Sta finendo la giornata numero 48 della quarantena – un vero quarantotto, non c’è che dire -, e sono qui a scrivere il diario mentre uno dei miei migliori amici legge in diretta Instagram un racconto di Beppe Fenoglio tratto da Le ventitré giornate di Alba. Oggi è il 25 aprile, e la Festa della Liberazione ha colorato tutta la giornata. Per fortuna: che bellezza! Ho ritrovato il tricolore in via Amendola che fotografai il 21 marzo, guardando stranita la via deserta dove sarebbe dovuta passare la Milano Sanremo, tanti amici mi hanno scritto – ci siamo scritti -, augurandomi buon 25 aprile. Ho pensato tanto a tutti. Ho fotografato un cartello stranissimo, realizzato come un art attack, un cabaret di pasticceria dorato con dei pizzini attaccati con lo scotch rosso. W l’Italia libera, w il 25 aprile, e per chi sa il dialetto, w pure il PML, Pan Mussa e Libertà. Mi è venuto un sacco da ridere per strada: c’era così tanto di questo posto, e c’era così tanto assurdo in questo giardinetto triangolare che osservo da anni, e che un po’ invidio: è un locus amoenus, per lo meno nella mia testa.

È un tempo strano anche oggi, un tempo che cerco di imprimere nello sguardo, giù dalla curva della mia via, perché penso che tra poco non sarà più – si spera – così. Ma dovrò testimoniare di averlo visto, di esserci stata dentro. Io con la mascherina che non mi sta perché l’orecchio sinistro si piega, e l’ho scoperto solo a 33 anni. Io che guardo la gente stranita perché ho il muso coperto e mi sembra una roba folle, mi dico ancora oggi, al giorno 48, che sta roba non è possibile. Ho capito che non ho integrato, che non è stato digerito niente, che non va. Capirlo è già qualcosa, il primo passo, no? Osservo, saluto qualcuno per strada, sono impacciata, bardata con guanti e mascherina, non li sopporto.

Però per fortuna posso andare al supermercato e distrarmi quell’attimo, osservare la gente, svagare i pensieri che negli ultimi due giorni sono stati della peggior specie. Devo resistere, oggi è la giornata della Resistenza, che è un’altra e vuole la maiuscola, ma che sempre ha a che fare con questo rapporto teso tra libertà e costrizione. Il limite, ne parlavo ieri. Vorre mollare tutto ma devo resistere: perché adesso è tutto così, perché ci sono i pasticci da sbrogliare, verrà il tempo per farlo. Resistere perché ho gli amici, e meno male e per fortuna e va benissimo così: sono stati loro a rompere la cortina rigida di ieri. La comprensione, seppure difficile, di mia mamma, che si fa discreta, ma che percepisco.

Il lievito, intanto, è ancora vivo, e attivo: dal 23 marzo, che diventerà una data simbolo, almeno per me, almeno entro questa quarantena folle. Mi sono domandata a cosa stia servendo, se in effetti stia servendo. Se l’è domandato anche Concita De Gregorio su un pezzo a due pagine che leggo su Robinson oggi e che mi strappa quasi le lacrime per quanto si respira dentro una scrittura lavorata, una voce. Con Concita è sempre così, e io vorrei davvero tanto, ma proprio tanto, scrivere in quel modo lì. Perché si sente. Non c’è risposta, al questo sull’ora e sul poi, se non che quel che eravamo resterà, forse più marcato. Ci sono però consigli, e riguardano il tempo e l’importanza dei no, il primo da vivere meglio, da non sciupare, i no da dispensare ogni qualvolta sentiamo dentro uno strappo. È quello che strappo che io conosco bene, quello che mi ha fiaccata, quello che mi ha avvelenata, anche illusa. Dovrò farci più attenzione, dovrò costruire qui intorno. Oggi mi è chiaro, leggendo questo articolo diventa luminoso. Resistenza a quest’ondata del Covid, che tanto è solo una nuova insidia, ma quel che non andava, non andava già prima.

Oggi posso camminare, e di passi oggi ne faccio tanti. Il sabato, nonostante una vaga ansia serpeggiante, mi rilassa per sua natura. Caffè, impasti, la calma, e poi esco, nella bolla di silenzio che ancora mi stordisce, con lo sguardo al mare che è come se lo stessi divorando: il passo rallenta, c’è quell’azzurro con i suoi profumi che per quest’anno ci siamo proprio giocati. Mi sembra tutto così irreale, non mi ricordo altro, la vita prima mi sfugge, non so più com’era, non mi viene più di comportarmi in maniera normale. E me ne accorgo pomeriggio perché un’amica è in campagna, è salita a salutare, senza dispositivi di protezione, come se fosse tutto normale. Sto distante. Percepisco il muro, ma intanto ho la mia ansia e il muro ora lo voglio, anche se dentro c’è un allarme impazzito che mi dice che non è così che deve essere. Spero di ricordarmi com’era, spero di farcela. Per noi sociopatici, come dice Zerocalcare, è tutto più complicato.

Anche oggi arriva un’immagine che racconterà questi tempi nel futuro che non sappiamo ancora disegnare. Perché oggi è pur sempre il 25 aprile e al tg non ci sono solo bollettini, previsioni e cronaca, ma c’è il capo dello Stato, il presidente Mattarella, che da solo, e con la mascherina, si reca all’altare della Patria. E fa impressione, quelle cose da film che ancora una volta il cervello non riesce a integrare, e ti dici no, dai, è una finta, non è così. Dov’è quella piazza piena di traffico che ho visto a dicembre? Dove sono i turisti, dove sono tutti, dov’è Roma? Dove siamo, noi? Io non lo so, non lo so più. Mi lascio trasportare molto passiva dalle cose, e lo so che non va bene, ma non ce la faccio più.

Il diversivo arriva da madre natura: oggi trapiantiamo ortensie, geranei, fucsie. La terra, le radici, le erbacce, i lombrichi. Fare ordine, perché così nonna è contenta. Fare ordine perché le cose vanno avanti, rosse le fragole e piccole le pesche e le albicocche che già ornano i rami. C’è un concerto sorprendente di rane e raganelle, gonfiano il gargarozzo e sembra che stiano masticando big bubble – lo so che è un paragone infantile, ma quando vedo gli animaletti ritorno un po’ bambina – le osservo per minuti, ne conto almeno quattro, faccio anche un video: mi devo ricordare delle rane, mi devo ricordare delle cose belle, della normalità. Devo resistere.

Nonna sta benone, ride pure. Le facciamo fare un po’ di ginnastica per muoversi, su e giù dalle scale. E lei si aggrappa al corrimano e io ho l’ansia perché l’hanno toccato tutti, la invito a lavarsi le mani ma temporeggia, ha già toccato altre cose, e le paranoie sono alle stelle. Stamane le ho comprato i biscotti, è stata la scusa per andare a fare un giro al supermercato e comprare oltre a qualcosa di necessario anche le patatine per fare un aperitivo scemo con gli amici via chat. Ho bisogno di ritrovare cose semplici e normali di prima, sento proprio tanto di averne necessità. Credo che anche questa piccola terapia faccia parte delle pratiche di resistenza. Una resistenza scialba, me ne rendo conto la sera, quando ascolto tutta la lettura di Fenoglio del mio amico e rivivo storie di altre vite, di coraggio che non ho mai avuto, di paura che non ho mai vissuto. Io, che vado in crisi per cose apparentemente più stupide.

È quasi mezzanotte  quando scrivo e ancora non so che libro leggere tra i tanti in arretrato – l’ha scritto anche Concita De Gregorio che chi compra i libri adesso è chi ne ha già a palate ancora da leggere -, ma capito su una citazione di Facebook tratta da La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda, e me ne innamoro all’istante, e so che lo vorrò leggere. So che ha un senso aver premuto il registratore due volte quando nonna ha detto «Il 25 aprile, me lo ricordo», anche se poi si è persa e non ha continuato, so che ha un senso progettare, e sentire, di voler andare a raccogliere racconti partigiani, e ricordare, e scavare, e testimoniare. Palline di piombo passate sono sparite, e meno male, lo dico ad alta voce anche a mia mamma. A cena c’è anche oggi la pizza, mi è uscita buona davvero, ci abbiniamo l’italica birra di Biella e parliamo di partigiani, di storie passate, e io prendo ossigeno, e mi tornano idee, e spero di avere tempo di dar loro vita. Devo resistere, ce la devo fare.

«Io mi muovevo come dovevo, andavo dove mi veniva chiesto, cercavo di capire quel che mi era intorno, di inserirvi i fatti — duri fatti, perlopiù perdite, è caduto Gasparotto, dove li hanno portati, hanno ammazzato Curiel, è mancato un contatto, nell’alto milanese siamo deboli, la rappresaglia per lo sciopero è terribile. Divoravo pezzi del passato fra le due guerre dai pochi libri in circolo o dai compagni, peraltro prudenti. Questa è la tonalità che trovo quando penso a quei due anni. C’era anche dell’altro — non tanto lo studio, facevo esami, era facile, avevo accumulato molto, li passavo con la testa altrove. C’era un amore, il solo che mi fece fantasticare di un dopo che non ci fu, era un amore dei tempi precari, che mi insegnò a non aspettarmi molto. M’è rimasta la vergogna di non aver ballato una sola estate, non aver avuto avuto quel che si dice una giovinezza vera. Che roba è aver quindici anni nel 1939 e ventuno nel 1945? Per questo sono noiosa. E allarmata. Tutto quel che non è successo è perduto, ma tutto quel che è successo può tornare a succedere. Così eravamo incastrati dentro quel tempo crudele e indeciso».

Dal passato, ma nemmeno troppo: la invio a un amico perché è bellissima, e lui lo sa. Anima, Giorgia canta Pino Daniele:
Tutte le volte che io parlo di te
Ho un nodo in gola e io so cos’è
Questa maledetta suggestione
Che ci fa cambiare umore
Che ci maltratta come un cane
Per farci amare
Anima
In questa vita c’è bisogno di più anima
Per sopportare quello che c’è intorno
Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!