Oggi è il 3 maggio, domenica, l’ultimo giorno di quarantena, l’ultimo giorno del diario di quei famosi iniziali 25 giorni a casa che facevano paura per quanto sembravano lunghi. Ho deciso che sarà così, e così sarà, anche se sono sincera, dopo 56 giorni che mi do da fare e scrivo quotidianamente, un po’ mi mancherà questa costrizione, questa contrainte. Oggi non potrebbe che essere questa la parola: lo so fin dall’inizio, ci ragiono da quasi due mesi. E dunque: 56 giorni di contrainte, siamo giunti al termine. Come è andato il viaggio?
Oggi inizia già alla mezzanotte di ieri: mi trova che scrivo, creo storie, attribuisco parole e invento dialoghi. E sto molto bene, anche se faccio le 3 di notte e sta mattina è faticoso. Ma sta mattina sto sempre così bene che scrivo un’altra cosa che meditavo da settimane – sì, settimane – e che mi esce dalle dita, come previsto, in una forma certo affatto simile a quella che avevo immaginato, ma forse ancora meglio, forse ancora più sincera, perché si porta dietro tutto quello che è successo da quel giorno di marzo a oggi.
Lo so che non finirà così, che la fase due non è il ritorno della vita di prima. Una delle cose che ho imparato da tutto questo è che non sarà certo più come prima, quella realtà è bella che andata, bisogna guardare oltre. E io da qui l’oltre non lo vedo ancora, ma un po’ di tutti quei mostri che sono finiti su queste pagine li ho messi a cuccia, almeno per adesso, almeno finché ci sarà il sole di maggio che è già diverso dalla dolcezza di aprile, che oggi sì, davvero, è un invito all’estate, alle mezze maniche, alla pelle al sole e a tutto quanto. Che è successo e come ho fatto a cambiare umore così? Non lo so: sarà la fine della costrizione, sarà che come in tutte le costrizioni anche qui ha finito per generarsi del potenziale: la capacità di far stare cose nuove anche dentro una gabbia, di sforzarsi da matti, e poi eccola lì la soluzione.
A dire il vero io una soluzione non ce l’ho, ma per dare una morale alla pagina conclusiva di questo diario – sì, lo confesso, riporterò tutto su word per rendermi conto di quante pagine ho scritto, e credo che saranno parecchie, se un giornale avesse ospitato i miei sparli ora avrei una discreta collezione di ritagli – scriverò che ho un paio di consigli da dare alla me stessa che leggerà, chissà quando. Il primo è di tornare a camminare, sempre. Il secondo è di continuare a scrivere, perché è l’unica cosa che è andata avanti e sempre, nonostante tutto. Nonostante i giorni di paura e angoscia, i rifiuti, la miopia e ansia da futuro, nonostante la nonna che stava male, la tensione in casa, la tensione dentro di me, i sensi di colpa, i fallimenti, quelle cose nere e brutte che mi infestano, nonostante il lavoro, che c’è ma che potrebbe non esserci. Questa quarantena me l’ha dimostrato, e ha ribaltato tutto e tutto ha fatto risalire a galla, incluse palate di pungoli e fastidi e domande.
Le domande, quelle sì, quelle sono state tante e inarrestabili, lungo questa catena di 56 giorni iniziata col cappotto e finita a mezze maniche. In mezzo calendari saltati, pizze fatte in casa, concerti annullati, pancake, crostate, lieviti, impegni, agende, appuntamenti e semplici serate con gli amici scomparse dall’orizzonte, ho installato Zoom per la prima volta, e non credo smetterà di essere utile. L’ultimo orizzonte è stato il mare un sabato di marzo che già tutto sembrava vacillare, e i libri, gli amici fedeli, anche se in questa quarantena c’è stato bisogno di un lungo periodo di redenzione prima di tornare a fidarsi reciprocamente.
Cos’ho imparato? Tutto e niente. Potrei dire le solite cose che già sapevo, e dunque sarebbero niente, ma potrei anche dire che qualche nodo ha raggiunto il pettine, ha fatto un male pazzesco ma si è rivelato in tutto il suo intreccio complesso e inestricabile: ora ce l’ho, lo conosco meglio. E allora, in quei casi lì, l’unica è cedere e ammettere che c’è bisogno di aiuto. Ho imparato che la gente cambia, e a volte non fai più parte della loro vita e pazienza, la ferita si sutura se qualcun’altro ti tende la mano. Ho imparato che sti abbracci, mannaggia a me, hanno dignità per stare nel mondo e dirsi, e farsi. Che i rancori bruciano e non servono, che i silenzi possono essere sbrinati e la dolcezza condivisa: la gente non è sorda, anzi. Ho imparato la paura quando corri per le scale e senti che non ce la farai, ma ce la devi fare lo stesso, la discrezione, e a parlare a una telecamera da sola. Ho letto, ho letto tantissimo tra articoli, blog, post, libri e racconti. E ho ricavato tantissima linfa e spunti per le riflessioni di queste pagine, che altrimenti sarebbero state una nenia, una tiritera amorfa che batteva sempre sullo stesso scalino, e non saliva e non scendeva.
Invece qui abbiamo fatto le montagne russe tra calma e angoscia, tra sicurezza fiduciosa e lacrime delle più terrorizzate, tra progetti e capitolazioni, tra base solida che mi regge e salti nel vuoto. Una vita intera, e forse è giusto così. Perché aver costretto – eccola, la costrizione – a casa le persone per 56 giorni, chi più chi meno, lascerà probabilmente una cicatrice sulla vita di molti, forse di tutti. Case rifugio che diventano tane creative e talvolta spazi di autocommiserazione e protezione eccessiva, case dove non si è fatto ordine perché c’era troppo disordine fuori, non si è lavorato perché le energie erano esaurite e avevo bisogno di rivitalizzarsi. Valige sparite, armadi perfetti, pronti alla primavera, scrivanie sgombre, pile di libri. Quelle sì, ci sono sempre, in qualsiasi vita io scelga o non scelga di finire.
Ho imparato a stare a casa, a sentirmi un po’ più parte di una comunità che sentivo distante, che non capivo del tutto. Ho visto i sigilli alla Spianata e sono stati uno schiaffo, sono due mesi che non passo sotto i portici e in piazza Dante e mi manca come l’aria. Mi è mancato il mare, anche se era qui dietro, e la casa sui tetti di Torino dove le mele sono lì che attendono da febbraio, e lo stendino, e il latte in frigo e i libri di Nico Orengo sul comodino sono lontanissimi, oltre ogni aspettativa. È stata messa in dubbio la scenografia sulla quale si muoveva la mia vita, futuri essiccati, percorsi precipitati nel vuoto. Nuova energia da coltivare e tirare fuori. Sono serviti 56 giorni.
Adesso che c’è una data di scadenza, che la mezzanotte del 4 maggio si avvicina, si fa tutto più chiaro: si vede il cielo dopo tutte queste nuvole cupe. E lo so che non è finita, ma è solo una metafora per dire che un bel gioco dura poco, e questa casa come un guscio addosso ora è davvero troppo, c’è bisogno di uscire al sole, e fare qualcosa, che sia combattere contro le zanzare tigre o riconquistarsi una vita che si è sgretolata. Non ci credo manco io, ma è bello darsi uno scopo, ora che si potrà tornare a camminare. È importante darsi uno scopo, una meta, una scadenza e tornare a indossare un orologio. Esserci, in piena forza e coscienza, perché intanto le cose marciano come vogliono, e bisogna dare una mano: con la casa, con la nonna, con tutto quanto.
Essenzialmente ho imparato che ci si esaurisce, ma che se poi si cambia scopo per tornare a vivere va bene lo stesso, basta stare bene, dirsi le cose come stanno, alle balle non ci credevo nemmeno prima, e adesso proprio non le reggerei. Ho imparato che ho un sacco di idee, e dovrei ascoltarle di più, che non so niente di marketing, e potrei colmare la lacuna, che non si smette mai di imparare, e a questa cosa mi ci devo rassegnare e tornare in giostra. Che un amico se è sincero e ti vuole bene te ne accorgi dai messaggi notturni che ti manda, e se è fuori sincrono te ne accorgi dalle videochat che non ti proporrà mai di fare. Ho imparato che un po’ di orgoglio serve, sennò ti schiacciano, che il lievito va curato per benino, anche se poi, se stai attento, un paio di volte riesci a salvarlo. La natura, quella l’ho imparata una seconda, una terza, una quarta volta e sempre, con una zappetta in mano, l’odore della terra e radici che chiedevano libertà, con le rane a gracidare nelle sere di aprile e i gabbiani a fingersi segnavento romantici. Ho imparato una strada nuova di fianco a casa, a volere bene ai vicini, anche a quelli più odiosi, perché dietro ciascuno c’è una storia da raccontare.
Insomma, ho imparato che in qualche modo, da questa assurda onda impattante da cui usciremo tutti impoveriti nell’anima, nello spirito e nel portafoglio, c’era da scrivere la storia di come si fa a volersi bene a 33 anni, con una carriera sprofondata nel precariato, una nonna di 93 anni che si fa trascinare a terra dai mostri degli attacchi di panico, un esaurimento nervoso in anticamera, una casa abbandonata con un pezzetto di cuore dentro e svariate macerie di sogni alle spalle. Questra contrainte non andrà vana: ho scritto per 56 giorni di fila di un anno bisestile con una pandemia in corso. Ogni giorno una parola, una foto, una canzone. Valanghe di pensieri a volte rampanti e freschi, altre più indolenziti ma pur sempre pronti a marcare lo spazio bianco e affermare la presenza. Giorno dopo giorno, paginata dopo paginata. Sono uscite frasi scontate, pensieri retorici, giri di metafore inediti, attorcigliamenti e nessi nuovi. Ferma non sono mai stata, in mezzo a tutte queste parole da pensare.
E però se guardo lassù, tra i palazzi, le viti, i rami d’ulivo, tra le nuvole scure, la malattia, le ambulanze sotto casa, se mi ci perdo, a osservare quell’azzurro che ha cambiato tutte le sue sfumature mentre la candela profumata comprata il primo giorno di quarantena si consumava, e mi teneva compagnia, ecco, se guardo su io penso che ho voglia di uscire al sole, risentirmi parte del mondo, risentirmi in grado di fare cose. Nonostante tutto, nonostante tutte le costrizioni del caso. Un angolino c’è sempre, un angolino coltivato e curato, come con il lievito, come con l’orto. Le piccole cose che contano, sempre.

Questa canzone l’ho riascoltata in radio l’altro giorno – ah, e ho anche re-imparato che la radio è bella, se per 56 giorni in quarantena passi ore e ore tra Radio2 e Radio Montecarlo e i conduttori e i programmi diventano pezzetti del tuo quotidiano: se mi leggete, voi dell’etere, grazie! -, ho pensato che fosse perfetta per l’ultima pagina di diario, e allora eccola, The korgis, Everybody’s Got lo learn sometime:

Change your heart
Look around you
Change your heart
It will astound you
I need your loving
Like the sunshine
And everybody’s gotta learn sometime

Leggi tutte le giornate del mio diario di quarantena: 25 giorni a casa.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!