Questa mattina mi sono svegliata con due post. Sì, lo so, bisognerebbe svegliarsi senza guardare il telefono, fare colazione senza guardare il telefono, prendersi il proprio tempo. Ma non è mai stato così nella mia vita di pendolare, fuorisede, persona con relazioni distanti e amici sparsi nel mondo, e manco nella mia vita di giornalista, per cui io spengo la sveglia, tolgo la modalità aerea e guardo le notizie. Dicevo. Mi sono svegliata con Valigia Blu che mi ricordava un decalogo sul corretto fare informazione in questi tempi bui, e l’ho condiviso a ‘mo di memorandum. E poi mi è uscito un post di Slow News con un articolo che mi ha colpita tanto, e ho condiviso anche questo, sottolineando una frase: «è anche il momento di bonificare la nostra incapacità empatica».

Il quarto giorno di questo strano periodo collettivo è sicuramente il giorno dell’empatia. Il giorno in cui, rabbia alle spalle, gli amici ti rassicurano, la famiglia ti si stringe intorno, e tu non pensi ai tuoi guai ma ti tiri su le maniche e ti butti senza pensarci in quello che sai fare. La rete è un grande posto: ci incontri amici, persone che, ora te ne rendi conto, più che mai, fanno parte del tuo mondo perché negli anni hai costruito con loro un legame. Sono loro il tuo mondo, sono quelli per cui lavori, e dunque oggi lavori per loro, scrivi delle iniziative che fanno, cerchi di non perderne una, dai voce alla cultura, alla creatività, all’entusiasmo e alle piccole sconfitte.

Soprattutto impari, impari da loro che ci si può rialzare, ci si può riprovare, non si smette mai e poi mai. Perché nessuno è un’isola, nessuno vuole nemmeno che tu lo sia, e questa è una consolazione gigantesca come un mare punteggiato di isole e arcipelaghi da vivere. L’articolo di Slow News puntava i riflettori sulle vite degli altri, e non a caso questa giornata è partita all’insegna degli altri e della relazione con loro. La paura personale, certo, l’ansia per la propria situazione: ma quelle degli altri?

Una mattinata pensata a chattare con il mio amico libraio, con il negozio chiuso e mille casini da risolvere, con il mio amico che in negozio invece ci va, ma che inizia a cedere emotivamente per motivi affettivi. Questione di empatia. Come vivono gli altri questo periodo? Cosa rappresenta per ciascuno di noi, per i miei amici, quelli che popolano di notifiche il mio whatsapp, intasano messenger, mandano allegati via mail?«Farsi queste domande non è un esercizio di empatia sterile e fine a sé stessa. È un modo di pensare che potremmo applicare tutti i giorni» scrive nel pezzo Alberto Puliafito.

Ieri non sono riuscita, causa lavoro infinito, a passare da mia nonna. Sta bene, mi hanno rassicurato i miei che ci vanno quotidianamente, non ti preoccupare. Poi le ristrettezze del nuovo decreto: potrò andarci domani? Dovrò fare l’autocertificazione? Mannaggia a me, dovevo andarci oggi. E invece oggi è già ieri, e oggi è un nuovo giorno in cui all’ora di pranzo suona il telefono e nonna dice “mi sento male”.

Il cuore salta in gola, si afferrano chiavi e cappotto e ci si precipita in macchina. Mia madre mi lascia in mezzo alla strada – deserta – per cercare posteggio, io salgo le scale a due e due trovando la porta aperta. Nonna, 93 anni, è su letto che si lamenta, non sa come stare, non sa cos’ha. Non so cosa fare, il cuore mi martella. Fingo di avere il controllo, respira piano, calma, ti prendo un cuscino? Arrivano tutti ora, stai tranquilla. Cosa ti senti?

Un male senza nome, la tosse nervosa che sconquassa il petto, il petto di mio padre che gestice il fiatone. Il medico arriva pronto, puntuale. Parla la lingua della nonna: il dialetto. Quello della quotidianità, della normalità: la lingua che ci unisce e ci rende parte di una comunità. Pressione, battiti: tutto a posto, sei forte, sei una roccia. «È un attacco di panico» dice piano a mio padre, senza farsi sentire.

Gocce calmanti nel cucchiaio, «devi mangiare!», il batticuore rallenta, la scatola delle medicine, la camomilla sul fuoco, si scioglie il grumo. E questa roccia di 46 chili e 93 anni che ha appena detto di voler morire, e che sia breve, che è arrivato il momento e non ne ha più voglia si mette a raccontare delle bombe del 1943, delle macerie, la mamma che non c’era più, la casa che non c’era più. 13 anni, un grembiulino, il papà. Nient’altro.

Cosa siamo, chi siamo, e cosa dobbiamo conservare? Me lo domando mentre ascolto la voce rotta della nonna che un po’ si lascia andare un po’ si vergogna di piangere. Non ti devi mica vergognare dell’ansia, le dico. Il panico arriva, bisogna cercare di restare lucidi, non farsi sopraffare dai pensieri. Mi guarda, chissà se mi crede. Ma io lo credo davvero: c’è stato chi mi era a fianco ed era vittima di attacchi di panico, chi prendeva il Patoprazolo per gastriti nervose, e l’ho preso anche io. L’ho provata quella mano che stringe lo stomaco e tu ti senti che da solo non ce la fai. Non ti devi mica vergognare, non ti devi mica sentire in colpa, le dico. E penso all’empatia.

Penso che siamo stati scemi a lasciare questa donnina forte e fragile insieme da sola senza curarci non tanto di stare lì quanto di coccolarla, ascoltarla, parlarle. Penso che dobbiamo organizzarci a turni, e piuttosto mi attrezzo, mi porto le cose del lavoro e stiamo qui con te mentre pigio i tasti e le rotelle del mio piccolo mondo, ma ti do la serenità di trovarmi qui di fianco a te. Ho paura, abbiamo tutti paura: la nonna deve restare protetta, la nonna è tutti noi e noi siamo solo per la nonna, ora più che mai.

«Ecco, se questo è il momento di fermarsi perché dobbiamo farlo, è anche il momento di darci da fare. Il che significa fare la nostra parte in quel che possiamo e riprogettare, rimodellare il futuro che verrà. Fra le altre cose, è anche il momento di bonificare la nostra incapacità empatica. Quel cinismo nemico della comunità umana e amico di logiche che pensano solo a profitti economici di pochi, oggi, si rivela come uno dei più pericolosi fattori inquinanti della nostra capacità di fare bene. Di pensare bene. Di pensare anche alle vite degli altri».

La nonna non va lasciata sola. Nessuno va lasciato solo, anche se ora è difficile, anche se ora sembra tutto irreale. Tutti uniti, con ogni mezzo possibile: ascoltare, trovare parole, occuparsi, curarsi, chiedere, rispondere, e anche sorridere. «Nonna ma non dire così, possiamo tutti morire da un momento all’altro: pensa se adesso esco e sbam! mi cade una tegola in testa!». «A me è successo – risponde lei – era tanti anni fa, sono uscita di casa, tirava libeccio… ».

Canzone capitata nei pensieri: Isola, Samuele Bersani

Io sono un’isola, le stelle mi hanno circondato
E se cammino nel silenzio troverò il sentiero
Per ritornare sulla strada dove ti ho lasciato
Ogni momento è decisivo in una storia

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Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!