Nonostante…

La gratuità, la fatica, la mancanza di una risposta certa

La storia

Gaia ha 28 anni, ha studiato filosofia e, quando già pensava di diventare insegnante, ha scoperto invece che poteva imparare a fare la giornalista. E così, mentre collabora con un giornale locale di Imperia, ha deciso di mescolare le sue passioni per fotografia e scrittura con la sua quotidianità, ovvero la gestione di un sito internet, e con i suoi studi in filosofia. Ecco perché dal 1 ottobre 2017 va in giro a domandare a una persona al giorno “Cosa ti manca per essere felice?” raccogliendo poi risposte e scatti sul sito di Progetto Aporia e sulla relativa pagina Facebook. Del suo progetto mi ha colpito la sistematicità, il fatto che fosse un po’ una sfida, e la carica esplosiva di una domanda così semplice da aprire interi universi. Ho deciso che dovevo approfondire, e così ho chiesto a Gaia di vederci per parlare di Progetto Aporia. Questa è la storia che ho raccolto, insieme ad alcune delle foto scattate da Gaia.

Aporia: alla ricerca della felicità

Incontro Gaia un sabato mattina di fine febbraio. Ha piovuto e l’asfalto del porto di Oneglia che percorro per arrivare al bar è lastricato di pozzanghere in cui si specchiano le nuvole buie e i colori pastello delle case. Nonostante la malinconia generale che questo paesaggio esprime, mi sento leggera: intervistare una collega è un po’ strano, ma mi dà la garanzia assoluta di un metalinguaggio condiviso e so che potrò essere rilassata e godermi la storia che Gaia ha da raccontarmi

«Ti avviso eh – mette le mani avanti sorridendo quando ci sediamo, i tavolini ancora deserti perché è presto – io faccio colazione!». Non c’è problema: anche io ho bisogno di accendere la mattinata, e un cappuccino con brioche è la scelta che accontenta tutti e scioglie l’imbarazzo. La radio diffonde Torn di Natalie Imbruglia, i quotidiani di giornata sono ancora nuovi, piegati poco distante. Quando tiro fuori il registratore scappa da ridere a entrambe, ma dopo qualche chiacchiera di circostanza mi lancio nella domanda che darà il la alla mia intervista: “come ti è venuta l’idea di mettere su un progetto del genere?”.

«È un’idea che nasce un po’ per caso – mi racconta Gaia – ho sempre avuto in testa la voglia di fare qualcosa come creare un blog, ma non trovavo mai l’ispirazione giusta. Siccome non volevo buttare dentro cose a caso, ho aspettato». L’illuminazione è arrivata proprio grazie al lavoro per il giornale sul web, che le ha aperto il mondo di internet e delle piattaforme di blogging come WordPress. È stato così che ha iniziato a capire come funzionavano questi sistemi, i loro linguaggi, e piano piano l’idea di una sorta di blog è cresciuta, finché non si è materializzata nella sua forma migliore, come una statua liberata dagli eccessi di pietra che ne tenevano nascosta la silhouette definita.

«Sapevo di voler fare qualcosa che avrebbe collegato sia la scrittura sia la fotografia. Io non sono né fotografa né scrittrice, però sono entrambe attività che mi piacciono, e allora mi sono detta “perché no?” anche se non ho nessuna pretesa». Gaia mi rassicura e un po’ si giustifica, anche se io sorrido perché, bene o male, condivido le stesse passioni e so cosa significa coltivare un orticello seminato dei propri sogni e aspirazioni in mezzo a boschi rigogliosi di professionisti che si ammirano. C’è però da dire che Aporia è frutto di un lavoro di progettazione molto preciso e accurato che rivela, oltre alla passione, anche una visione di insieme attenta e un sentiero illuminato da percorrere. Non ci sarebbe bisogno di giustificazioni. È la stessa Gaia a confermarmelo, usando un verbo che la certifica come Autrice (con la a maiuscola) del suo progetto: «Volevo questa connessione tra scrittura e fotografia – mi ripete infatti, calcando sulla visione nitida – qualcosa che unisse le due passioni con un fine preciso».

Una persona al giorno, una foto al giorno. Ogni storia raccolta da Gaia è numerata al contrario, non cioè nell’ordine di successione 1,2,3 ecc, ma con un conto alla rovescia che separa i 365 giorni di un anno che si è data per portare a termine la sua ricerca da ciascun incontro. Si va quindi all’indietro: -365, -364… Nel momento in cui esce questo mio racconto, sabato 10 marzo 2018, siamo a -206. «Un’ispirazione grande è stata Humans of New York, è un format molto simile: parli con le persone, ascolti la loro storia e fai una foto. Ma non mi bastava, era troppo vago». Stiamo entrando nel vivo e mentre parla vedo gli occhi di Gaia brillare sempre di più. Crede un sacco in questo progetto, e poterne parlare con qualcuno le permette di spiegare tutto quello che ha accumulato dietro i suoi pensieri e il suo sito in queste più di cento storie raccolte. Siamo arrivati infatti al cuore della questione.

«Ho un cruccio nella vita, come un po’ tutti – mi spiega precisando che è così grande, questo cruccio, che gli ha dedicato anche la tesi di laurea triennale in filosofia a Genova, prima di spostarsi a Pisa per la specialistica e poi a Dublino, per la seconda tesi – si tratta della felicità». Un cruccio mica da riderci su, penso io, ma non glielo dico ancora, e la lascio proseguire: «è stato lì che si è accesa la lampadina, ho capito che potevo unire nello stesso progetto, ben preciso, felicità, fotografia e scrittura. Mi sono data il tempo, un anno. Una volta al giorno pubblico una foto di una persona con la risposta a una domanda uguale per tutti».

“Cosa ti manca per essere felice?”. Una domanda che è affascinante perché enorme, ma è anche semplicissima perché fatta di azioni quotidiane, spaventosa e dolce, piena di speranza, o di rimpianto, a seconda di come la si guardi. «Ma come funziona – intervengo io, curiosa – approcci degli sconosciuti per la strada e li fermi, così, su due piedi, con una domandona del genere?».

«Sì, anche se questa degli sconosciuti non è esattamente una regola ferrea, sta iniziando a solleticarmi l’idea di chiederlo alle persone che conosco – Gaia mi rivela questa cosa, e non so ancora che testerà la novità poco dopo, alla fine dell’intervista – Sono per strada e ogni tanto ho come l’impressione che mi chiamino». Per un attimo mi immedesimo e provo tutto l’imbarazzo del caso a immaginarmi armata di telefono per registrare e reflex: “Scusi, posso chiederle una cosa? Cosa le manca per essere felice?”. Mi sembra un’invasione di campo pazzesca nella sfera intima di uno sconosciuto con cui non condivido nulla, e mi vengono in mente le regole di prossemica di cui parlavamo all’università durante le prime lezioni di semiotica e filosofia della comunicazione.

Gaia conferma le mie preoccupazioni, anche se è subito pronta a smentirle per raccontarmi una versione diversa dei fatti: «le prime volte sono state pazzesche – ecco, infatti, mi dico, ci vuole fegato a fermare qualcuno e chiedere una cosa simile – le persone non vedevano l’ora di parlare con qualcuno!». Confesso di essere un po’ spiazzata: come è possibile? «Di solito sono persone sole – mi rassicura la mia interlocutrice – le vedo assorte nei loro pensieri, magari stanno guardando il mare e allora capisco che hanno qualcosa in testa, mi incuriosiscono. A quel punto mi avvicino e chiedo se posso disturbare. Lo vedi subito se sono propensi a parlare oppure no, succede molto di rado che non si aprano e ti assicuro che, oggi che ho superato i 100 incontri, sarà successo cinque volte. La maggior parte delle volte sono molto disponibili, e questa cosa mi ha stupita, soprattutto le prime volte».

Va infatti detto che, se ora Gaia con due rapide schermate di smartphone può mostrare una galleria di foto ben nutrita e un sito animato, quando il progetto è iniziato era tutto lanciato nel vuoto: niente storia alle spalle, ma la grande necessità di trovare qualcosa da raccontare giorno per giorno e di poter incontrare la fiducia di uno sconosciuto. Provo a immaginare le persone schive e chiuse di Imperia, rocciosi caratteri liguri che secondo lo stereotipo diffuso diffidano di chiunque. Li vedo fermarsi e ascoltare questa giovane aspirante giornalista che racconta il proprio progetto e poi, all’improvviso, pone una domanda che ha a che fare con la felicità.

«Restano tutti in silenzio, presi alla sprovvista – non può che confermarmi Gaia, che capisce il peso intimo della domanda “Cosa ti manca per essere felice?” – non è stata una scelta casuale e, anzi, è stato difficile trovare la domanda giusta. Chiedere cos’è per ciascuno la felicità sarebbe stato troppo astratto, e avrebbe portato a dire cose che magari la gente non pensa veramente. Ognuno ha la propria idea di felicità, ma nel concreto spesso non facciamo quel che diciamo: pensiamo una cosa e ne facciamo un’altra, per esempio pensiamo che la felicità sia essere senza pensieri, ma non siamo mai senza pensieri».

Sollecitate all’improvviso da una sconosciuta a riflettere su cosa manchi al raggiungimento della propria felicità, le persone invece si fermano un attimo. E ci pensano. È naturale a questo punto riflettere su quale sia il bisogno, l’urgenza o la mancanza che oscura la propria felicità: «a volte ti rendi conto che hai già quello di cui hai bisogno – mi fa notare Gaia – molte volte isoli delle cose e ti accorgi che ti mancano, sì, ma non sono così importanti e potresti essere felice lo stesso. Oppure, invece, mancano cose davvero importanti. Mi è capitato di parlare con ragazzine a cui manca un genitore per esempio. Le situazioni sono diverse: chi risponde che non manca niente, e chi invece ha una lista infinita».

Anche l’età degli intervistati gioca un ruolo nel tono della risposta. Gaia mi spiega di scegliere più o meno casualmente, cercando anzi di variare quanto più possibile perché se gli anziani hanno più vita alle spalle, i ragazzi sono ovviamente più sognatori, e dunque le risposte cambiano, e con loro la prospettiva. Ed è proprio sulla prospettiva che arriviamo a parlare di uno snodo molto delicato della storia, quello che ha a che fare con gli anziani: «ho notato che ce ne sono due tipi – mi racconta Gaia – molti rispondono che non gli manca niente, sono sereni e avendo vissuto tantissime cose non vedono l’ora di parlarne con qualcuno. Mi rendo conto che sono persone sole, potrebbero essere i miei nonni, ma se con loro a volte passo le ore, queste persone non hanno la stessa fortuna, ed è per quello che iniziano a raccontarti la propria vita, e quanto sono stati felici. La seconda categoria è quella dei rimpianti, degli “avrei voluto”, e in genere porta storie molto tristi».

“Devo impegnarmi perché non sia così, quando anziano sarò io”. Lo penso mentre ascolto queste parole, e provo tenerezza, la stessa che leggo nello sguardo di Gaia mentre rievoca le storie delicate e personali che i suoi intervistati le hanno consegnato. L’involucro di una felicità spezzata o svaporata è un carico fragile e impegnativo, per tante ragioni differenti: sfortuna, scelte sbagliate, malattie. Le visualizzo come una boule de neige che ciascun interlocutore tiene tra le mani per mostrarla a chi voglia affacciarsi a quel mondo, a quella fotografia che immortala i ricordi in un tempo fuori dalla storia. E sopra quei ricordi nevica, perché la neve è delicata e custodisce nel silenzio, attutisce il rumore che una felicità interrotta fa risuonare in gola. Serve tanta empatia per farsi custodi di questi oggetti, e capisco che Gaia ne ha.

«Se c’è qualcosa che accomuna tutti è il bisogno di avere qualcuno accanto – mi dice a un certo punto quando le chiedo se ha notato, con l’accumularsi delle storie, alcune ricorrenze, alcune linee generali – giovani, vecchi, mezza età… Hai bisogno di qualcuno a fianco, e quando manca, tutto il resto viene dopo. Anche se hai il lavoro e la salute. Chi mi dice che ha una compagna o un compagno e dei figli aggiunge anche che va bene così, ma se non hai qualcuno manca un pezzettino».

Mi sembra che Progetto Aporia abbia le carte in regola per rivelare uno studio psicologico, ma né io né Gaia siamo ferrate in materia, e lasciamo che i punti di sospensione e i chissà ci riportino alla realtà dei suoi incontri. «Le persone mi scrivono e mi ringraziano per le cose che pubblico, ma spesso non condividono perché forse si vergognano – mi racconta – Il punto è che escono fuori cose molto personali, e io resto senza parole: stanno parlando con me, una sconosciuta! Ascolto di storie finite, figli lontani o episodi che hanno causato dolore. Chiaro, poi faccio dell’editing, rielaboro e prendo solo il cuore della risposta alla domanda. Le persone infatti partono adagio e poi si lasciano andare tutto insieme, ed è a quel punto che ritaglio il pezzettino che poi scrivo». Alla storia si aggiunge sempre anche una citazione: una canzone, un libro che la ispira e in qualche modo si ricollega al tema. Un’altra piccola sfida che aggiunge personalità e interpretazioni alla scrittura e alla fotografia.

«È una specie di sfida con me stessa – ecco come mi giustifica il suo “nonostante” – vediamo se ce la faccio. E poi mi diverto a farlo, questo è il punto: è una prova. Ogni tanto è difficile, esco da lavoro e non ho in mano niente, allora parto e cerco qualcuno. Nessuno mi paga per fare tutto questo ed è bello impegnativo, ruba un sacco di tempo tra sistemare le foto, scrivere, impaginare. Ma non mi stanco: è una sfida! Ed è bello quando le persone ti scrivono che apprezzano, e che ti seguiranno, ti dà soddisfazione e voglia di continuare».

Se ho scelto questo progetto per la mia raccolta di “nonostante” non è solo perché rappresenta una sfida totalmente gratuita, e non è nemmeno perché dietro c’è della creatività costruttiva. Dipende tutto dal greco antico, in particolare dall’etimologia della parola problema. Pro-ballo, cioè gettare innanzi, e letteralmente, poi, ostacolo, situazione difficile da superare. Io ho scelto il nonostante contrapponendolo al problema: nonostante il problema agisco, in qualche modo svicolando l’impedimento. Gaia, invece, sul problema e sull’impedimento ha deciso di fermarsi a scrutare la situazione. Aporia deriva dal greco a-poros, assenza di passaggio, e significa l’impossibilità di dare risposte precise a un problema. Non so voi, ma io ho trovato questa scelta, che non è nient’affatto casuale, un colpo di genio.

«Scegliere un nome è stato difficilissimo – Gaia mi spiega i motivi per cui il suo progetto si chiama Aporia – ho iniziato il primo ottobre e tutto il mese di settembre mi è servito per deciderlo. Avevo una lista, volevo trovare qualcosa che mi rappresentasse senza però inserire il mio nome. Ho studiato filosofia e questo progetto è collegato anche ai miei studi: è una ricerca, una sorta di raccolta di opinioni e risposte diverse che non ha mai fine, non ci sarà mai una risposta giusta. Volevo una parola bella, e aporia è bellissima, suona bene». È vero: suona benissimo: oscura a chi non la conosce, rivelatrice limpida non appena se ne svela l’etimologia. Ha anche una nobilissima e antica origine, che ci riporta alla culla del nostro pensiero occidentale, nella Grecia in cui è nata la filosofia e dove forse già ci si domandava cosa fosse la felicità, e cosa mancasse per raggiungerla.

«Platone mi ha sempre affascinato – Gaia ancora una volta mi sorprende – è uno dei miei filosofi preferiti e ritorna in altri pensatori successivi, è un fondamento. I suoi Dialoghi aporetici mi hanno sempre colpita, mi piaceva il fatto che si arrivasse molto spesso a due soluzioni diverse e opposte, tutte e due razionalmente accettabili, e lì si finiva, erano entrambe giuste. Come le risposte che mi danno le persone: vanno tutte bene, non ce n’è una giusta e non c’è nemmeno la pretesa di arrivare  a qualcosa di giusto. È invece come sentirmi parte del mondo, mettere tutti sullo stesso piano. Molte volte passi in strada e ti senti completamente diverso dalle persone che hai vicino, mentre ognuno ha la sua storia, i suoi problemi. Quando parlo con una di queste persone per il progetto mi rendo conto che fino a cinque minuti prima era uno sconosciuto, un estraneo, mentre dopo che ci siamo parlati e ho ascoltato la sua storia è qualcuno. Mi rendo conto di quante cose ci sono da scoprire».

Imperia, la sua città, ma anche Diano Marina, Genova, Lisbona, dove è andata in vacanza: Gaia non ha un limite geografico per la sua ricerca, e non ne vuole porre uno linguistico a chi ne leggerà. Ecco perché ogni storia è in italiano e traduzione inglese: «le foto sono universali – mi fa ragionare – qualcuno potrebbe essere attirato, ma non capire quello che c’è scritto, che però è sempre collegato». Le foto, dimmi delle foto: le persone si fanno fare dei ritratti?, io, per esempio, timidamente non lo farei mai. Ma non sono l’unica, perché a quanto pare alla richiesta di Gaia anche altri si rifiutano di comparire, e preferiscono solleticare la creatività della fotografa che, con fantasia e cuore, coglie dettagli parlanti. «La gente ci sta, sai? È incredibile la magia di questa cosa, le prime volte ero esterrefatta». Confesso che, dopo questo incontro, inizio a esserlo anche io: sono stupita, incuriosita, felice per aver acchiappato questa storia che valeva la pena conoscere.

Proietto il tutto al 30 settembre 2018, quando Gaia posterà la foto del suo -0 e sancirà la fine di un viaggio mirabolante. Ci sarà un sacco di materiale, quel giorno: fotografie, storie, persone, citazioni. Cosa farai di tutto questo?, le chiedo. «Ho un sacco di sogni – come non credere all’autrice di Progetto Aporia? – mostre, pubblicazioni… Sto aspettando di vedere cosa succede, se qualcuno lo noterà. Adesso che sono parecchie, riguardo le foto indietro e mi ricordo, attraverso la gente che ho incontrato, di quel periodo preciso, di cosa stavo facendo e vivendo». Mi racconta poi che iniziare a lavorare al giornale le ha dato tanto slancio per tuffarsi in mezzo alla gente e domandare. È il cruccio dei timidi ma curiosi, lo conosco bene: un ostacolo che a suon di piccoli sforzi va superato. E sorrido, perché trovo in Gaia la sicurezza di chi si guarda indietro e capisce di aver fatto dei passi avanti, che è più o meno la mia stessa riflessione ogni volta che prendo in mano il mio tesserino da giornalista e ripenso alla mia prima conferenza stampa e al senso enorme di spaesamento che avevo dipinto in volto.

«Oggi va bene così, sono felice – siamo ai bilanci di fine intervista, intanto il bar si è riempito e le canzoni in radio sono offuscate da chiacchiericcio, risate e tintinnio di cucchiaini nelle tazze – ogni tanto mi chiedo cosa sto facendo, ma sono contenta rispetto a quando ho finito l’università, allora c’era il vuoto. Come il mio progetto, che è un work in progress e cresce con me, anche io sto cercando la mia strada. Si chiama Aporia perché è qualcosa che non avrà mai una soluzione definitiva: è un progetto che si costruisce, e non so dove porterà».

Postilla

Come forse qualcuno di voi lettori ha immaginato, alla fine di questa bellissima chiacchierata Gaia ha sfoderato una sorpresa per me, nominandomi tra i prossimi sconosciuti che avrebbe collezionato su Aporia. Sì, un po’ me lo aspettavo, ma non si è mai pronti a rispondere a una domanda così spiazzante: “Cosa ti manca per essere felice?”. Tra le arcate dei portici, vista gru, pozzanghere e barche, la mia risposta è stata questa qui, accompagnata da una foto che ha trovato la mia malinconia e l’ha fatta sua, e dalle parole di Calvino che hanno riequilibrato il tutto con un sorriso regalato al faro del porto.

Mi fa piacere, infine, ricordare che non è la prima volta che inciampo in un progetto simile. Nel 2015 ho avuto l’occasione di intervistare Davide Buscaglia, psicologo e fotografo ligure-torinese che all’epoca era impegnato in 365 strangers: una foto al giorno, uno sconosciuto fermato per strada, e una storia catturata in uno sguardo, ne raccontavo qui a pagina 110.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!