Per quei casi assurdi della vita di un lettore, mi è capitato di leggere uno dopo l’altro, quasi senza tempo di ripresa, i due nuovi romanzi di due autrici che hanno in comune il nome – Margherita – e il contesto di provenienza, cioè Torino. Svelo subito le mie due autrici, si tratta di Margherita Giacobino e di Margherita Oggero, la prima conosciuta nell’unico evento dal vivo e in presenza di persone a cui sono stata negli ultimi 10 mesi, la seconda scrittrice del cuore, di cui ho letto praticamente tutto e che ho anche utilizzato molto per Torino di carta.

Di Margherita Giacobino ho letto Il tuo sguardo su di me (Mondadori), romanzo di cui mi aveva parlato un’amica libraia, suggerendomelo perché di inaspettata forza. Ebbene sì: aveva ragione, saggezza di libraia, appunto. È una storia insolita, raccontata alla seconda persona perché rivolta a una madre, nel percorso di una vita intera che vede la figlia bambina, la famiglia stravolta dai fatti, la rinascita di una nuova fragile armonia domestica incentrata sulla forza, sul carattere e sulle scelte di una donna speciale. Una madre, appunto, che però non esisterebbe senza la figlia in una diade specialissima che definisce entrambe.

Di Margherita Oggero invece ho trovato meraviglioso il nuovo romanzo, Il gioco delle ultime volte (Einaudi) sia per la storia che narra, anzi le storie, al plurale, che si intrecciano in un gomitolo congegnato con maestria, sia per lo stile che l’autrice sceglie di utilizzare, per la tecnica delle voci che già avevo trovato brillante in La ragazza di fronte (Mondadori) e che qui secondo me ha raggiunto un livello ulteriore di maestria e controllo. Dico la verità: l’ho inviata moltissimo, questa scrittura. Avevo iniziato anche una lettura tecnica per impararne i segreti, ma poi sono stata risucchiata dalla storia e addio, almeno per questa volta mi sono goduta il viaggio.

Sguardi e voci

Ho messo insieme in un unico post questi due romanzi con la scusa del nome Margherita e dell’ambientazione torinese, perché li ho letti uno via l’altro, perché mi hanno colpito entrambi, li ho trovati gran belle scritture, gran belle ricerche. In realtà questi romanzi, mi sono detta, non hanno niente in comune. O forse no? Per gioco, ho iniziato a ragionare su alcuni aspetti, magari un po’ più tecnici, al di là del contenuto che è molto diverso, e del genere – sorta di romanzo familiare quello di Giacobino, noir sottile invece per la Oggero.

Le voci, per esempio. Mi sono sembrate uno degli aspetti che avrei potuto mettere in relazione tra i due romanzi, perché entrambi lavorano sulle voci in modo particolare. Giacobino, come anticipavo, parla in seconda persona, irrompendo anche, come voce narrativa, nel filo temporale della narrazione per interrogarsi sull’operazione, e cercare di capire perché il tu è risultato più adatto della terza persona. Mi ha colpito, questa scelta, perché ribadisce la duplicità che fonda questa storia: la figlia che descrive la madre, la madre che non sarebbe tale senza la figlia. Un legame che non può essere smontato, e narrare il quale, o cercare di farlo, costituisce il cuore di questa storia intima come solo sa essere un legame tra madre e figlia.

Al contrario, nel romanzo di Oggero le voci sono tantissime, un ventaglio ampio e sfaccettato che riproduce esattamente la coralità di personaggi e situazioni presenti in questo romanzo, dove lo spunto narrativo è dato dal sovrapporsi casuale della storia di un apparente suicidio, quello di una ragazzina, e di quella del medico del pronto soccorso che accoglie il corpo in ospedale e ne resta sconvolto. La voce narrante di questo romanzo è in realtà una e mille: un autore modello, che si sente nei giudizi morali e umani sui personaggi, ma anche, ogni volta, la voce nella testa dei personaggi, che si alterna, schiaccia, smentisce le parole di ciascuno. Per questo parlo di coralità, e per questo il congegno narrativo che tiene insieme questo romanzo mi ha affascinato così tanto. Perché è complesso, perché da lettore ingenuo scende giù che è un piacere, ma a riprodurlo bisogna avere un controllo estremo di tutto quanto, essere tremendamente bravi. L’ho già detto: mi fa molta invidia questo saper entrare nella testa e nelle parole di così tanti personaggi, e mi piace tantissimo leggere questo mondo variopinto, sapere tutto ciò che dicono, e ciò che pensano i personaggi. Mi piace ovviamente per il risultato finale di saperne più di tutti, ma di essere comunque tesa a ogni pagina, a ogni svolta, perché non so come andrà a finire.

Gli sguardi, dunque, che dipendono naturalmente dalle voci. In Giacobino il gioco dello sguardo è esplicito fin dal titolo: è la figlia che racconta, ma il titolo parla di uno “tuo” sguardo, che capiamo essere della madre. Perché in effetti, forse, è proprio quello sguardo lì, della donna-madre, aver creato lo sguardo della figlia. E in questo doppio passaggio si trova di nuovo, per coerenza, lo stesso gioco a due delle voci. L’ho trovato affascinante, molto intimo, anche in questo caso in perfetta coerenza con l’intento del romanzo, quello cioè di esplorare non la madre, ma il rapporto della figlia con la madre.

E nella Oggero, sempre in coerenza con le voci, gli sguardi si moltiplicano a dare conto di realtà differenti. Sulla diversa percezione della realtà, delle beffe del destino e delle sue curve amare, dei segreti di una vita e dei non detti, è del resto incentrato tutto il romanzo. È un tema che mi ha ricordato lo spunto di un altro romanzo della Oggero, Qualcosa da tenere per sé. Perché l’autrice è maestra dell’entrare nella testa dei personaggi e recuperare tutto quel mondo che non si vede, eppure noi che leggiamo sappiamo benissimo esserci. La Oggero è maestra di lettura umana, per questo, io credo, restituisce la complessità degli sguardi dei personaggi in questi quadri così ricchi e inaspettati.

Due romanzi, una sola Torino, o forse tante

Se proprio volessimo unire questi due romanzi che, lo ripeto ancora, ho letto casualmente in modo ravvicinato senza che avessero nulla in comune, potremmo dire che sono entrambi delle esplorazioni. Giacobino esplora la madre nel rapporto con sé, e sé nel rapporto con la madre: è una storia vissuta, legata a ciò che è stato. Oggero invece mette in piedi una commedia molto pirandelliana dove tanti personaggi si presentano sulla scena ma hanno un doppio più ombroso che possiamo scoprire e attiva nuovi percorsi, le storie “dei se”.

Tutto questo, però, in un unico luogo, compresi i dintorni: Torino. Non a caso, ho letto questi due romanzi andando e tornando da Torino dopo mesi che non mi spostavo, vista la pandemia. E forse questo viaggio ha fatto la sua parte, riportandomi a luoghi e suggestioni di luoghi che ho vissuto e studiato a lungo. In una parola: mi è venuta un po’ di nostalgia. Di quelle case di Giacobino, che parla di traslochi e nuove vite in centro città, di quella via dove la protagonista di Oggero aspetta il tram che sarà fatale.

C’è il Piemonte più rurale negli anni del boom economico che racconta Giacobino, i mercati, i caseggiati, le vacanze al mare, tipicamente. E c’è invece una Torino più borghese nel romanzo della Oggero, sebbene si intravedano angoli di città più periferica, personaggi in ascesa sociale, in quel tipico movimento che si ritrova pressoché in tutti i libri torinesi di questa autrice, e che io stessa mi sono divertita a rintracciare nei percorsi di Torino di carta. Unica eccezione a questo mondo torinese, Chamois, un paese valdostano molto particolare, perché ci si arriva solo in funivia, ed è quindi un posto perfetto dove isolare dei personaggi e far scattare qualche congegno narrativo che porterà inevitabili cambiamenti. Avevo spesso pensato a questo posto come set narrativo, ed ecco che con Il gioco delle ultime volte Margherita Oggero mi ha preceduta costruendo tra la brulicante Torino e questa baita sperduta tra la neve una storia davvero intrigante. Potere delle ambientazioni, o forse solo delle suggestioni. Ma si sa che quando la geografia letteraria si fa geografia emotiva, qualche interferenza si fa sentire, e la lettura diventa un’attività squisitamente personale, come questa pagina di blog.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!