È il giorno 51 della quarantena, è un martedì e piove. Scrosci d’acqua, li sento dal letto, mi sveglio e in una luce che non è invernale la sensazione è comunque quella di un inverno, una mattinata pigra in cui magari godersi casa, un tè caldo, una coperta e un libro. Ma non è questo il contesto: la casa inizia a pressare addosso, pressa il mondo esterno, in uno sforzo di decifrazione che è personale e collettivo. La tisana calda c’è, per fortuna, ed è una bella sorpresa con la mia firma su QCodeMag.

Prendo il libro con l’intenzione di ricreare una situazione di rilassamento, ma non ci riesco: i file aperti sono ancora troppi, andrebbero chiuso uno dopo l’altro per liberare spazio di libertà. Inizio lentamente, confusa. Poi la svolta: la cerimonia per il varo dell’ultimo troncone del nuovo ponte di Genova. La trasmette in diretta il canale locale, e mentre guardo la tv ne discuto con gli amici in chat. Gli amici di casa, quelli che si ricordano vibrante di quel 14 agosto che il Morando crollò. Impossibile suturare la ferita, eppure le istituzioni, che peraltro sono sotto al ponte in palese assembramento, parlano di rammento e di sutura di una ferita. E sì che la portata simbolica è grande, suonano le sirene del porto, e fa sempre i brividi, sventola la bandiera di San Giorgio, casualmente suonano anche le campane perché è mezzogiorno. Sì, sì che idealmente i due lembi della Val Polcevera sono uniti, ma quel giorno pioveva, quel giorno è morta della gente a causa della fatalità, forse, ma soprattutto dell’incuria di tanti. Gli stessi che non hanno preso in considerazione il ponte sul magra, crollato qualche giorno fa. Mi domando come si faccia a parlare di creatività, di rinascita.

Me lo domando e intanto si scatena un putiferio verbale che mi scuote forte, al quale cerco di tenere mano, quella cosa che di solito non mi riesce, quella cosa per cui preferisco annuire anche se penso il contrario. Invece oggi dico quello che penso, cerco di farlo senza sbordare. Mi sembra di gettare un ponte, sarà questa la parola di oggi, un ponte tra i frammenti di me prima di questa quarantena e quella che potrei essere dopo. E sebbene non abbia affatto una soluzione, né tanto meno un’idea solida di quello che potrei trovare attraversata la valle – la ferita – sul ponte ci sto, con tutte le consapevolezze tragiche, ciniche e tristi del caso. Ma ci sto.

Oggi vorrei effettivamente darmi forza, e ce la metto tutta, che si tratti di decidere di prendere una o l’altra strada del bivio. La tentazione dell’uscita facile è fortissima, anche se in ogni caso sì, facile, mi dico, ma mica tanto: è la strada dell’orizzonte aperto, della libertà, quella senza nemmeno un vincolo. Sarei capace? Sarei in grado? Pillole di arte mi accendono i pensieri, caricano la volontà. Pensieri che vanno oltre, che attraversano questo ponte difficile dopo essere partiti da radici che ieri erano già vive, seppure silenti.

Finisco un piccolo progetto in bozza, vorrei fare altro ma c’è bisogno di sfogo e allora scrivo una lettera, ci metto – spero e credo di farlo – i pensieri autentici. Sono molto neri, ma li percepisco anche molto forti. Mi sembra di sapere dove potrebbe arrivare il ponte, e decidere l’approdo spetta a me. Aspettare, valutare. Non lo so, confesso di trovarmi proprio lì nel mezzo, a galleggiare. Stanca, di meccanismi che si ripetono uguali e che mi avvisano che no, non è davvero cambiato niente rispetto a prima, e questo fantasma della nuova normalità è per l’appunto un’ombra.

Ci vuole forza, non so se ce l’ho. Quello che percepisco è una comprensione maggiore delle mie leve, della loro sensibilità. Mi sono chiarita, forse. Anche nelle cose che non vanno, anche nelle urgenze da risolvere. Quindi cerco di rendere il tempo dolce: anniento lo stress. Impasto il pane con una ricetta che mi passa un amico, lo coccolo, e forse si vede perché non è niente male.

Resto sul ponte, con tanti tanti dubbi, con una visione che nel suo essere poco festante e ottimista è però vera, reale, concreta, così tanto da potermi permettere delle evasioni, perché conosco il pavimento, so dove cadrò, perché sono sempre stata qui, e adesso, anzi, esploro anche quello che c’è sotto. Per non avere più paura di attraversare quel ponte, anche se dietro, esattamente come a Genova, ci sono cose brutte che mai avrebbero dovuto essere.

Voglio sperare che il ponte tenga, quindi alleggerisco il tono, Dance into the light, Phil Collins

Hand in hand we will lay the tracks
Because the train is coming to carry you home
Come dance with me
Come on and dance into the light oh oh
Everybody dance into the light

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!