È un venerdì di pioggia, il lavoro incombe e per alleggerirmi lo spirito accendo una candela profumata, metto in infusione un tè dalle note esotiche e cerco su Spotify una colonna sonora che mi accompagni in questa coccola: ce l’ho, tanto più che per scaldarmi le dita sulla tastiera mi sono anche promessa di scrivere qualche pensiero sparso – alias recensione – sul film, che ho visto qualche giorno fa. È la soundtrack di La La Land.

Basta un attimo: il valzer di Mia & Sebastian theme mi avvolge in una spirale, seguono A lovely Night e poi il magnetico ritornello della mia preferita City of stars. Bene, ora posso ritrovare la porta di accesso al film, e portarvi insieme a me in un sogno fatto di musica, tip tap, colori e magia. Quattro spennellate e vi ho già abbozzato i cardini dell’intero film e della sua atmosfera incantevole: una favola, immersa nell’atmosfera di sogno che il grande schermo porta con sé fin dalle origini. Del resto la mia amica londinese che lavora in un cinema e ha la fortuna di vedere in anteprima un sacco di film, mi aveva avvertita: “si ride, si piange, si balla e si sogna”. Quattro cose apparentemente buttate lì, ma davvero essenziali per il film.

La La Land non è un film classico, bensì un musical, specie rara e per la quale ho un debole, e che oltretutto, come forse avrete letto, ha sbancato il botteghino ai Golden Globes e probabilmente bisserà agli Oscar. Non farsi prendere dalla curiosità era impossibile, ancor più visto il titolo così frizzante e così musicale, che ci fornisce anche un ottimo spunto. Il Cambridge Dictionary suggerisce che “believe in la-la-land” significa “to think that things that are completely impossible might happen, rather than understanding how things really are”. E dove altro può accadere che cose completamente impossibili possano capitare, se non sul palco, o meglio, nello studio cinematografico, il luogo dove si canta e si balla, la landa di sogni alti come palazzi, che danzano liberi e colorati senza che nulla li abbatta. Tanto, si sa, è il cinema.

La commedia hollywoodiana classica ci ha abituati al plot: sappiamo che l’eroe troverà la sua bella e vivranno felici e contenti. Tenete questa info per dopo. Ora proseguiamo con la musica e i colori, che sono i primi due elementi che rimbalzano fuori dallo schermo non appena il film inizia, con un incipit da puro musical, ballerini, vestiti sgargianti, tutti che cantano e saltano e una strada che conduce chissà dove…

A Los Angeles, California, anzi a Hollywood, dove Mia fa la barista tra un  provino e l’altro, in attesa di trovare la propria occasione per entrare nel blasonato mondo del cinema che così tanto la incanta, e dove uno squattrinato Sebastian, pianista talentuoso, sogna di riportare in auge il jazz classico, quello, per intenderci, dei club à la New York. L’atmosfera è, a mio parere, straniante: dettagli retrò, colori anni Sessanta ma poi telefoni cellulari, che ci fanno capire che il film è ambientato nella nostra stessa epoca, ma anche che forse i due protagonisti sognano così tanto da portare un po’ del sogno nella realtà.

Del resto credo che questo film sia una spassionata dedica a tutti coloro che sapranno coglierne la leggerezza senza troppo considerare alcune scivolate “teoriche” (ho letto qua e là in rete commenti e analisi che distruggono parti del film, e forse anche secondo logica, però il punto è che secondo me tanta logica non serve, il focus è altrove qui), perché è di leggerezza che parla, e non si muove sul piano della realtà ma esclusivamente su quello del sogno, dimensione riservata ai folli, a coloro che si muovono fuori da un universo piatto in bianco e nero (ricordate i colori?) e dai cliché (Sebastian ricerca un jazz che non si suona più), e combattono fino in fondo per le proprie ambizioni, cadendo e rialzandosi sempre.

Locandina di La La LandOvviamente, tra i due protagonisti si crea del tenero. La storia d’amore tra Mia e Sebastian si sviluppa nell’arco di quattro stagioni. E poi? E poi, come ogni arco narrativo che si rispetti, c’è una caduta, una svolta, una nuova soluzione, fino ad arrivare a una fine, che non vi rivelerò perché sarebbe uno spoiler imperdonabile. Però la scintilla tra i due scocca in una delle scene più belle del film che non posso esimermi dal segnalarvi: il tip tap di Mia e Sebastian, che non può, ma proprio non può, non evocare atmosfere da musical classico, e suggerirci così che questa storia è solo un film, quindi non diamole troppo peso e lasciamoci invece trasportare dalla magia della narrazione e della musica. Vi assicuro che con questa chiave di lettura uscirete divertiti, leggeri ed emozionati. Il presupposto di partenza è naturalmente che vi piacciano i musical e che abbiate un paio di nozioni sul mondo del cinema hollywoodiano, così che possiate acchiappare qualche sottotesto metanarrativo che vi aiuti a contestualizzare.

La prerogativa secondaria, che mi ha vista assolutamente partecipe, è che vi piaccia il jazz, perché Sebastian è un jazzista e perché c’è un bel po’ di musica swingante, che del resto è perfetta per un musical. Ma sto parlando da persona colpevole di passione per musical e jazz insieme, dunque sono tutto fuorché oggettiva.

Insomma, il film mi è piaciuto, mi ha coinvolta ed emozionata per quel che è: una storia d’amore e di passione per un ideale, che esplicitamente si vota fin dalla prima scena al mondo dei sogni, e dunque non vuole un pubblico di cinici e brontoloni, ma di lettori pronti a farsi prendere per mano e ballare un tip tap sotto un lampione (beh, qui il riferimento alla storia del cinema è così enorme che lo coglierete anche voi), o un romanticissimo valzer tra le nuvole di un osservatorio, comparendo e scomparendo tra una quinta teatrale e l’altra, e arrivando al finale…

DEVO SPOILERARE, AVANTI SOLO CHI HA VISTO IL FILM

Ecco, il finale è come un estintore sulla fiamma: spegne il sacro fuoco del sogno, quello giovane, utopistico, puro e altissimo. È un finale che riporta a terra, alla realtà. E un po’, dopo due ore di pura macchina del cinema, ci fa male. Il messaggio che il mondo sia riservato ai folli e ai sognatori si sgonfia come un palloncino bucato, scende giù il sipario e siamo costretti a fare i conti col fatto – per noi quotidiano: non viviamo a Hollywood – che per realizzare alcuni sogni, altri vadano forzatamente messi da parte. Insomma, il finale ci mette alle strette con le scelte, quando fino a poco prima ci era sembrato proprio l’esatto contrario, ovvero che fossero unioni e persone a facilitare le nostre scelte per aiutarci a realizzare i sogni.

Perché gli autori abbiano scelto di raccontare una storia con questo finale non lo so, mi limito a scrivervi quel che ho pensato io. La morale che ne ho tratto è che sì, la realtà è cinica e assai spietata, ma l’invito è comunque quello a sognare, sempre e ancora, unico motore per le nostre aspirazioni più grandi. Perché se non facessimo nemmeno quello, resteremmo fermi, spaventati e delusi.

E poi, dai, diciamolo, dove si è mai visto un jazzista che non sia sfigato e malinconico?! Non sarebbe un jazzista, e dunque non c’era altro finale possibile!

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!