Da un paio di giorni me lo domando: chissà cosa è rimasto in testa a Fabio Genovesi dopo la cena di domenica. Perché domenica 11 febbraio l’autore di Chi manda le onde e Il mare dove non si tocca è stato ospite a Cervo per la rassegna Cervo in blu d’inchiostro, e in un pomeriggio freddo che virava al buio della sera ha chiacchierato due ore con insegnanti e alunni di scrittura, linguaggio, mare e storie. A incontro finito, per quelle strane e improbabili connessioni in cui spesso mi trovo coinvolta, Genovesi, gli organizzatori e io siamo finiti a cena in un’enoteca nascosta nei carrugi del borgo. Menu sul tavolo: trofie al pesto, brandade (che uno dei miei professori del liceo, al tavolo con noi, ha definito la versione brasil-saudade del brandacujun, nome un po’ poco fine per una pietanza tipica), farinata e, in chiusura, mandarini dell’orto.

E sarà stato il cibo, con i suoi profumi, l’abbraccio dell’ambiente circostante, o forse la voglia di raccontarsi a uno che di mestiere racconta storie, ma più ci penso, a distanza, più mi sembra di ricordare che per tutta la sera non sia stato tanto Genovesi a parlarci di cose, quanto noi a spiegargli e narragli volti, parole, pronunce e tipicità di casa nostra. Ho in testa argute spiegazioni di parole dialettali che racchiudono mondi, e sono per questo particolarmente delicate da raccontare a chi non sia nato qui: mettiamo il cosiddetto invexendo… Come lo spieghi a un toscano? E come a uno che, oltre che toscano, del Forte (vedi: Forte dei Marmi), è per di più un narratore? L’invexendo è quando stai facendo troppe cose e credevi di riuscire a gestire tutto ma invece quelle stesse cose ti sovrastano, e ti ritrovi nelle curve a seguire tutti i fili.

Come il filo di questo mio racconto di una serata con uno scrittore, che parte da un libro e arriva alla farinata, quella ligure, che però scopro essere anche toscana, lì la chiamano cecina (con l’accento sulla i, sennò diventa la città), oppure calda-calda, ma quelli sono i pisani. E io prima di domenica sera non lo sapevo mica, però mi sono ritrovata a pensare che alla fine, vuoi noi del Ponente, confinati nella remota regione scoscesa sul mare che scappa quasi in Francia, vuoi i toscani della regione apuana, che come confermava Genovesi stesso sono anche un po’ liguri, siamo tutti persone legate al mare, al Mediterraneo. Questo è l’aspetto attraverso il quale sono entrata in Il mare dove non si tocca: il mare. Sia perché la copertina è di un bellissimo blu e raffigura un’onda tra cui sguazza un Fabio Genovesi bambino, sia perché ricordavo ancora il racconto dell’autore a Torino, in occasione della presentazione del libro, quando tirò fuori il calamaro gigante.

Oltre a essere protagonista degli abissi narrativi di Jules Verne e dell’immaginario di tantissimi bambini, il calamaro gigante è per Genovesi una creatura capace di evocare la meraviglia delle profondità, le cose così pazzesche che si direbbe non esistano, e invece sì, ci sono anche loro. Basta avere il coraggio di esplorare il mare blu scuro, quello dove non si tocca. Non è detto sia privo di ostacoli, quel mare, e di insidie, ma con il sorriso, un pochino di sicurezza e una grande attenzione al linguaggio, il viaggio potrà essere sorprendente. Lo dico a cavallo di due storie, quella raccontata dentro al libro, che riguarda Fabio, un bambino omonimo dell’autore e un po’ ricalcato sulla sua vera biografia, e quella che riguarda la mia domenica pomeriggio ascoltando le chiacchiere di Genovesi.

Il mare dove non si tocca è la storia, come dicevo, di Fabio, che all’età di 6 anni, il primo giorno di scuola, scopre non solo che anche il giorno dopo dovrà tornare a scuola, e quello dopo ancora, ma che i suoi 10 nonni non sono proprio nonni, ma più che altro prozii. Sono i fratelli, tutti scapoli, del nonno Arolando, chiamato davvero così per questa strana abitudine familiare di battezzare tutti con un nome che iniziasse per A, fino a Rolando, che doveva chiamarsi così, ma la R non era una A, e dunque per la conciliazione e la vita serena della famiglia, si è deciso per la creatività. «La vita è più facile di come la pensiamo – ha cercato di darsi una spiegazione Genovesi, tra i sorrisi generali dopo aver ascoltato questa storia – è una cosa strana, è vero, ma un attimo dopo è subito normale. Ci vuole qualcosa di strano perché le cose vadano avanti».

Ci sono un po’ di cose strane, infatti, nella vita di Fabio, a partire dai suoi zii, e poi da quel che accade al suo papà aggiusta-tutto, per ripiegare ancora sulla sua passione per i manuali che acquista al mercato, leggendo i quali è convinto di imparare tutto. «Secondo me – ha detto Genovesi – invecchi quando smetti di ricordarti com’eri», e io credo che stia in queste parole la ricetta dell’autore per scendere al fondo di quelle stranezze di bambino (ah, eccolo, il calamaro gigante che abita le acque fonde!) che poi a ben vedere tali non sono, e raccontarle con la sua voce, il suo punto di vista, le sue emozioni. Genovesi ha detto di avere il pregio di non essere cambiato molto e di continuare a essere sintonizzato, ancora oggi, sulle frequenze di quando era ragazzino. Al di là del grande lavoro sul linguaggio, io penso che la meraviglia di questa scrittura, la sua freschezza e intelligenza, derivino da questo sguardo. Che è insieme ironico, mantiene il suo accento toscano senza il quale sarebbe molto diverso, è capace di raccontare grandi verità e, tra una risata e l’altra, fa pure venire il naso frizzante (Fabio – del libro – dixit) e gli occhi appannati.

Non si può non voler bene al piccolo Fabio, alla sua ingenuità che, pure, non è del tutto sciocca, alle sue congetture per far felici sempre tutti, al suo voler bene a persone spesso rudi e grezze, che non sanno insegnarli una grammatica affettiva, proprio quella che forse lui cerca, e che a modo suo improvvisa, un po’ come gli viene. È una questione di animo, di prospettiva sul mondo, e lo ha confermato l’autore stesso: «lo studio – ha detto – può solo decorare l’animo di una persona, ma se fa schifo, puoi avere mille lauree che tanto non cambierà».

Allora ripenso a quella tavolata piena di Liguria, e mi dico che forse la nostra narrazione prevaricante è stata scatenata proprio da un atteggiamento del genere, da un animo disposto a ricevere racconti, a capire, a interessarsi. Perché in fondo a me Fabio Genovesi, che tra le altre cose ci ha raccontato di essere appassionato di fumetti e ha rievocato diversi reportage anche piuttosto folcloristici realizzati per il Corriere (vi dirò solo: feste della Lega paragonate a Feste dell’Unità, con partecipanti orfani di momenti di convivialità di paese, vinello e salsicce), è sembrato una persona con una grande disposizione a guardare fuori e cercare di capire.

Ha anche svelato che spesso si sente fuori luogo, ma che vive il tutto come una cosa positiva. E a suggellare la cosa ha raccontato un episodio divertentissimo che lo ha visto protagonista con Zerocalcare alla consegna del Premio Strega giovani nel 2015, in Parlamento. «Io e lui non avevamo mai avuto una giacca – ha raccontato così il disagio dell’abbigliamento formale che la ricorrenza esigeva – ma la giacca da uomo sente quando un uomo non l’ha mai messa, e ti punisce». «Sono contento di tornare a casa mia, dove non c’è la percezione del lavoro che faccio, e ringrazio per la frase che mi dicono ‘non fai una sega, beato te’, perché serve sempre».

Mi ha colpito molto, con ironia e un filo di amarezza, ma anche con piena consapevolezza, il suo racconto di quando, tempo fa, uscì per strada a Imperia, la mia città, e due signori lo guardarono come da noi si guarda tipicamente un “foresto”, uno che viene da fuori e probabilmente porterà delle novità, forse seccanti, o in ogni caso del disturbo rispetto alla quiete giornaliera. «Ma va bene così» ha sorriso Fabio. Credo abbia sorriso perché sa: vuoi la fratellanza con i liguri che i toscani della sua zona hanno maturato (a proposito, di quella zona vi parlavo nella recensione-guida turistica a Chi manda le onde su Turismo Letterario), vuoi la predisposizione dello scrittore, di un animo che preferisce da sempre la solitudine, perché nel mare dove non si tocca dell’immaginazione nuotano un sacco di calamari giganti di cui raccontare le storie.

Neanche a farlo apposta, meditavo su questa empatia dello scrittore e guardandomi intorno in una domenica di febbraio deserta come solo le cittadine turistiche sul mare sanno essere fuori stagione, pensavo che sarebbe stato familiare a Fabio, e che probabilmente è anche la provenienza, il paesaggio dell’infanzia, la Versilia che come la Liguria in inverno si svuota a fare dell’autore il narratore così speciale che leggiamo. Luna, la protagonista di Chi manda le onde, adora la spiaggia, quel che il mare le porta a riva, e di mare del resto parla anche il nuovo romanzo. È un mare immaginario, ma anche vivo, vero, sul quale andare a pesca con gli zii-nonni e nel quale imparare a stare a galla grazie al metodo paterno per imparare a nuotare: via, giù dal pattino con un calcione, e vediamo come te la cavi. Quanti racconti, dai miei genitori, ascoltati negli anni, finivano nello stesso modo. Era un’arte dell’arrangiarsi che veniva spontanea, un rapporto col mare che forse avrebbe segnato i successivi approcci con le cose sconosciute e le difficoltà della vita. Resto convinta che, senza quell’immaginario marino comune, senza quella vita di spiaggia fatta di tre mesi di vacanze balneari quando non c’era la scuola, e passeggiate al mare il sabato pomeriggio, nella quiete di una provincia che resta sempre tutta uguale, roccaforte degli affetti, la scrittura di Genovesi sarebbe diversa. E diversa sarebbe anche la mia lettura.

Non lo so se ho ragione, ma so che l’autore ci ha raccontato di riuscire a scrivere solo a casa propria, al Forte, e a penna, su fogli di ferramenta. I creativi, si sa, sono bizzarri. Certo, va detto che mai avrei pensato che all’infuori di Woody Allen esistesse qualcun altro che nel 2018 concretizza il concetto di copia e incolla con forbici e colla stick. Perché questo è ciò che ha raccontato di fare Genovesi. «Frequento spesso mercatini – ha aggiunto – compro delle vecchie foto in bianco e nero di persone che non conosco, e le incollo davanti alla scrivania sulla quale lavoro. Vedo quelle facce di sconosciuti e mi danno delle idee, inizio a immaginare chi sono, e cosa hanno fatto nella vita».

Mare, storie. E fin qui ci siamo, perché anche a quella tavolata eravamo tante storie, eravamo al mare e di questo posto incantevole parlavamo, tra il borgo di Cervo e altre sorprese, culinarie, artistiche e naturalistiche della Liguria di Ponente. Ma c’è un altro dettaglio che mi sembra fondamentale per completare il quadro: la lingua. Dalla farinata, che a sud si chiama cecina ma è la stessa cosa, al brandade-brandacujon, alla bestemmia toscana come intercalare: eravamo immersi in un universo linguistico, e le sue pagine, le sue diversità e parentele, ci hanno meravigliato tanto da farne argomento di discussione con lo scrittore, a tavola. «Quando scrivo cerco sempre di seguire il linguaggio delle persone – raccontava ai ragazzi delle superiori Genovesi – ci sono scrittori che lo usano come un cadavere di cui fare l’autopsia. Considero invece lo scrittore come un cacciatore di linguaggio, una bestia selvaggia dietro alla quale stare dietro, perché comanda lei, bisogna seguirla e vedere dove va, bisogna starle dietro e volerle bene. E sono spesso lotte, con te stesso e poi con gli editor, per scrivere così».

Chissà allora che ha pensato della nostra strana congerie ligure, tra le trofie al pesto. Chissà cosa ha registrato, quali pensieri ha innescato. Perché, mi sono detta, uno scrittore così attento alle persone e alle storie, con un orecchio speciale per il linguaggio (ho anche scoperto che è laureato in filosofia della poesia, titolo che ha ottenuto dopo molto tempo, ma solo perché intanto faceva il giardiniere con i suoi zii… Cioè, il giardiniere, prima di scrivere: non è bellissimo?), deve aver trattenuto qualcosa, sotto forma di storia. Quel che ho trattenuto io è stata una persona di una sincerità e disponibilità estrema: tutto quello che non ti aspetteresti da uno degli autori di punta del più famoso editore italiano, che mentre parlavi di dialetto ligure e storie di bisnonni ti ascoltava, e con la stessa semplicità accoglieva i mandarini dell’orto del ristorante e un caffè d’orzo corretto «con quello che c’è».

«Il limite tra realtà e fantasia – ha detto a un certo punto – è il posto giusto per il romanzo», e poi ci ha spiegato che tutte queste storie legate all’infanzia e ai tanti zii scapoli le ha volute scrivere per un motivo fondamentale, quello cioè di affidarle alla memoria, e attraverso la scrittura non perderle. «Il libro – ha poi aggiunto – lo scriviamo in due, chi scrive e chi legge, e chi legge entra dentro e deve stare comodo, per questo chi scrive deve amare i suoi personaggi e farli parlare. Il vantaggio del libro è che tu sei il regista, dai tu facce e voci».

A un certo punto uno dei ragazzi gli ha detto che aveva letto il libro e gli era piaciuto, e lo ha ringraziato. Fabio Genovesi ha risposto così, e mi ha colpita molto: «no, grazie a te. Il tuo è un regalo di tempo, e di passione». Penso che anche quello dedicato a noi, comuni lettori ritrovati intorno alle trofie al pesto, sia stato un meraviglioso regalo di tempo, esperienza e racconti a spasso per l’Italia. E di questa strana cena, avvolta nel buio un po’ stregato dei vicoletti e degli architravi di Cervo, con un freddo pungente che Genovesi stesso ha patito un sacco, conservo un ricordo molto delicato, per niente imbarazzato come spesso succede invece quando, da lettrice, non riesco a indossare i panni della giornalista e ancora mi agito parlando con un autore che mi ha emozionata.

Ma Fabio Genovesi, l’ho capito, è a caccia di calamari giganti, e a me questa ricerca piace tanto, un po’ la condivido anche, come ho capito di condividere la sua visione del mondo sull’amore e le relazioni, che guarda caso ha in mezzo le storie, il loro potere. Perché per tenere vivo un rapporto e capire se qualcuno ci ama, basta vedere se ci si raccontano le storie, se c’è la voglia di narrativizzare la vita e le cose che accadono, trasformarle da becero quotidiano in cose interessanti e appassionanti. Non è meraviglioso?

«Mi esalta l’uso della parola» si è lasciato sfuggire Fabio. E devo dirlo: anche a me. Infatti mi sono esaltata a nominare pietanze tipiche a tavola, a far conoscere storie mie e della mia terra, storie che mi legano a Torino, storie che ho letto e ho pensato. C’era tutta la passione, credo, in quei racconti in enoteca: mia, degli organizzatori, dei professori. E mi è venuto da ridere quando ho ripensato a un buffissimo episodio raccontato dall’autore durante l’incontro, ovvero l’aver visto uno strano ometto con un altrettanto bizzarro cartello che recitava la misteriosa e affascinante frase “Panini rari”. Che cosa voglia dire, non lo sapremo mai. Ma l’idea dei panini rari è assai buffa e a scrutarne l’ombra per terra sembra di tanto in tanto sventolare qualche tentacolo, stile calamaro gigante.

«Le parole ci salveranno» è stata la conclusione dell’autore. In conclusione a questo lungo racconto, che come sempre parte dai libri e arriva molto lontano, credo che cenare con le trofie al pesto insieme a Fabio Genovesi sia stato un po’ come assaggiare uno di quei panini rari. Raro, perché quanto ti capita un’altra volta l’occasione di stare gomito a gomito con un narratore capace di coinvolgerti come è successo con i suoi ultimi due romanzi? E panino, perché se c’è una cosa quotidiana, spontanea, buona e capace di accontentare grandi e piccoli, è proprio un panino, e al panino è legata una delle scene più tenere di Il mare dove non si tocca. Uno di quei tocchi di maestria dove, da un episodio normale, uno scrittore è capace di tirare fuori tutto un animo. E se è l’animo di Fabio junior, con i suoi tanti nonni-zii, la sua biciletta e i suoi manuali per allevare lombrichi e pescare anguille, sono certa che avrà lo stesso valore salvifico di un “Panino raro”.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!