona. Ci eravamo letti, ci eravamo sentiti al telefono perché mi aveva proposto di essere l’ufficio stampa della sua casa editrice marchigiana. Giuro: è successo davvero, qualche anno fa. Ma la mia vita aveva preso una piega diversa e quel treno lì è andato. Poi Massimo non l’ho più sentito, mi ha mandato, una domenica di ottobre di qualche anno fa, un pdf con un numero perso de La Lettura, dovevo intervistare Ian McEwan a Torino ed era uscito un brano sul giornale, lo avevo perso, lui fu così gentile da inviarmelo. Una persona onesta, pulita. Una persona che ora non c’è più, e io nemmeno la conoscevo, solo una voce al telefono, solo una possibilità sfiorata.

La malinconia ho iniziato a masticarla da piccola: piangevo – ci penso in questa notte tra Pasqua e Pasquetta che non riesco a dormire e ho letto qualche capitolo di un romanzo banale per distrarmi ma non ha funzionato, pensieri belli e desideri non riesco a farne arrivare – piangevo perché mi mancavano le cose, le abitudini, le persone e i colori, le atmosfere, la compagnia. Ero piccola eh, avrò fatto le elementari: tornavamo dalle vacanze e mi prendeva una fitta allo stomaco stravolgente, mi veniva da piangere. Era la malinconia, l’ho imparato dalle chiacchiere tra mamma e nonna, che mi vedevano, cercavano di consolarmi invano. Ho imparato, a dire il vero. solo che si chiamava così, ma cosa fosse, la sua sostanza densa, l’ho praticata da lì in avanti, da quegli episodi a questa cappa pesante che mi cala addosso nella Pasqua 2020, 12 aprile, giorno 35 della pandemia globale.

Oggi mi manca tutto, tutto preme forte sulle spalle, mozza il fiato, sembra assurdo, non se ne vede la fine e mi mancano le forze, i segnali belli che ho intorno non sono sufficienti, c’è troppa ansia dentro. E c’è quella scintilla di nervosismo che rende tutto scomodo, che passa di corpo in corpo, tra le mura di casa. Abbiamo passato la Pasqua soli e lontani dalla nonna la quale, ancora, non va. Non sta bene, lamenta dolori e fastidi, è un muro di concentrazione acuta su di sé, sui propri malanni, sulla propria situazione. Immobile, nei suoi nobili 92 anni passati. Il che rende tutto scusabile, o forse no: rende tutto più angosciante. E se di angoscia è tinta la giornata, è altra angoscia che mi assale la sera, quando passiamo a trovarla nel crepuscolo della città vuota, i sigilli alla passeggiata sul mare, non un’anima, la stasi irreale e straziante della città sul mare a Pasqua.

La svogliatezza, è questo che mi colpisce di mia nonna che irrequieta e confusa ci accoglie. Mancanza, anche qui. Mancanza di un fine, di un obiettivo, di una serenità. Vorticano mostri e fantasmi, sussurrano di depressioni e problemi, stratificazioni geologiche di patologie non comprese, non curate, feroci ora, che l’età incalza e il tempo della pandemia non perdona niente e nessuno. Come fare: mi rimbomba in testa la domanda, non mi lascia scampo, martella, incessante. Penso a chi chiamare, a cosa chiedere. Ma tanto non vengono, ma tanto non si può: è una cortina di ostacoli là fuori. Almeno lasciatemi provare: cerchiamo, in qualche modo, di solleticare la voglia di una donna che si sta lasciando andare, e io lo vedo, lo capiamo tutti. La solitudine, l’età, la vista e l’udito che calano, gli acciacchi, la debolezza. E poi l’ipocondria galoppante e i bugiardini delle medicine imparati a memoria, la gastrite nervosa che se la mangia viva, la mancanza di cura per le cose piccole, il disordine mentale generato dal disordine del mondo.

Mi sento affogare nel mare dove affoga mia nonna, sento che non devo lasciarmi trascinare giù insieme a lei, devo essere il cane Terranova che soccorre, sta a galla, porta a riva al sicuro. Quante energie, energie mentali. Come i dissennatori di Harry Potter tutti i mostri della situazione accorrono  e ci provano a demolirmi, intaccano, feriscono, spaventano a morte, gelano. Ché è lo spavento la dimensione che non mi fa dormire, l’ansia costante del telefono che suona di notte – è un incubo, il telefono suona sempre di notte se succede qualcosa di brutto – l’ansia del virus che non lo vedi e lui ti ammazza, ti porta via la nonna, se non se la porta via prima la perdita del sorriso. Affogo, sento che affogo, nella strada vuota di traffico che potrei passeggiare camminando al centro della carreggiata in contromano: non passa nessuno, la sera di Pasqua è un guscio vuoto abbandonato.

Quando posteggiamo sotto casa è in corso quel processo sognante che chiamiamo imbrunire. Non so identificare un momento preciso: il sole è andato giù, il cielo oggi è ingombro di cirri – si chiamano così, l’ho letto sulla pagina del meteorologo locale di fiducia – e c’è un gioco di luci suggestivo che mescola l’oro degli ultimi raggi, già oltre l’orizzonte, al blu che incalza. Uno scherzo di prospettiva inquadra nel parabrezza il tetto di una casa poco più avanti, un profilo contro luce, già silhouette. Lì per lì mi sembra un segnavento: due gabbiani becco contro becco, il disegno stilizzato di un cuore. Chiudo la portiera, li guardo, si muovono e scompongono il disegno perfetto: sono gabbiani veri, di guardia sul tetto a intercettare i venti, nella sera di Pasqua 2020.

La sera concilia, o almeno ci prova per qualche minuti: in radio passano i Tears for fears, Sowing the seeds of love

One of these days they’re gonna call it the blues, yeah, yeah
Sowing the seeds of love, seeds of love
Anything is possible when you’re sowing the seeds of love
Sowing the seeds

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Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!