Ho le occhiaie, e non si tolgono. Al giorno numero 54 della quarantena, Primo Maggio di festa del lavoro quando, a conti fatti, il lavoro è l’incognita maggiore in questo momento in tutto il Paese, constato l’incisione delle borse scure sotto i miei occhi. Lo sfinimento. Lì dentro, in quelle due fosse che non si tolgono nemmeno truccando gli occhi, c’è tutta la stanca frustrazione di questo periodo, chiamiamolo così, anche se sono due mesi, e più. Ci sono dentro le preoccupazioni stratificate come la panna e il cioccolato di una viennetta, le ambizioni liberate e frustrate, le nuove costrizioni, e le paure, le psicosi amplificate, le mancanze, i baratri, le ripartenze di ogni singola giornata, le pagine lette di notte, quelle scritte, quelle cancellate perché in fondo non erano venute granché bene.

Nella mattina del Primo Maggio, giornata grigia di una primavera statica, terzo mese attraversato dalla pandemia, mi metto a scrivere. Il diario, il post su aprile. Perché sì, aprile è stato un proiettile che spara, entra, esce, e poi lascia il buco. Adesso siamo a maggio, non c’è più niente di quello che c’era prima, e io ho paura di ricominciare. Ho paura perché già prima era tutto vacillante, e ho fastidio per il dovermi ancora ripensare, io che non mi sono mai perfettamente pensata, oppure forse sì, ma ho rimosso il disegno perché faceva paura. Mi gira in testa, e mi punzecchia disturbando la quiete e la lucidità di pensiero, una provocazione di ieri notte, serata psicologica via messaggio con un amico. Come dovrei sforzarmi di essere. Come potrei in fondo essere, se solo ci mettessi dell’impegno. Preferisco la pigrizia della mia frustrazione, la stasi del mio esaurimento. In attesa di segni esterni, in attesa che il sole riesca e mi convinca che ce la posso fare, che è normale, che non è una catena di sbagli dentro cui sbatto come una mosca sul vetro.

Intanto, oggi è il Primo Maggio e alle 12.00 in punto suonano le sirene delle navi nei porti di tutto il mondo. Non le sento: c’è la centrifuga della lavatrice, ma la mia amica mi scrive che si sono sentite anch qui. È la protesta dei marittimi per questi due mesi di lockdown che hanno rivoluzionato il mondo e il modo di vivere della gente, e logicamente anche i trasporti via mare. Ancora le sirene del porto di Genova, una voce che racconta al mondo. A me viene in mente la voce di Adriano Olivetti, come sempre e oggi di più. Ne parlo su Facebook con un’amica, penso che oggi, più che mai, avremmo tutti bisogno di menti illuminate così. E intanto passa alla tv il nuovo spot della campagna secondo me potentissima di Lavazza, che scuote la coscienza. Anche oggi piango un po’: qualcuno ha toccato corde che smuovono: la voce di Chaplin, il pensiero universale per il mondo, volersi bene e non darsi addosso per nessun profitto.

Scaccio l’idea perché ho gli occhi ancora lucidi e devo fare un video. Mi trucco, cerco di sistemarmi, sciolgo i capelli ma ormai quelli bianchi non riesco a nasconderli, e l’immagine che trovo nel video assomiglia alla versione peggiore di me, quella con le occhiaie fisse, i capelli tristi, l’aria stravolta e strapazzata di una che sta in casa da due mesi e non ha alcuna prospettiva di movimento. Mi arrabbio, lo rifaccio infinite volte, non sono affatto soddisfatta, via, basta, pazienza. L’immagine di me mi aiuterebbe un po’ per l’autostima, ma fa proprio schifo oggi, mi ci abbatto insieme in un pomeriggio grigio e piuttosto freddo, sforzandomi di leggere cose che non mi piacciono, e finendo per non proseguire.

Sono stanca, sono irrequieta, non ce la faccio più. A fare che? A fare niente. A stare così, vinta dalle ansie. A ripensare a discorsi che mi facevano male già prima, e che mi arrivano come un temporale non preventivato: agguati dietro l’angolo, quando già avevo pensieri e questi si sommano. Bombe lanciate per lasciarti sola a recuperare macerie. Però oggi Voce del verbo pubblica un mio scritto, e anche se nessuno mi dice “brava”, io un po’ felice sono, perché mi ricorda un pomeriggio e un giro di riflessione, come un giro di basso: lo riconosco, so leggere dietro le parole. È un momento che resterà di questa fase allucinante.

La sera elemosino abbracci, così a caso, perché mi viene da piangere, di nuovo, senza alcun motivo mentre guardo Propaganda e la nostalgia assale. Come sono contraddittoria: la vita di prima mi tormentava l’anima, ero stravolta ed esaurita, e ora mi lamento, mi lamento ancora. Ma il mio amico roccia non molla la presa: mi ripara, mi tiene.

Ho capito che non sono solo io. È proprio che uno non ce la fa più. Leggo un post di un’amica, «Piango. Spesso. Per sciocchezze. Ogni volta è come un piccolo temporale. Una melodia tradizionale? Un articolo di giornale? Una canzone nuova, appena uscita? Un bacio in un film? Due righe sulla pagina che sto leggendo? Scoppio in lacrime. Leggo poco, sicuramente meno di quel che potrei. Mi spaventano le cattive notizie. Ho una lista di libri che vorrei comprare quando potrò raggiungere una libreria […]. In compenso scrivo parecchio. Insomma, non in senso assoluto, ma per i miei standard sì, è parecchio». Sembro un po’ io, il che mi rassicura dentro le mie occhiaie che diventeranno la parola di oggi, l’inspiegabile segno di tutto quello che non va, degli errori che produco da me, della necessità di farsi aiutare da qualcuno perché la misura è colma e io da sola le forze non le trovo più.

«Ho una voglia matta di parlare, ma non so cosa dire. Ho una voglia ancora più grande di sentire gli altri raccontare. Qualcosa, qualsiasi cosa. Aneddoti, storie» scrive la mia amica, alla quale mando un abbraccio, che se fosse vero mi metterei forse a piangere, perché sono a pezzettini, non reggo più niente. Per questo mi sconquassa trovare la nonna nel caos, che non sta in piedi e si confonde e non sa più che giorno è né che ora è. È in casa da oltre due mesi, come il pesce rosso nella boccia. A 93 anni tutto questo deve sembrare un incubo offuscato: l’udito che va via, la vista che regredisce, tanto da non riuscire a digitare i numeri sul telefono. Ci prova tre volte, con me che l’aiuto, ma non ci riesce, e mi assale l’angoscia perché – penso -, se ha bisogno non ci può chiamare. Bisogna risolvere questa cosa, subito.

Sistemiamo i materassi, rifacciamo il letto, puliamo la cucina. Le creiamo una confusione inedita per ridestarla un po’ dal torpore di stare sempre a letto. È per questo che non si regge in piedi. La facciamo andare avanti e indietro, fare le scale, piano piano, aggrappandosi a schienali di sedie e maniglie, con il bastone che non sa usare, e invece di appoggiarlo per darsi un puntello lo tiene su, non capiamo perché. Parla da sola, la sentiamo oltre la porta prima di entrare, noi tre che siamo clandestini e usciti dalla macchina in una piazza desolatamente vuota nel tramonto di venerdì 1 maggio 2020 ci sciogliamo e procediamo staccati, in fila indiana, come se non ci conoscessimo. C’è il mare a un palmo, ci sono le persiane verdi dei caruggi, le case antiche che mi ricordano scorci di Genova e Palermo, mi batte il cuore, mi commuovo un po’, ma sono i giochi della luce, l’odore di mare che si sente, il pensiero che le cose non cambiano, siamo noi a cambiare. Nella stasi di questa serata irreale, una delle ultime forse, penso che ho paura che ricominci tutto come prima: ho paura di non rivedere più la piazza così, gli scorci rapidi della mia città che assaporo da due mesi, e che si sono ridotti a un paio, sempre loro, senza la possibilità di fare un passo oltre.

Le pastiglie, le gocce, il bicchiere, lavati le mani, la torcia per vedere da vicino, la camicia da notte, ma anche se è pesante? Nonna è confusa, persa nel suo mondo di ansie e medicine e malesseri e mancanza di prospettive. La guardo da dietro pronta a prenderla al volo se si imbatte mentre procede a tentoni verso la camera. Mi sembra fragilissima: lo è. Percepisco la mancanza di forze e insieme la volontà di farcela. Si aggrappa con volontà al corrimano della scala ma al contempo si lascia cadere sul letto. Cosa la aspetta, in questo futuro pandemico che ci ha stravolti? Vorrei piangere, perché ho i sensi pronti a ricevere tutto ma non sono materialmente in grado di fare nulla. Osservo, mi preoccupo, mi predispongo a ogni forma di ansia e commozione, ma nemmeno penso di lavare i piatti che nonna ha lasciato distrattamente nel lavello. Mia madre la sgrida, come i bambini. «Ma è sola da due mesi, e non mette il naso fuori da due mesi!» reagisco io. «Sbarelliamo noi, ti immagini lei?».

Intanto è arrivato maggio. Scrivo alla mia amica in dolce attesa, come stai? Ricordavo la data fosse metà mese, invece è quasi adesso, arriva presto, e immaginarla con un pancione che non ho mai visto mi strappa un sorriso, è una pagina nuova che la vedrà coraggiosamente protagonista. Tifo per lei, per la sua bellezza, mentre io continuo a osservare e soppesare tutte queste emozioni che mi stravolgono e la sera, così senza motivo, mi fanno sperare che il mio amico mi risponda presto, che è urgente, mi serve un abbraccio.

Una novità, in mezzo a tanta musica: Una parola differente, Alex Britti
Com’è possibile che in mezzo a tanta gente
Ti guardo e tu mi chiedi “come stai?”
Ci rincorriamo molto spesso nelle storie
Ma non parliamo mai
Diciamo sempre lascia stare
Ci nascondiamo nei vorrei
Andare via, mollare tutto
Ma poi…

Leggi tutte le giornate del mio diario di quarantena: 25 giorni a casa.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!