La scorsa settimana sono stata a un corso per l’acquisizione crediti formativi organizzato dall’Ordine dei Giornalisti del Piemonte. Il tema era il diritto d’autore, ci trovavamo a Torino, nelle eleganti sale del Circolo della Stampa, ed erano ospiti due relatori d’eccezione come Ernesto Ferrero, per anni direttore editoriale del Salone del libro e Mario Montalcini, l’uomo che la scorsa estate ha praticamente salvato il Salone ridandogli nuova vita. Ora vengo al dunque, ma non ho ancora finito con l’accumulo di dettagli che, vedrete, servono ad allestire l’insieme. Era il 21 aprile, in quei giorni si svolgeva a Milano Tempo di libri, la prima fiera dell’editoria dopo la grande scissione dei gruppi che ha fatto traballare il Salone torinese, da cui la crisi estiva, il salvataggio ecc. Insomma: arrivavano i primi dati di affluenza all’evento milanese, ed erano – pare – scarsi e contro le rosee previsioni della prima ora. È lì che è scattato, serpeggiante, l’orgoglioso patriottismo torinese: siamo fieri di promuovere questo incontro a Torino nei giorni in cui a Milano… Siamo orgogliosi di avere con noi Ernesto Ferrero, siamo altrettanto frizzanti ed elettrizzati nel pensare che tra meno di un mese a Lingotto taglierà il nastro la 30esima edizione (30 anni!) di un evento targato Torino e frutto dell’industrioso lavoro editoriale e manageriale delle maestranze torinesi.

Che, se vogliamo, ci sta. Ci sta perché un po’ è vero, perché frequento il Salone da una decina di anni e sì, è un grande evento, raccoglie persone da tutta Italia e mette a disposizione dei protagonisti del mondo editoriale un campo di gioco accogliente e mai banale. Ci sta perché Torino respira letteratura a ogni angolo, è la città di Einaudi, di Pavese, Vittorini, Calvino, Levi, Natalia Ginzburg e tanti, tantissimi altri nomi che vanno a comporre la costellazione della grande letteratura novecentesca. È la città delle case editrici, dei giornali (sì, è vero, anche Milano lo è, ma a Torino questa presenza è rafforzata da un atteggiamento culturale e intellettuale meno smaccatamente imprenditoriale). È la prima capitale d’Italia, ed è bellissimo, quando si passeggia tra i bei palazzi e le eleganti vie del centro, immaginare tutti gli autori, i pensatori e gli artisti che nel corso degli anni hanno percorso quelle stesse strade e le hanno raccontate. Sì, lo so, anche le mie parole sono frutto di un orgogliosa tifoseria torinese la cui unica ragion d’essere è data dal fatto personalissimo che amo Torino. Infatti ora tornerò sui miei passi riprendendo il tema di questo post.

Torino Vs Milano, una sfida più che sentita, un affronto da parte dei milanesi a cui la vecchia città sabauda ha saputo reagire con un signor colpo di coda – sogghignando e, diciamocelo, guardando di sottecchi e con studiata altezzosità i cugini lombardi – un rovescio di quelli studiati che – voila! – casca in piedi e fa pure l’inchino. Sto parlando del programma del 30esimo Salone de libro, che è stato presentato qualche giorno fa (ho assistito alla conferenza, ve ne parlo qui) e che, con la cura, attenzione e passione infuse dal nuovo direttore, Nicola Lagioia, sembra preannunciarsi un bell’evento, ricchissimo di nomi e incontri, ma anche – cosa non da poco – un evento della città, immerso in una Torino che non sarà solo Lingotto ma quartieri, simboli, luoghi di cultura. Questo, io credo, farà la forza del Salone, marchio torinese che dalla sua ha 30 anni di esperienza e un parterre di follower (tanto per stare in tema social) radicati sia da parte del mondo editoriale e culturale, che lo crea e, dall’altro lato, lo attende e lo vive, sia da parte del pubblico, affezionato a un appuntamento dove trova sempre stimoli e cose belle.

Fermi tutti. Hai detto pubblico? Aspetta, aspetta. Perché c’è qualcosa che non torna. Vi ho parlato di ben due fiere dell’editoria, aspetto che farebbe pensare si stia parlando di un  florido mondo, dove i soggetti coinvolti osano anche sfidarsi e fare una specie di guerra (dei poveri). Vi ho parlato di cifre, di programmi, di aspettative. Ma tutti questi dati, a chi importano? Su quale sfera vanno seriamente a influire? Perché ecco, c’è un dettaglio che, tra un colpo e l’altro di ping pong tra Milano e Torino, è rimasto un po’ ombreggiato, eppure è la base di tutto, la lancetta spostando la quale le magnifiche sorti e progressive del palazzo dell’editoria potrebbero (e forse lo stanno già facendo) crollare. Sto parlando dei lettori, della base di pubblico che, stando alle “statistiche” che così tanto fanno inorgoglire Torino Vs Milano, frequenta le fiere dell’editoria, di chi non solo acquista ma legge i libri, e di conseguenza ha una vita culturale: va al cinema, a teatro, si informa sui giornali e via dicendo. La coincidenza simpatica è che proprio mentre ero al corso dell’Ordine dei Giornalisti a cogliere il serpeggiante orgoglio torinese, Ansa pubblicava questi dati, presentati proprio a Tempo di libri: 4 milioni di lettori in meno, con il 57% degli italiani che non ha mai letto un libro nel 2016.

Allora, mi domando, di fronte all’ecatombe di cui sopra, è proprio necessario giocare a chi è il più forte tra Torino e Milano? Lo dico da fan torinese, lo avete colto tra le righe e nemmeno troppo. Lo dico senza nemmeno essere stata alla fiera milanese, sulla quale infatti non mi esprimo. Lo dico anche dopo aver letto il divertente ma amaro pezzo di Francesco Piccolo su La Lettura del 23 aprile “Io, maratoneta dei festival a parlare di poeti e di ginnaste”. Perché il mio enorme dubbio e interrogativo, dopo aver preso in considerazione 1) la sfida Milano/Torino 2) l’effettiva ricchezza del programma torinese (come immagino sia stato anche Milano), cosa che mi incuriosisce e non mi fa vedere l’ora sia il 18 maggio 3) i dati sulla lettura in Italia 4) alcune considerazioni di amici non lettori forti come me (su cui tornerò dopo), è questo: a chi interessa, oggi, il mondo dei libri? Chi segue con passione e ha un reale sguardo cosciente su eventi grandi e importanti per il mondo editoriale come le fiere di Milano e Torino?

Il dubbio si è insidiato nella mia mente dopo due affermazioni di amiche, una lettrice e una non troppo. La prima: “uh, figuriamoci se vado al Salone, è una cosa che detesto: devi pagare per entrare e comprare libri”. La seconda, di pochi giorni fa, uscita da una persona che frequenta Torino: “ah, ma quindi quest’anno il Salone lo fanno?”. Pa-ta-trac! Nella mia testa  c’è stato come uno squarcio, una tela strappata dove al bel disegno di Gipi per il Salone, che mi emoziona con il suo bel messaggio di scavalcamento delle soglie e dei muri grazie ai libri, si è sostituita una brulicante folla di persone che, non certo per colpa loro, vivono al di fuori dell’universo editoriale delle fiere e dei libri, che non colgono il valore culturale di questi eventi, che non ne seguono con ansia le sorti né si preoccupano di un settore in crisi nera. E preso atto del fatto che io, come tanti altri, lettori forti e impiegati del mondo editoriale, ho una visione specifica degli eventi, della filiera editoriale e del mondo dei libri, che rappresenta IL mondo, una delle cose di primaria importanza, sia concreta (il lavoro) sia valoriale (la convinzione forte e radicata che sì, i libri cambieranno il mondo), ho capito che il problema, quello serio, quello dove andrebbero messe le mani, è quello dello scollamento tra questo mio mondo e quello altrui, delle persone che ne vivono al di fuori.

Che senso ha dunque, all’improvviso, preso atto dell’esistenza di queste persone, che sono la maggioranza, infuocare lo scontro Milano-Torino? Che senso ha, preso atto che la fascia dei lettori è ristretta e in caduta libera? Che senso ha se quando si parla di libri ed editoria non si riesce a penetrare nel mare magnum del pubblico indifferenziato (e con questo termine intendo il pubblico di persone che, al contrario mio e degli addetti ai lavori, vivono al di fuori della filiera editoriale, non ne conoscono gli equilibri e le vicende)? Che senso ha se “le cose dell’editoria” interessano solo a una fascia ristretta e selezionata di tenaci lettori e di gente del settore? Quest’atmosfera soffocante e angosciante, questo distacco della piccola sfera privilegiata che legge e vive di editoria dal mondo pulsante per il quale, invece, l’editoria è solo uno dei tantissimi aspetti del reale, è il nocciolo dell’articolo di Piccolo di cui vi dicevo prima, che ironizza sulle rivalità tra festival, non solo Milano e Torino, e che riconosce il fatto che, anno dopo anno e gira che gira, a questi eventi partecipa sempre e solo lo stesso circolo vizioso di persone, che ormai si conoscono, radicano abitudini, subiscono – e non possono farne a meno, visti i tempi e la loro rincorsa spasmodica – le pressioni di incontri/presentazioni/reading/eventi spesso improvvisati, spesso condotti e ideati in modalità multitasking, dove si è improvvisamente esperti, tuttologi, tappabuchi o chissà.

“Però poi, alla fine, queste idee vengono sviluppate e discusse sempre da noi, dalla compagnia di giro, ci trovi a tutti i festival, a quello della filosofia, delle scienze, perfino del diritto. […] Ci conosciamo da anni, ci diamo appuntamento ai festival, litighiamo e ci amiamo, diventiamo amici, confessiamo i nostri problemi e qualche volta li risolviamo all’interno di un festival (più spesso no). Se non siamo presenti, gli altri ci mandano messaggi nostalgici e foto di quanto stanno bene anche senza di noi. E noi rispondiamo che abbiamo preferito andare a un altro festival quest’anno. […] Di solito, da molti anni, in ogni intervento ci piace dire che la letteratura è morta, il romanzo è morto, i giornali non li compra più nessuno e i festival stanno per sparire perché nessuno vuole più finanziarli. Se non lo diciamo noi, lo dicono altri come noi. Quindi abbiamo questa sensazione dell’Apocalisse che ci spinge ad andare a più festival possibili e a presentare più libri possibili, prima che finisca tutto”.

Una risposta e una soluzione a questo enorme problema, al momento mi manca. Pensarci mi angoscia e mi fa sentire inerme. Però una cosa mi sento di farla, ed è quella di rivolgermi ai miei simili, quelli che leggono e vanno alle fiere dell’editoria, e consigliare di meditare sul tema del Salone di quest’anno: “oltre il confine”. Ecco, dunque, prendiamo quel libro rosso disegnato da Gipi e saliamoci su per vedere meglio cosa ci circonda, cosa c’è oltre il confine delle fiere che ci piacciono tanto, delle librerie che frequentiamo, dei giornali e delle pagine di narrativa e saggistica che leggiamo. Solo preso atto di quel mondo, forse, riusciremo a inventarci una soluzione per cancellare il confine segnato e aprire il mondo dell’editoria anche a quei milioni di italiani che non leggono nemmeno un libro all’anno.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!