Ho un grande compito con questo post-recensione: devo raccontarvi La settima funzione del linguaggio, il romanzone di Laurent Binet edito da La Nave di Teseo, e riuscire a metterne in luce la genialità, la fittissima rete di rimandi intertestuali che ha generato in me lettrice e filo-semiotica un piacere immenso, e perché no, già che ci siamo spiegarvi anche il motivo del titolo, che non è affatto casuale e che ha un ruolo centrale nella trama del romanzo stesso.

Da dove partiamo? Direi dall’escamotage narrativo che ha utilizzato l’autore, cioè dalla realtà, dalla morte di Roland Barthes, il celebre semiologo e critico che, nel 1980, investito da un furgoncino a Parigi, muore (per i fanatici, ne parla anche Calvino, che all’epoca viveva a Parigi, in un articolo ora contenuto in Mondo scritto e mondo non scritto). Fin qui, tutto vero. Poi inizia il romanzo, perché il trucchetto di Binet è scommettere che questa morte non sia affatto un casuale incidente, seppure tragico, bensì un omicidio premeditato, conseguente a una scoperta a cui stava lavorando Barthes che avrebbe potuto – e che in effetti poi nel romanzo farà – ribaltare le vicende della politica e del potere in Francia e nel mondo. Potere dei romanzi, e in fondo del linguaggio, e dunque anche della semiotica.

Siamo, l’avrete inteso, dentro un romanzo giallo: un crimine di cui ritrovare il bandolo della matassa, un genere che farà sì che sulla scena compaia un investigatore osteggiato da una serie di nemici, e qualche mistero da svelare. Impossibile non arrivare dritti filati al fondo di questa storia, lo dico da appassionata di gialli ma, ancora più, da appassionata di semiotica. Perché la caratteristica gigante di questo romanzo è sì quella di essere un giallo che parte da un fatto reale, ma che inventa una storia letteralmente intrisa di semiotica e teoria del linguaggio. È come se le pagine di Binet fossero state pucciate nella tazza in cui ho fatto colazione per tutti i miei anni universitari, come se mi riportassero un intero mondo fatto di teorie, pensieri, e nomi di studiosi, persino professori che ho avuto o che ho conosciuto.

Quindi è inutile, avete già constatato da voi come non ci riesca: non posso parlare di questo romanzo fingendo neutralità. No, perché io tifo per questo romanzo, un universo narrativo che mi chiama pagina dopo pagina a essere complice del suo autore, a sussultare compiaciuta a ogni citazione, sia essa teorica o solo di contorno, a collegare indizi che ho letto prima a sviluppi successivi della storia. Insomma: per gli studi che ho fatto, per le competenze semiotiche che ho, io sono un super lettore di un romanzo del genere.

In fondo rispondo solamente a una teoria di Umberto Eco sull’interpretazione (vi potete rifocillare con Lector in fabula e Sei passeggiate nei boschi narrativi) , non lo faccio apposta, è che considerata l’enciclopedia (attenzione, termine tecnico, alias “insieme di competenze intertestuali del lettore”) mi si attivano automaticamente input e percorsi da seguire. La difficoltà di una recensione, per un libro che mi coinvolge così e che proprio grazie a questi meccanismi trovo godibilissimo e divertente, perché mi solletica e mi chiama in prima persona, è quella di restituirvene un’immagine il più neutra e onesta possibile. Come riuscirci? Non lo so ancora bene, ma intanto vi propongo una citazione, che è un pezzetto della mia vita quotidiana e che vi convincerà del fatto che dentro questo libro c’è qualcun altro che, come voi ora, al solo sentire la parola “semiotica” va nel pallone e non capisce più niente.

cosa sa lei della semiotica?
Be’, è lo studio dei segni nel quadro della vita sociale.”

[…]

Concretamente, a cosa serve questa… scienza?”
Be’… a capire il reale.
Bayard fa una smorfia impercettibile.
Cioè?

Mentre Barthes muore investito da un furgoncino, Binet ci fa entrare subito nel tema, con una breve storia dello studioso e dei suoi Miti d’oggi, e un successivo excursus sulla semiotica, la linguistica e in generale i sistemi di significazione e comunicazione perché, volente o nolente è così, “l’uomo è una macchina per interpretare e, per quanta poca immaginazione abbia, vede segni dappertutto”. È perfetto per qualcuno che debba cercare indizi in un delitto, no?

I segni sono anche gli indizi, e dunque per indagare sul caso il commissario Bayard, chiamato a occuparsi della sospetta morte di Barthe niente meno che dai servizi segreti, capisce che questa della semiotica è una pista utile. Il problema? Eh? Semio che? Ovvero: non sa nulla di semiotica e, fattore ancor peggiore, è totalmente avulso dal mondo accademico, una sorta di universo parallelo con le sue gerarchie segrete, le fazioni di docenti che si divino sulle teorie, il roboante tour dei convegni in giro per il mondo che quasi sempre si trasformano in occasioni per gite non proprio edificanti.  (Non posso davvero trattenermi dal citare un libro che, incensato da Umberto Eco stesso, racconta con una parodia irresistibile proprio questo mondo, parlo di Il professore va a al congresso di David Lodge).

A questo punto è chiaro che a Bayard serve un aiutante per scalfire la patina di incomprensibile che i “maledetti intellettuali” (in primis Focault, il primo professorone parigino che incontra) hanno costruito intorno a Barthes e alla sua stessa disciplina. L’idea vincente è dunque andare all’università di Vincennes e pescare, all’istituto di cultura e comunicazione, colui che sta tenendo una lezione niente meno che su James Bond. Questo è il punto in cui se stessi raccontando la storia a certa gente, mi sentirei dire “ecco, vedi, studiate le merendine voi semiotici”, invece Simon Herzog, il ricercatore precario individuato da Bayard, stupisce il commissario con un ragionamento brillante che giustifica la presenza di un prodotto pop e di massa come 007 in un’aula universitaria.

Perché le cose siano chiare, commissario, non sono uno specialista di Barthes né un semiologo propriamente detto. Ho iniziato un dottorato in Lettere moderne sul romanzo storico, sto preparando una tesi di linguistica sugli atti linguistici e sono anche incaricato di un seminario. Questo semestre tengo un seminario di Semiologia dell’immagine, l’anno scorso ne tenevo uno di Introduzione alla semiologia. Era un corso di iniziazione per gli studenti del primo anno; ho esposto loro le basi della linguistica perché è il fondamento della semiologia, ho parlato loro di Saussure e di Jakobosn, un po’ di Austin, un po’ di Searle, abbiamo lavorato soprattutto su Barthes perché è più accessibile e perché spesso ha scelto oggetti di studio presi dalla cultura di massa, quindi più adatti a risvegliare la curiosità degli studenti che, mettiamo, i suoi scritti su Racine o Chateaubriand, perché questi sono studenti di Comunicazione, non di Letteratura. Con Barthes si poteva passare molto tempo a parlare di bistecca e patatine fritte, dell’ultima Citroën, di James Bond; è un approccio analitico molto più ludico ed è un po’ questa, del resto, la definizione di semiologia: una disciplina che applica i procedimenti della critica letteraria a oggetti non letterari.

Ecco, dall’università a rischiare di essere uccisi da un killer, è un attimo. Simon acconsente a collaborare con la polizia, e fiutando piste e simboli da inseguire, indizio dopo indizio viene trascinato e a sua volta trascina Bayard in una trama appassionante. Prima Parigi, poi Bologna – una città affatto casuale, è la città dove insegnava Umberto Eco ed è la città dove nell’agosto del 1980 esplode una bomba in stazione, episodio con cui l’autore gioca ancora una volta tra finzione e realtà. L’inseguimento esasperato prosegue a Ithaca, Usa, e poi a Venezia, per finire a Napoli. Quanta Italia, in queste pagine. Sarà che tanta semiotica, oltre che in Francia e in Bulgaria – due nazioni che come scoprirete sono implicate nell’affaire – si è fatta e si fa anche a casa nostra. Non mi stupisce, ma anzi mi inorgoglisce, che tra le righe giocose di Bayard compaiano quindi anche alcuni nomi di semiotici italiani… Vabbè, Eco nemmeno lo cito, lui è immenso e non vale come italiano, perché è mondiale, ci sono però Paolo Fabbri e Omar Calabrese, e persino Ugo Volli, ritratto da Eco come il semiologo italiano che dice: “Io esisto, Emma Bovary no”. Credo lo abbia detto anche a una delle lezioni che negli anni ho seguito all’Università. Sembra che nessun oggetto, nessun episodio, nessun personaggio entrato in scena sia lì per caso. Ecco che compaiono Ksisteva, Sollers, Althusser, Bhl, e poi Todorov, tutta gente studiata sui libri. Prendete la macchina che a Parigi insegue i due, la Ds nera, è la deesse di cui parla Barthes, icona pop dell’automobile moderna.  Anche questo, se non avete fatto un esame di semiotica, non potreste davvero saperlo…

Il mistero si infittisce perché sulla scena del crimine inizia a chiarirsi l’esistenza di una sorta di associazione segreta che si riunisce in tutto il mondo in serate apposite dove si discute, o meglio ci si mette alla prova sostenendo e confutando tesi. Un agone di retorica in pieno stile, un Logos Club dai modi un po’ rudi, come avrete modo di scoprire leggendo. Cariche misteriose lo regolano e altrettanto segreto è l’accesso alle riunioni, ma ovviamente, con Simon e Bayard, ci sarà modo di scoprire molto bene come funziona questa congrega di carbonari pazzi.

la semiotica offre degli strumenti per riconoscere cosa fare della scienza, consiste anzitutto nell’imparare a vedere il mondo, nella sua globalità, come un insieme di fatti significanti

Al centro di tutto, oltre al velo della trama, c’è sempre lui: il linguaggio. Barthes infatti stava approfondendo una cosiddetta settima funzione del linguaggio. E le precedenti sei? Ecco che entra in gioco Jakobosn, nome familiarissimo ai semiotici, ma non al pubblico generico e nemmeno al commissario, che paradossalmente si trova a indagare sul linguaggio stesso, scoprendo l’esistenza di una teorizzazione che ipotizza l’esistenza di una funzione – la settima, fuori dallo schema canonico che si studia sempre al quel famoso esame di semiotica – che conferirebbe al linguaggio, e dunque al discorso, un immenso potere. Si tratterebbe cioè della capacità di certi enunciati di realizzare ciò che enunciano già solo con il fatto di enunciarlo.

Ed ecco il potere della semiotica, della significazione in generale: camminare insieme alla realtà, non potersi scindere da ogni nostro atto linguistico, che sempre sottintenderà una certa presenza nel mondo, un orientamento, e che sempre avrà per sua natura una spiegazione. La semiotica è un agente di polizia: deve decodificare, capire, analizzare, per evitare che i nemici – coloro che usano appositamente il linguaggio, potentissimo strumento di persuasione –danneggino altri. È una lotta tra forze linguistiche, un affare da Logos Club, appunto. Sentite cosa Binet fa dire a Eco a proposito della semiotica

Roland… la sua grande lezione di semiotica per me è stata saper osservare qualsiasi evento dell’universo e avvertire che significa qualcosa. Ripeteva sempre che il semiologo, quando passeggia per strada, vede significazione là dove gli altri vedono fatti. Sapeva che si esprime qualcosa col proprio modo di vestirsi, di tenere un bicchiere, di camminare […] Allo stesso tempo, ciò che lui amava nella letteratura è il fatto che non si è obbligati a fissare un significato ma si può giocare coi significati. Capisce? È geniale

Non pago di questa girandola semiotica, nel teatro delle marionette che vede insieme tutti i maggiori studiosi usciti della pagine di me studentessa radunati per partecipare a questo spassoso romanzo tra il mistero e il thriller, l’autore spinge ancora un po’ sul tasto dell’intertestualità, ed entra a gamba tesa nel testo. Ovvero: ci avvisa del gesto che stiamo compiendo. Stiamo leggendo. Un’azione niente affatto innocente, che fa scattare passaggi a livello, scivoli, alza e abbassa sipari, crea mondi. Ecco cosa succede a Simon durante il volo aereo per gli Stati Uniti, state attenti perché il libro citato è già comparso prima, e non nel romanzo ma nelle mie parole, a testimonianza dell’impasto spassosissimo di rimandi testuali che questo congegno che è La settima funzione del linguaggio mette in moto

Simon ha preso Lector in fabula di Umberto Eco per il viaggio. Bayard gli chiede se impara cose interessanti dal suo libro, e con interessanti vuole dire utili all’inchiesta ma forse non solo, effettivamente. Simon fissa lo sguardo sulla pagina e legge: “Io vivo (voglio dire: io che scrivo, che ho intenzione di essere vivo nel solo modo che conosco) ma nel momento in cui sviluppo una teoria dei mondi possibili narrativi, decido (a partire dal mondo di cui ho diretta esperienza fisica) di ridurre questo mondo a un’esperienza semiotica per compararlo a dei mondi narrativi”

Realtà, finzione, o una macedonia spassosissima e metatestuale? Ovviamente la terza, in fede a quel divertimento così gradevole che solo Umberto Eco sapeva trarre dai testi, restituendolo nei suoi studi e nelle sue altrettanto gradevoli pubblicazioni.  Certo è che, vuoi la trama appassionante, vuoi la vicenda ai limiti dell’assurdo, vuoi il mistero fitto da risolvere, una delle chiavi di volta di questo romanzo resta, per me, l’ironia. Anzi, l’autoironia. Quello sguardo mai superficiale che raccoglie e racconta la storia di un disciplina giovane, complessa, intrisa di contemporaneità, politica, mass media, così nuova e così vaporosa da finire bistrattata e guardata con malignità dalle gerarchie accademiche e dalla scienza pura. Uno sguardo che coglie insieme potenziale e criticità, e ne fa parodia, eccesso, battuta comica. Perché in fondo, dopo ore di studio su strampalati volumi e con strampalate teorie, quando si rialzano gli occhi dai libri e si guarda il mondo fuori dalla finestra, è anche legittimo domandarsi a cosa, nell’immediato e nel concreto, possa servire una disciplina così eterea come la semiotica, mai definita e quindi autodefinita, schiacciata tra l’impero di una scuola e quello di un’altra, tra nomi che sono ormai vip, futuri precari e un tema d’elezione – la significazione – grande e sconfinato come il mondo stesso (o forse come l’universo, direbbe il Calvino cosmicomico…).

Non è un caso che Umberto Eco, il grande professore di Bologna, uno degli ultimi grandi semiotici, faccia così spesso riferimento alle grandi invenzioni decisive della storia dell’umanità: la ruota, il cucchiaino, il libro… strumenti perfetti, secondo lui, la cui efficacia è insuperabile. Tutto lascia supporre che in effetti la semiotica sia una delle invenzioni capitali della storia dell’umanità e uno dei più potenti strumenti mai forgiati dall’uomo, ma come con il fuoco o con l’atomo: all’inizio, non si sa bene a cosa serva, come utilizzarla.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!