Dicembre, tornare a Roma. Coltiva l’idea da anni – sono sei, ormai – ciascuno cadenzato dal ricorrere di una foto in cui non si vedono altro che strisce pedonali e semafori, volti di sconosciuti colti nell’azione di attraversare. Il Vittoriano in lontananza, i Fori, il Colosseo alle spalle: il soggetto sono le strisce pedonali, una strada di Roma in un giorno di dicembre che c’era il sole. Una foto anonima, per tutti . Eppure lei la tira fuori ogni anno che passa, di questi tempi, a dicembre: rappresenta i movimenti, gli attraversamenti che l’hanno coinvolta dall’istante dello scatto fino a oggi. Le sembra ormai da tempo immemore che sia l’immagine perfetta per definire quel dicembre, quel viaggio a Roma. E tutto quello che si è precipitosamente sconvolto, travolgendola, dopo.

Le macchine passano veloci, ci siete tu e lui, uno accanto all’altra, e dovete raggiungere l’altra parte della carreggiata. Ecco, questo è un momento notevole. È come se attraversare insieme una strada costringesse due persone a scoprirsi, a spostare l’attenzione sulle macchine che passano, trascurando per un attimo la propria immagine, almeno per il tempo necessario a non farsi investire. La città, in questo senso, è indelicata; costringe le persone a un’intimità eccessiva e improvvisa. [Giulia Villoresi, Chi è felice non si muove]

Ci pensa da giorni, scrive, cancella, riscrive. E poi decide che basta, non è il caso, non ha senso inviare il solito trito e ritrito messaggio che non ha alcuno scopo comunicativo se non quello di evocare malinconicamente un tempo che è ormai fossilizzato. Non si torna indietro, purtroppo non si torna. Tuttavia, resta convinta del fatto che quell’istante, quella foto e il dialogo che avvenne quattro secondi prima, aspettando il verde, resti un mattone sul quale è andato costruendosi, e franando, più volte, il muro dal quale oggi guarda gli eventi. Il muro che non c’era e adesso c’è, e lavora come un muro: divide, separa.

Nella calma soleggiata di un mattino di dicembre a Roma ci sono state le parole di lui, il sorriso sereno di lui, la sconvolgente sincerità di lui che raccontava una felicità. Nella stessa limpida mattinata, subito di fianco, aspettando il semaforo, c’è stata la deflagrante felicità di lei a sentire quelle indelebili battute di dialogo, una sospensione dei battiti durata il tempo di un su e giù di ciglia, uno sfarfallio nello stomaco inconfondibile, quello che annuncia la gioia. Pochi secondi, nemmeno il tempo intero del rosso al semaforo, il dialogo sospeso tra un sorriso e un’attonita conferma di felicità nell’aria, tanto è durata quella scena.

E poi la foto. Una reazione come un’altra a un’onda calda di felicità che si irradiava dal centro del petto a tutto il corpo, scaldando le guance e portando le mani alla macchina fotografica, il mirino all’occhio. Scattare: intrappolare per sempre quell’attimo, fissarlo in una memoria che testimoniasse per lei che non era solo un sogno, non era una fantasia.

Difficile inscenare gesti semplici, quando un’emozione è così intensa da riverberare nello stomaco. Sarà per questo che nel dicembre soleggiato di Roma, guardando le strisce pedonali, a quella rivelazione di felicità lei si era sentita avviluppare in una morsa di imbarazzo. E aveva scattato una foto, tacendo, minimizzando, stemperando una bolla di bellezza così autentica che non riusciva a dire ancora, a declinare sulla sua persona, che non osava frequentare. Così l’ha fotografata, perché nelle sue corde malinconiche già presagiva che sarebbe stata fugace quanto meravigliosamente bella.

Un attimo, due battute, un sorriso e un semaforo rosso. Una foto. Eccola, quella felicità: è tutta qui. Dopo sei anni resta ancora nitida, ferma al semaforo in attesa di attraversare. Scalda come i raggi di un sole sincero in un dicembre, a Roma.

Pensa a questo, lei, mentre viaggia verso la città in un treno che sarà sempre e per sempre tutti i treni che tornano da Roma, a dicembre, il buio e una spalla su cui addormentarsi. Ha cancellato tutte le bozze che aveva preparato nell’attesa del momento in cui sarebbe tornata davanti a quelle strisce, nell’attesa di quel semaforo. Forse non ci passerà neanche, e se lo farà sarà solo un altro attimo, uno come mille, come milioni, riempito solo di clacson e chiacchiere di turisti stranieri. Facilmente sentirà come un’eco, ma sarà così flebile che andrà cercata, attesa e colta al volo. Non ci sarà tempo – non ci sarà motivo – per scattare altre foto, per fissare un attimo di gioia ricordata dentro un soliloquio chiuso come una mummia dentro una chat.

Qual è il grado di dolore che riesci a sopportare prima di fermare l’esecuzione e chiedere soccorso a me che non ti do un motivo ancora per restare nella storia di una storia che non c’è? [Nicolo Fabi, Lasciarsi un giorno a Roma]

Le strisce pedonali servono per attraversare una strada, in fondo questa foto non fa che ribadirglielo da sei anni. Roma, ne è convinta, la stupirà anche questa volta con la sua inafferrabile ed eterna bellezza.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!