Ormai a Contrera voglio un gran bene. Sembra che sia mio amico da anni, o da romanzi. Invece no, l’ho letto solo in due libri Einaudi, nel giro di 8 mesi, neanche troppo. Il primo è stato Fa troppo freddo per morire, romanzo di cui tanto avevo sentito parlare e dentro al quale mi sono buttata per la costruzione di Torino di carta, con riferimenti speciali al quartiere di Barriera di Milano, dove il giallo è ambientato. Il secondo, va da sé che ormai ero curiosa e affezionata alla vicenda, e soprattutto al personaggio, è stato Il delitto ha le gambe corte.

Ancora Contrera, ancora Barriera di Milano, ancora un caso complesso e sfaccettato che metterà a repentaglio la sua vita, ma anche e sempre le sue certezze. Siamo a Torino, quartiere periferico con tutti i suoi dilemmi: immigrazione, multiculturalismo, spaccio e cosche mafiose a controllo della zona. È qui che l’ex poliziotto Contrera – non c’è nome, solo cognome – lavora come investigatore privato. Squattrinato, sfigato e poveretto com’è, il suo ufficio è un angolo della lavanderia a gettoni dell’amico marocchino che gli fa il favore di concedergli lo spazio, e un minifrigo pieno di Corona.

È un attimo, e dall’ingresso di un cliente con una richiesta speciale al trovarsi dentro a trottole abilmente narrate con intrecci polizieschi mai banali passano pochi minuti. Perché Contrera è così: nei guai ci si ficca come ape sul miele. O forse ci si trova, perché non è in grado di decidere, di avere polso, perché ha bisogno di soldi, perché in fondo è stato un bravo poliziotto, prima di mandare tutto gambe all’aria.

Figlio dell’insoddisfazione, Contrera vive su un confine speciale per la narrativa, quello dove non esiste più bene né male, legale e illegale, eppure pensa, ragiona e prova sentimenti, e agisce, e noi con lui, che è il nostro occhio sul mondo, la nostra temperatura della situazione. In questo non poteva che ricordarmi il buon Rocco Schiavone, l’eroe dei due mondi, la polizia e il delinquente insieme, l’eroe a cui ci affezioniamo ma che è lungi dall’essere quel detentore dell’ordine che ci aspetteremmo in un giallo classico. Qui no, non è forse quasi più giallo, ma romanzo, tragicommedia umana. Commendia lo è perché in Frascella non manca mai l’ironia, sarcastica e maliziosa, tragedia lo diventa quando si applica un filtro morale alla lettura, e negli sbandamenti raccolti da queste storie, quello del protagonista in primis, e tutti gli altri a seguire, in una spirale al ribasso, sempre più fango e nero, non si trova più un faro a indicare la via.

Il percorso della giustizia è smarrito: la barriera – e che la storia sia ambientata a Barriera di Milano è significativo secondo me, essendo un quartiere che già nel nome reca il senso del confine, del limite tra mondi diversi, città e periferia, Torino e Milano – sfuma in un territorio mediano che è indistinto. Ma dove c’è la nebbia, dove la moralità e le regole sfumano, tutto è legittimo, purtroppo. Contrera, nonostante la sua vita pasticciata e attorcigliata su sbagli e controsbagli, ne è pienamente consapevole, ed è questa certezza il cuore che batte e che coinvolge noi lettori, immedesimati empaticamente, seppure fino a un certo punto, proprio come con Schiavone, in lui. Magia della lettura: farci vivere vite che mai avremmo vissuto, farci entrare nella testa di chi ha smarrito quella solida divisione tra bianco e nero che crediamo essere alla base costante del nostro agire.

“La verità ha troppe facce e non c’è nessun cazzo di faro nel buio. C’è solo tenebra. E tu lo hai imparato, proprio da me” dice Contrera pensando al padre poliziotto integerrimo, a dimostrazione della sua coscienza piena della complessità dei fatti. Complessità che nessun posto al mondo potrebbe rispecchiare così bene come Barriera di Milano, il quartiere di Torino che porta nel nome il riferimento a un’altra città, e già questo fatto è bizzarro. Barriera – i torinesi lo abbreviano così – è il luogo principe delle contraddizioni, dove si agita la complessità del mondo che tormenta Contrera e con la quale ha stretto un patto inscindibile. Ecco perché non si sposta di lì, ecco perché nel quartiere si identifica tanto da dire che “è un quartiere talmente brutto che mi somiglia come niente altro al mondo, perciò ci sto bene”.

Complesso per gli strati di immigrazione sovrapposti, cinesi arabi meridionali e un barista leghista che tiene un fucile sotto il banco; complesso per i tentativi di vite normali che cozzano e si plasmano su una base di malaffare e delinquenza. E sporcizia, e fango reale e metaforico, eppure Contrera lavora in una lavanderia. E ancora una famiglia, e tutte le scaglie umane che alla famiglia si contrappongono, da Contrera alla scuola occupata con i suoi ragazzi drogati, alle prostitute di alto borgo, al nigeriano nato in Italia col diploma ma costretto a vivere per la strada. Religioni, colori, culture, odori e puzze, minacce e amori. In questo guazzabuglio affollato si muove Contrera, paladino dell’opposto esatto dei paladini: non gli riesce niente di dritto. Perché dritto lui non è, e mai forse sarà. Se lo fosse, finirebbe il bello di queste storie, l’intrigo che dà loro respiro e le alimenta proponendo sempre nuovi rischi, nuovi ostacoli, nuove possibilità che regolarmente, per qualche motivo, prendono pieghe diverse. È una vita stressante e faticosa quella di Contrera, ma diventando suoi amici, leggendolo ed entrando nel suo mondo attraverso i suoi occhi, potrebbe essere che anche voi, come me, iniziate a pensare che è proprio di quella fatica e di quello stress che il detective ha bisogno per sentirsi realizzato, per sentirsi vivo.

L’avevo già detto, che la narrativa è un meccanismo meraviglioso?

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!