«Ti abbraccerò come so fare, anche se solo nel mio cuore, dove non ci separeremo mai. Aspettami fino al momento in cui tutto sarà diverso e ci rincontreremo dove sai»: è quasi mezzanotte, quella che decreterà lo scadere del giorno cinquanta della quarantena, roba che a dirlo suona male, perché è una frase impossibile. Ma insomma sì, sono passati cinquanta giorni, il doppio dei venticinque iniziali, e su Radio Montecarlo passa Tu io e domani, un brano creato per beneficenza con alcuni jazzisti che amo. Lo ascolto – bellissimo, emozionante – e mi viene in mente che oggi è il 27 aprile, nell’altra vita ora sarei al Teatro Regio proprio ad ascoltare Bosso, dal vivo, non in radio. Ma l’altra vita è sempre più lontana, distante, remota, persa in una nebbia dove il passato si confonde, non ha più senso, è stato altro e non tornerà.

Oggi è il giorno cinquanta e tutti parlano del decreto di Conte di ieri sera, quello che ha annunciato alcune misure in vista del 4 maggio, la data in cui questa cosa inizierà a finire, la data, la prima, in cui non scriverò più il diario, perché tutto deve avere una fine, e ho deciso che dopo cinquantacinque giorni – tanti saranno – l’esplorazione nei miei abissi, anfratti e pensieri, dai più scontati alle suggestioni letterarie e musicali, può finire. Chiaro, sì, mi dispiacerà: questa contrainte mi ha tenuto compagnia mentre tutto cambiava, era ancora inverno, avevo il cappotto, uscire sotto ai portici era ancora un’azione percepita come normale, mentre ora si sta quasi in mezze maniche, conosco solo la routine di casa, non mi ricordo più come si abbraccia la gente e nel frattempo non faccio più quello che facevo quando ho iniziato a scrivere, non sono più quella che ero.

All’inizio di questa scrittura progressiva mi ero stabilita una lista di temi che avrei voluto affrontare giorno dopo giorno sotto la spinta delle urgenze che sentivo, che andavano stringendosi sul mio e sul nostro cielo. Tra queste tante le ho sfiorate – l’angoscia, le amicizie lontane, la nonna anziana da tutelare, il lavoro -, ma ce n’è una che non è mai stata menzionata. Ci ha pensato Giuseppe Conte ieri sera durante la conferenza stampa, quando ha parlato di congiunti. Ci hanno pensato i messaggi di un amico tra l’indispettito e l’esausto. Messaggi che hanno invaso i social da stamane in avanti, e giù di meme: perché nei congiunti ci sono o no i fidanzati, ovvero chi sta insieme e non è sposato? L’interrogativo mi gravita intorno anche se io sono nella categoria single: una classe privilegiata in questa fase storica, così si direbbe almeno da fuori, facendo un calcolo razionale.

All’inizio della quarantena ho pensato a delle idee narrative per raccontare la vita di chi, pur stando insieme, si era trovato all’improvviso separato. Ho diversi amici in questa situazione, alcuni dovevano addirittura sposarsi, e all’inizio di questa situazione nessuno di noi avrebbe mai immaginato che sarebbe saltato tutto a mesi dopo. Ho pensato a chi conviveva da relativamente poco, placcato tra le mura, lontano dal proprio mondo. Una prova notevole: non so se ce l’avrei fatta, e sicuramente se mi ci fossi trovata ne sarei uscita diversa da come ero all’inizio, una circostanza detestabile per me che odio i cambiamenti. Ho pensato a chi non poteva vedersi, pur sapendo che l’altro è dietro il telefono, ma lontano metri o chilometri, comunque irraggiungibile. Anche in questa circostanza non so come avrei reagito: la mancanza fisica è struggente, l’ho conosciuta tempo fa, ma qui è diverso, qui c’è l’ansia, e soprattutto non si vede la fine.

Poi c’era un caso abbastanza affine al mio, anche se romanzato: un nocciolo di storia, solo immaginato, insediatosi nei pensieri una settimana prima della quarantena. Un fine settimana per tentare di farsi avanti quel poco, timidamente, ricevere un sì, poi un no, restarci male, pensare che vabbè dai, sabato prossimo magari, anzi no, anzi basta, non era aria, non era cosa, sono la solita illusa, che stufa, basta, basta, non ci devo più pensare. Effetto shock: tempo una settimana, forse nemmeno, ed era tutto superato. Nessuna necessità di agitarsi per un’eventuale uscita, perché l’uscita non ci sarebbe stata. L’anelito, il pensiero, l’immaginazione, una sensazione fisica così distinta e nitida raccolta ai primi di febbraio e già priva di significato, svuotata, insensibile. I dubbi e tentennamenti diventati cubo di marmo con cui sigillare la voragine del cuore. Fine, tutti a casa, doveva andare così.

I pensieri agli amori passati: ci sono stati. Molto, molto labili, non dettati da solitudine ma da voglia di condividere. Li ho sconfitti in gran velocità e senza troppi sforzi, percependo una sensazione che resta ancora oggi, e cioè che sono davvero parte del passato, non mi danno fastidio, non mi causano rancore, in parole schiette, non mi interessano più. Perché nel frattempo, vuoi lo scorrere di anni e persone, vuoi questa improvvisa accelerazione dell’autoriflessione e il guardarsi dentro ogni giorno, il balzo avanti è stato notevole, ha preso coscienza di tutte le cose che non andavano dentro, e ha smesso di cercare fuori.

Due crisi molto grosse in questo tempo di quarantena. La prima quasi all’inizio, si trascinava da febbraio e ha trovato nella quarantena una palude in cui affogare. C’erano dentro solitudini e amori impossibili e solo immaginati, c’erano dentro gli affetti delle amicizie, ed erano la parte prevalente, bruciavano da far piangere. Mi ha lanciato una fune uno dei suddetti affetti. Affetti stabili: i congiunti li hanno definiti anche così. E se gli amici siano congiunti o no, chi lo sa, non sarà mai definito per legge. Enrico Mentana oggi ha parlato di un “registro degli affetti”: un titolo perfetto, la conta impossibile, matematica, di quello che per sua natura è tutto fuorché logico e afferrabile, e inscrivibile dentro un registro.

Ecco, però un registro degli affetti si è andato disegnando lo stesso in questa mia quarantena. Dentro ci sono i “congiunti”, quelli di sangue, anche perché mai come adesso li ho frequentati così intensamente, ci sono gli amici di sempre, le basi, quelli delle facce sceme in videochat invece di vestirsi fintamente bene. Ci sono volti nuovi da cui arrivano chiacchiere e parole carismatiche, e mi danno la carica, e mi fanno pensare al futuro. Poi c’è l’attore, perché mai come in questa fase c’è stato, mai come adesso abbiamo parlato, senza mai telefonarci, forse per non frantumare un equilibrio, forse perché siamo maschere, e va bene così. Va bene perché funziona, per sentirmi a posto, per liberarmi da un incantesimo cattivo, permettermi di uscire dalla crisi, smettere di guardare i cocci intorno e concentrarmi su di me senza il piombo del giudizio che incombe sopra.

Poi c’è una voce lontanissima, di cui non ho potuto alzare il volume perché ho perso la frequenza, e non l’ho ancora ritrovata, chissà se torna, o se dovrò cambiare radio. E c’è chi scrive, non ha mai smesso e nella mia vita da quarantena c’è stato comunque, condividendo un sacco di scemenze, ma intanto. Il mio registro degli affetti è piccolino, ma me lo tengo stretto, perché delle risate ho bisogno, delle canzoni scambiate in un messaggio di notte, delle lezioni di vita mentre piango, di tutti gli abbracci che nessuno ha mai mandato perché nella mia grammatica non ci sono, anche se ne ho desiderato a palate e li uso come immagine confortevole per addormentarmi.

la seconda crisi, non me la sono dimenticata: la seconda crisi parte da me e da me sola, e stravolge solo me, nella solitudine che ormai ho arredato per bene e imparato a conoscere. La rispetto, con deferenza la abito, ne conosco le ferite, sto attenta a non caderci perché sono burroni, se ci si precipita dentro poi salire, dopo essersi schiantati, è durissima, costa sangue. La tentazione di andare a esplorare queste falesie è cresciuta, in questo periodo di relativa calma, perché la solitudine è stata adamantina, nessuno l’ha turbata, niente ha cercato di perforarne la cortina. Io e me stessa, distanza sociale come parabordo per riparare dalle asperità del mondo, basta ferite, basta tensioni, basta stress: non succede niente, non si spera in niente. La sensazione di vivere dentro una  nicchia, una tana sicura mentre fuori impazza il virus, mentre si agitano le correnti che nascono dentro quei burroni. Li ricaccio, li ricaccio indietro. Finisce che si presentano nei sogni. Finisce che dormo male, che al mattino ho ombre in testa che hanno tutte visi noti, fantasmi che non riesco più ad abbracciare. Tra il sonno e la veglia vado indietro e riprendo quel momento, quello là, quello che era un caposaldo di tutto: non riesco a ricordarlo più, non è più vivo, quell’abbraccio non vibra più. E io mi sento un po’ più povera, un po’ più triste, un po’ meno fragile, forse, ma sempre più chiusa dentro al fortino.

L’amore in quarantena non è una faccenda che mi riguarda: là fuori non c’è nessuno che aspetta, nessuno che arriverà con un cavallo bianco, immagine dolcissima che ha utilizzato un’amica. E a dire il vero sarebbe comodo, se ci fosse, sarebbe una molla, un sorriso quando ti svegli invece del pugno d’ansia, una promessa, un alzare gli occhi e incontrare uno specchio dove ti senti a casa. Invece a casa ci sto da sola, con il mio carico di ansie, con le mie clessidre di sabbia che segnano il tempo buttato, con i volti del passato che diventano nebbia, con le consapevolezze che ho scolpito in questi cinquanta giorni, e che oggi sono probabilmente pronte ad accettare i consigli di chi sa come curare le voragini. È come quando si fanno i biscotti: pasta stesa, formina, prelevato il cuore di biscotti che cuocerà in forno, nella pasta resta solo un buco. Tutta questa storia, tra l’altro, ha anche a che fare con una crostata alla marmellata di lamponi che alla fine, dopo cinquanta giorni di quarantena, non mi sono mai decisa a fare.

In realtà alla fine di tutto questo è la canzone che colgo alla radio nel tardo pomeriggio a farmi riflettere sulla pagina di diario di oggi: I’m mad about you, Sting:

A stone’s throw from Jerusalem
I walked a lonely mile in the moonlight
And though a million stars were shining
My heart was lost on a distant planet
That whirls around the April moon
Whirling in an arc of sadness

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!