Si fa tanto parlare di Calvino in questo 2023 quasi alla fine ma… come parlava Calvino? Sulla lingua, sulla scrittura e sulle loro peculiarità si interroga un saggio uscito per Treccani e curato da Matteo Motolese, si intitola Le parole di Calvino ed è un una sorta di piccola enciclopedia di temi e spunti che a loro volta potrebbero aprire altre vie e percorsi di ricerca sui tantissimi aspetti del linguaggio (dei linguaggi, sarebbe forse meglio dire?) calviniani.

Nell’introduzione Motolese cita la Sala Calvino della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma dove sono ospitate le librerie originali dello scrittore, con tutto il loro contenuto lasciato esattamente così com’era prima che Calvino ci lasciasse. Il motivo è che si ritiene, direi proprio legittimamente, che in quella stratificazione di volumi e carte si nasconda un disegno: la biblioteca di Calvino era ed è una sorta di impronta del suo lavoro, se ne serviva per nutrire la sua creatività e per trovare conferme. Logico pensare che quei libri non siano messi come sono messi per caso, ma siano invece tenuti insieme da una rete di relazioni che alcuni studiosi stanno analizzando.

Una piccola enciclopedia della lingua

Verrebbe da pensare che questa rete di relazioni assomiglia proprio al linguaggio. E, così come controllava cosa c’era e come era disposto sugli scaffali, Calvino aveva un uguale controllo anche della sua lingua. Niente è quindi casuale: ritmi, suoni, componenti visive, forme della sua lingua scritta. Al telefono con Ernesto Ferrero, lo scorso aprile, avevo parlato di progressivo impoverimento nell’uso e nella consapevolezza del linguaggio, diventato oggi sempre più approssimativo. Questa constatazione ci aveva infastidito e avevamo notato che avrebbe colpito negativamente anche Calvino. Ferrero mi raccontò in quell’occasione che Calvino parlava poco, preferiva scrivere, e così raccontano le tante testimonianze di chi l’ha conosciuto e ci ha lavorato. Preferiva scrivere perché si poteva correggere. Del resto, come ci insegna Domenico Scarpa, Calvino si è ripensato per una vita intera. E ora, in Le parole di Calvino, sono tanti e diversi studiosi a ripensare alle sue parole.

Questo libretto è costruito proprio come una piccola enciclopedia: si va in ordine alfabetico e i temi sono vari e anche molto diversi tra loro. Ne elenco alcuni: architettura, dialetto, immagini, lessico scientifico, nomi di persona, fatti linguistici come punteggiatura, tempi verbali e voci. E così cito, tra tutti gli studiosi, i due a me più noti, che sono Enrico Testa e il mio concittadino Vittorio Coletti. Analizzare e passare al vaglio l’intera opera calviniana sarebbe (stato) impensabile, dunque si tratta ogni volta di spunti, qualcuno costruito con precisione verticale e direi persino troppo accademica, altri più divulgativi, ventagli aperti sui tanti rimandi del mondo calviniano.

Quella del corpus vastissimo di Calvino è stata, dice il curatore, una delle difficoltà da tenere presente. Come attraversarlo? Non c’è un metodo, ma dichiarata arbitrarietà, di cui il curatore si discolpa: chi non lo capirebbe?! Incontriamo dunque tredici voci che sono sguardi diversi e posati di volta in volta con prospettive differenti sui fatti linguistici che riguardano Italo Calvino. La struttura, esattamente come il modello dell’enciclopedia (o del Barone rampante?) è ad albero, come i rami, i tanti temi innervano un corpus smisurato: da ogni capitolo potremmo aprire un’intera tesi di laurea. Tanta parte la farebbe la stessa saggistica di Calvino. Come pochi altri autori del Novecento, lui ha saputo infatti costantemente portare avanti in parallelo alla narrativa e al lavoro editoriale anche una meta-riflessione sul proprio lavoro.

Strutture, vincoli, architetture, e un po’ di semiotica

È quindi lui stesso, spesso, a darci informazioni sulla propria lingua. Ne era altamente consapevole e le ha sempre dedicato un lavoro di cesello precisissimo e acuto. Nella prefazione di Bruno Falcetto a Un dio sul pero, uno dei volumi usciti nel 2023 con testi inediti (in questo caso alcuni apologhi e racconti giovanili) si evidenzia bene questo processo di costruzione di una voce, di una lingua, e di consapevolezza sempre maggiore che ha orientato il lavoro di una vita intera. Un lavoro dedicato alla propria autocostruzione attraverso il linguaggio: il Barone che si perde tra i rami di inchiostro raccontati da Biagio, Suor Teodora/Bradamante che cavalca sulla pagina, il castello di incipit del Viaggiatore, e tanti altri prodigi di quel livello che in semiotica chiamiamo, per l’appunto “meta” e che ci porta oltre la superficie, su “nelle intenzioni dell’autore”.

Che Calvino amasse le contraintes e le strutture formali è cosa nota, non solo in occasione del fruttuoso periodo oulipiano. Anche le parti del linguaggio sono mattoncini di strutture, lo mette bene in evidenza il saggio dedicato all’architettura contenuto in Le parole di Calvino, che apre questa raccolta. Il caso vuole che, per me, sia anche il più interessante. Lo è perché considera la scrittura di Calvino proprio come un’architettura, per arrivare a dimostrare come lo scrittore si servisse di vincoli formali ogni volta utili a testare, verificare possibilità, sperimentare e manipolare. Era un manipolatore abile: si è nascosto, rivelandosi, per tutta la sua vita. Si procede dunque, scoprendo la sua scrittura, per linee spezzettate: il percorso di Calvino è mutevole, così lo sono le sue traiettorie di ricerca, così lo è la sua lingua. Porre attenzione ai suoi mutamenti forse aiuta anche a capire le scelte, e a inseguire quell’io che così tanto si è occultato tra maschere e alter ego.

Dicevo che il linguaggio è fatto di mattoncini che, incastrati insieme, danno vita a strutture via via sempre più grandi. Le parole di Calvino riesce a ricostruire, pur nella sua auto-dichiarata incompletezza, il percorso in verticale lungo tutto l’asse che riguarda ciò che possiamo definire discorso. Partiamo da livello più “alto”, la consapevolezza dell’autore e la sua presenza nascosta ma al contempo esplicita, qualcosa che potremmo definire echianamente autore modello. Gli aspetti metanarrativi abbondano nelle opere di Calvino, e così i dispositivi linguistici che sottolineano la tensione, la correzione, la precisione operata come programma poetico. Ma poi si “scende” tra altri livelli linguistici, si passa infatti ad aspetti del discorso più interni e tecnici, a ingranaggi forse meno evidenti ma decisivi. Scivoliamo quindi fino alle strutture interne dei testi: lessico, punteggiatura, dialetto…. Fatti sempre molto semiotici, che mettono in relazione le scelte dell’autore con la costruzione del senso.

Nell’atlante Calvino

Cosa ci voleva comunicare Calvino? Qual era la sua intenzione precisa? Domenico Scarpa scrive che “quando si parla di uno scrittore, il linguaggio sta alla fine e al principio di ogni discorso”. È così: nelle inflessioni della voce, nel lirismo nascosto, ma anche nell’uso del dialetto, con le sue immagini che si rifanno all’autobiografismo tanto temuto, nel lessico scientifico, vero serbatoio per l’immaginario che si alimenta della prosa niente meno che di Galileo, proclamato da Calvino come il massimo scrittore italiano. E ancora nelle autocorrezioni che rendono complicata la vita degli studiosi (io stessa sono incappata in una versione di Luna e Gnac dove i figli di Marcovaldo si chiamano Filippetto e Michelino, mentre nella versione dei Racconti del 1958 Filippetto è Daniele) e nei rimandi alla saggistica, che contamina di ritorno la narrativa.

L’atlante Calvino, insomma, richiede una consultazione attenta: è un’avventura per esploratori attrezzati. Uno degli attrezzi può essere proprio l’atlante Calvino, che non ho citato a caso: è uno strumento reale, frutto di un progetto dell’Università di Ginevra che ha digitalizzato le parole di Calvino rendendole disponibili per ricerche attraverso visualizzazioni grafiche.

Ho una postilla, e riguarda una notazione rara quanto preziosa per me: Elisa Tonani, nel suo saggio dedicato alla punteggiatura, si occupa di una questione di solito poco considerata, e cioè dell’aspetto visivo di Dall’opaco, un testo “a terrazze” che non ha punteggiatura. Ne parlavo nella mia tesi di dottorato, e se avessi incontrato, anni fa, questo spunto linguistico, sicuramente lo avrei approfondito. Forse questo spiega, in piccola parte, come mai Dall’opaco sia stato scelto per aprire la mostra Favoloso Calvino alle Scuderie del Quirinale di Roma, e come mai questo testo ricordi sempre così tanto la Liguria.

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Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!