Giorno numero 43 della quarantena. Oggi è il 20 aprile, oggi sono esattamente due mesi da quando sono approdata a casa, e non mi sono più mossa. Due mesi interi. Credo di non aver mai passato un periodo così lungo ferma qui, salvo nell’anno di “pausa” da Torino. Sì, ho passato periodi a casa, questo è pur vero, ma intanto mi muovevo, mi spostavo, cambiavo aria. Invece questa volta da due mesi sono ferma qui, facevo spostamenti limitati i primi giorni, progressivamente non ho più fatto nemmeno quelli. La casa e io, la casa e i miei, la casa e i libri, la scrittura, lo studio.

Oggi piove, l’aria però è calda, profuma di linfa e di primavera che, speriamo, tornerà, così come la voglia di fare. Non è malinconia, oggi, è proprio incomprensibilità del tutto, senso di vuoto, a tratti angoscia. Le ore sono lentissime, il grigiore, la candela accesa che comprai quel 9 marzo, lunedì. Avrei mille cose da fare: ne concludo sempre poche, tanto c’è tempo, è il retropensiero, tanto boh, è quello che mi circonda. Invio un racconto, non ci penso più. Si spezzetta la mattinata, Faso a Radio2 Social Club canta canzoni al contrario, la regia le manda in senso corretto e fanno ridere, un attimo di follia.

Cosa faccio? Leggo, dai, leggo un po’. Isolatria, di Antonella Anedda. Le pagine di introduzione bellissime, dense di immagini poetiche – scoprirò più tardi che l’autrice è poetessa -, prendo appunti, segno frasi per il discorso sulle isole che mi accompagna da quando questa faccenda è iniziata, un monito, una previsione, ruota in testa, cresce. Trovo una foto di parecchi anni fa che non ricordavo di avere. Favignana, castello di santa Caterina, è il tramonto e io con giubotto e sciarpa mi stringo contro il vento e contro la macchina fotografica. Chissà cosa inquadro: sono seduta sul muretto, sul crinale, i colori sono bellissimi. Mancanza profonda.

L’ammaestramento del paesaggio di un’isola coincide con lo spezzarsi di ogni abitudine. L’orizzonte deve essere ogni volta ridefinito, ogni volta il corpo deve modularsi su uno spazio e un tempo senza certezze. Ogni volta siamo in balia di elementi diversi, di diverse condizioni. Alcune parole che a volte usiamo per la meteorologia possono applicarsi agli stati d’animo: calmo, agitato, sereno. È un ammaestramento di solitudine e, attraverso il vento, di modestia. Il vento ci dice che siamo instabili, che basta una raffica a scardinarci e non siamo al centro di nulla.

Citofona il postino, lo vediamo dalla finestra, il citofono non ha mai funzionato, nemmeno prima. Sono arrivate le mascherine della Regione, eccole nelle cassette delle lettere, le prendo dopo, mi dico, tanto siamo tre, le mascherine sono due. Vabbè ma che ne sanno loro, è già tanto così. Ma fa impressione uguale, in questa bolla collosa di irrealtà, tutto rallentato, anche il dopo pranzo, un caffè che dura un’ora mentre perdo tempo tra idee, progetti, bandi. Penso, cerco di costruire, provo ad allestire: butto giù tutto. Ma no, dai, provaci, almeno ti rimetti in gioco. Anche se ci investi tempo che non tornerà, fatiche che non saranno valorizzate da nessuno. La storia di una vita. Sarà mica per questo, che siamo – che sono – arrivati qui?

Progetti ne ho persino troppi: oggi è tutto spezzettato. Le mani qui, poi un po’ qui, apri un file, aprine un altro, apri un libro, un quaderno, cerca di fare ordine, dare priorità, schematizzare, processare. No, non si può: nessun progetto prende il sopravvento abbracciando il mio tempo intero. Ci sono troppe cose che vorrei sapere, competenze che mancano – è una vita che studio e ancora mancano, che iella. Guardo un corso online, prendo appunti, provo a lanciarmi nelle stories di Instagram. Sono sincera: non ne capisco il senso. Mi sento un dinosauro, mi sembra tutto scemo. Inauguro un mini percorso sulle Lezioni Primo Levi, una al giorno, da qui a fine mese, così intanto prendo dimestichezza con le stories. Boh. Intanto faccio partire le prime tre, tempo dieci minuti e la gente le guarda, gente con cui non ho rapporti, gente a cui frega niente di Primo Levi, frega solo di spiarmi, di vedere se ci metto la faccia. Povero mondo, povero triste mondo.

Intanto esce fuori una camicetta con le spalline imbottite e le maniche a palloncino anni ’80: il pensiero di sistemarla è remoto, come tutto del resto: le cose da scrivere, i progetti da proporre, le serate che si perdono, la pila infinita di libri da leggere. Progetti: la parola di oggi era proprio progetti. Una collezione su una mensola – collezione di sabbia, calvinianamente -, ci cade la polvere sopra, ogni tanto si toglie, i progetti brillano di nuovo, ognuno la sua ampolla di vetro, ognuno i suoi semi. Chissà chi diventerà grande, chi ce la farà, nel mare di confusione e vischioso nulla che c’è intorno, nell’ormai quotidiano remare contro il flusso di fake news e utenti incapaci contro cui io, da sola, niente posso. Chissà.

Ce lo ricorderemo, questo aprile, ce lo ricorderemo a lungo: I’ll remember April, qui nella versione di Chet Baker.

Leggi tutte le giornate del mio diario di quarantena: 25 giorni a casa.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!