Come si fa a essere felici? Si può? Oggi, si può ancora, è permesso? Germania, anni dieci dei Duemila, due trentenni con un bimbo piccolo. Potrebbero essere amici miei, coetanei e radicati in un contesto – Europa occidentale – che ci accomuna. Georg e Isabell, con il loro piccolo Matti, sono due come me, come noi, trentenni di oggi, persi tra ricordi di un passato che sembrava solido e di cui oggi resta poco, un presente zoppicante, un futuro invisibile. Sono i protagonisti di I felici, romanzo di esordio di Kristine Bilkau edito in Italia da Keller, traduzione di Fabrizio Cambi.

Tutto funziona bene nelle vite di Georg e Isabell, giornalista lui, violoncellista in orchestra lei, il piccolo Matti nato da poco e un futuro da riempire. O forse no. Forse non è così scontato poter riempire il futuro quando il mondo, tutto intorno, diventa precario. Il pavimento trema: trema la mano di Isabell sull’archetto dello strumento, trema una carriera, una prospettiva. E intanto lievita la vergogna, il senso di fallimento. Trema una posizione al giornale quando l’azienda annuncia un ridimensionamento, e Georg si ritrova senza un lavoro. Due disoccupati. Professionisti avviati, forse sicuri, fiduciosi nel futuro, a cui all’improvviso qualcuno spegne la luce. E vagare nel buio, con un bambino piccolo e tanti sogni, abitudini, caffè e vestiti, una casa il cui affitto aumenta, è difficile.

Inizia il corpo a corpo con u fastidi sottili e insidiosi che conosco bene anche io: l’incertezza, la miopia, quella che non fa prospettare il futuro e richiede passi brevi, sguardi corti. Il montare lento e soffocante del senso di fallimento verso se stessi. Entrambi, per ragioni diverse, si domandano cosa sono in grado di fare dopo che le fragili sicurezze del loro lavoro, della loro passione, scricchiolano. Isabell patisce lo stress, il palco, la competizione rispetto agli altri: la sua mano non ce la fa più a tenere la posizione fluida sul violoncello. Continua a proiettare nel futuro: e se… e se…? E così perde musica, naturalezza, perde audizioni: la paura diventa paralizzante, imbarazzante da dire ad altri, resta un segreto, ma continua a pulsare. Georg ce la mette tutta, fa colloqui anche lontano, abbassa il proprio valore per accedere a posizioni che rivoluzionerebbero la sua vita: accontentarsi, per uscire dal vortice della competizione. Sedare l’ambizione, per stare tranquilli, spegnere il tasto dell’ansia costante, la zavorra dei conti, delle prospettive. Programmare, sempre programmare, perché quando non si sa dove finirà il passo successivo, bisogna avere dei piani. È il mondo di oggi, è il nostro mondo, oggi, e non sempre chi è più vecchio lo capisce, lo riconosce, snocciolando diritti come ferie e pensioni senza contemplare nuovi ordini di esistenze dove nulla di definito può più garantire questi bastioni nella vita personale.

La sua vita è scandita da tappe in cui arriva sempre troppo tardi. Essere nato troppo tardi, per poter vivere i mutamenti dovuti al digitale e i fragili mercati finanziari come universi esotici, da qualche parte, molto lontano, senza dover rapportare tutto alla sua vita privata, alla sua esistenza personale tra le quattro pareti domestiche. Troppo tardi per poter credere alla sua professione, senza la paura delle cifre e delle riorganizzazioni. Come se la sono passata bene i vecchi colleghi. Sprigionavano la scurezza di avere scelto il lavoro giusto.

A cosa si è disposti pur di essere felici? O, viceversa, cosa presuppone la felicità, stress continuo, martellante, sfinimento che fa tremare le mani ed erigere ponti? Il rapporto di coppia vacilla: a capitoli alterni entriamo nei pensieri di Isabell e di Georg: ognuno si interroga sulla propria situazione, chi proietta nel futuro e non vede, chi culla le proprie ambizioni con progetti fragili: com’è la situazione, e come potrebbe essere? Ma se non dovesse essere, poi? La competizione è pressante, Georg vorrebbe sottrarsi a questa sorta di ricatto, staccarsi così dalla società per tornare a vivere in provincia e forse abbassare il volume dei sogni e delle ambizioni, inibito dalla paura di fallire.

Qui c’è lo smacco, il gioco di un motore che si inceppa e non riprende. Ci si isola, è uno dei pericoli, ci si dà addosso, si mette a repentaglio un legame di affetto che avrebbe solo bisogno di condivisione. È tutto un rovello interiore: il credersi falliti e perdenti rispetto agli altri, rispetto ai sogni, al piccolo Matti. Ma a essere perdenti, a considerarci tali, in fondo, siamo solo noi, che non riusciamo a essere adulti come chi ci ha preceduto, a essere genitori come loro, a comprare una casa assicurando protezione e sicurezza, futuro.

Meglio non rischiare, come fa Isabell? “L’importante era non commettere errori, non fare passi falsi, meglio restare dalla parte sicura, perché se avesse azzardato troppo potevano capitare solo cose brutte”. In base a questo principio vigliacco verso se stessa, Isabell ha impostato tutto, ma la parte sicura a un certo punto sparisce, non si trova più: Matti è nato, la mano continua a tremare sul violoncello, il tempo bussa alla porta, lo spirito dei tempi soffoca, costringe a restare incasellati in una posizione socialmente definita, con il rischio di perderla, di sparire, di essere additati. Il senso di colpa. Verso chi e cosa, poi?

Lui ha perso l’istinto, il sentore di come sia realmente la loro situazione. Come può essere fiducioso? In che misura deve essere scettico? Se si propone di credere nel futuro, gli si insinua subito nella mente il timore che la speranza dia solo una forma di rimozione. Se immagina tutti i possibili problemi futuri, per scrupolo mette di nuovo in discussione il suo scetticismo. Questo suo atteggiamento di continua cautela gli costa fatica

Come è difficile tutto questo, e come lo ha efficacemente raccontato l’autrice. “Non trovo il mio posto, pare che non ci sia. Avrei bisogno di tempo. Ma tempo non ne abbiamo. Tutto deve andare avanti, o no?” dice a un certo punto Georg, mentre il suo rapporto con la moglie si incrina, nelle crepe monta rabbia, frustrazione, tutti esiti dell’insoddisfazione personale. No, così non si può andare avanti: è forse questa la strada per la felicità? Passo passo, Isabell e Georg arriveranno a intuirlo, non capirlo, solo annusarlo davanti a piccole scene, momenti delicati e, appunto, felici. Perché La felicità si intuisce dopo, quando i momenti vissuti maturano come ricordi di attimi felici. Per essere felici basta sapere questo, proiettare nel futuro lo sguardo sull’oggi, nient’altro, a volte basta così.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!