Non più in là di tre settimane fa mi ero ripromessa di inaugurare con il 1 agosto un giochino scemo da rimbalzare sul faccialibro. Qualcosa che avesse strettamente a che fare con l’estate, con quella sensazione fatta di immagini che è rimasta scolpita nella mia infanzia estiva insieme a compiti delle vacanze accumulati in un angolo, partite infinite a calcetto, stecchi di ghiaccioli piantati in castelli sulla sabbia, braccialetti di filo intrecciati con la mia amica di Piacenza, tuffi scatenati dallo scivolo del pedalò. Parlo del Festivalbar. [Vi intuisco, che leggete e vi scappa un sorrisetto].

Insomma che tre settimane fa, mentre tornavo dal mare, mi parte nelle cuffie dell’ipod [sì, sono un dinosauro che ancora usa l’ipod in cui si sono fossilizzate playlist di almeno 3 anni fa perché poi l’oggettino blu non ha più dialogato col pc] una Carmen Consoli d’antan, e nella mente mi scatta subito il flash. Sapore di cornetto algida sgranocchiato con la pelle della schiena bruciata dal sole, la radio del chiosco alla Scogliera e il profumo della pizza di Giorgio, l’odore della vernice delle staccionate mista al sale e quella sorta di indicazione intuitiva per la quale sentivo le canzoni ma non le ascoltavo, o meglio sì, le ascoltavo, talvolta ne imparavo a memoria i testi, ma fondamentalmente non li capivo, perché ero troppo piccola. Quindi le canzoni del Festivalbar scorrevano nella loro aura da bar, nella loro atmosfera estiva, sole mare amici e vacanze. L’avrei mai detto che, anni dopo, sarebbero state tappetino di struggenti amori adolescenziali, sfogo, rifugio, specchio o baratro? No, non l’avrei mai detto: erano solo canzoni – canzonette direbbe Bennato.

Insomma che questa Carmen Consoli a marchio Festivalbar è stata una piccola madeleine sonora: adesso ascoltavo il testo, come già tante volte da ventenne. Adesso, calata nella stessa atmosfera estiva del Festivalbar dell’infanzia, collegavo i pezzi – la spensieratezza estiva e l’amore disastrato che quella canzone raccontava. Era Amore di plastica. Era il 1996 e avevo 10 anni.

Ma torniamo al giochino di oggi, che è il 2019 e di anni ne ho 32, passati i venti dell’orgoglio rivendicato da Carmen in quella canzone, passati anche i 30 del cinismo. Oggi che siamo orfani del Festivalbar di cui, trofeo personale, ho visto dal vivo l’ultima puntata trasmessa, nel 2007 all’arena di Verona, ho accumulato sufficiente ascolto passivo e attivo di canzonette da mescolare sorrisi ad antiche emozioni adolescenziali che quelle storie in musica mi creavano. Complice Carmen Consoli, quindi, ho fatto un po’ di ricerche e ritrovato una serie di brani di autori italiani che, di Festivalbar in Festivalbar, mi hanno raccontato storie di amori disastrati. Ho creato una playlist di dieci canzoni e l’ho titolata proprio così: Amori disastrati. Esempi, consolazioni, identificazioni immersive nelle sfighe di Raf che ripensa all’infinito ma intanto è stato lasciato, di Britti che, pure, è stato lasciato ma si sforza di sorridere al domani. Giorgia che con suono anni Novanta chiede “dove sei”, e poi Fabi, Silvestri, Bersani. I cantautori italiani che hanno accompagnato la mia generazione spesso lanciati proprio dal Festivalbar. Sono loro i cantastorie che ho avuto a fianco cuffietta dopo cuffietta, su chilometri di sguardi dal finestrino e parentesi di autocommiserazione domestica.

Dieci: tante ne ho selezionate, per dare un via e uno stop a questo gioco estivo degli Amori disastrati. Che poi gioco non è altro se non condividerle qui con qualche riflessione ironica sul senso di quel che, ragazzina, mi sciroppavo dispensando più attenzione al non far cadere l’ultimo pezzetto di ghiacciolo, quello attaccato allo stecco, che ai testi che cantavano le gesta di poveretti in cerca di amore o costretti a farsi bastare i ricordi di amori finiti. Alzo le mani: non sono tutte cose anni Novanta, perché questo gioco nato dal Festivalbar si è trascinato dietro nodi, storie e legami che travalicano quegli anni d’oro e pescano anche nell’oggi, quando ancora certe canzoni hanno lo straordinario potere di accarezzarti l’anima, e far capire al Giacomo Leopardi solo e disgraziato che vive in te che di amori disastrati è pieno il mondo.

Via dunque, ogni giorno un commento e ogni giorno un aggiornamento.

1 agosto: Amore di plastica, Carmen Consoli, 1996.

Ti sei mai chiesto se onesto era illudermi? Domanda Carmen in questa canzone. La poveretta ci è cascata: si è fatta prendere dal batticuore e ha spento il cervello. Solo per un po’, però, ché con questa canzone narra, all’imperfetto “volevo essere più forte di ogni tua perplessità”, per poi rivendicare la necessità di non accontentarsi di un amore di plastica. Diamole torto. Anche perché il tizio, da che ci dice Carmen, è così cafone da non ricordarsi il compleanno, da non consolarla quando piange, e, su tutto, è così distante e diverso da lei da non vedere neanche quei momenti di buio che ogni tanto la spengono. Forse è proprio grazie alla coscienza della sua profondità che Carmen alza la testa e non ci sta: questo amore di plastica non fa per lei. Che farci? Si è sbagliata. Capita. Il distacco non sarà certo roseo e giubilante, ma l’orgoglio che le batte dentro è più forte di tutto, anche della plastica che sembra meravigliosa e consolante. “Non posso accontentarmi”, dice Carmen. E noi ne conveniamo: brava, hai fatto bene a lasciarlo!

2 agosto: Spaccacuore, Samuele Bersani, 1994.

In diretta da un Festivalbar targato 1995, un’abbronzata Federica Panicucci a presentarlo, compare sul palco Samuele Bersani, giovanissimo, con il suo nuovo singolo: Spaccacuore. Un gioco di parole nel titolo, divertente per una bambina, come me all’epoca, che non si accorgeva della potenza di un amore  parecchio disastrato, come quello cantato qui. “So chi sono io, anche se non ho letto Freud, so come sono fatto io, ma non riesco a sciogliermi, ed è per questo che son qui e tu lontana dei chilometri” sarebbe diventata, molti anni dopo, una strofa culto: la riflessione di qualcuno che ha capito il nodo dietro a una relazione bloccata, e però non riesce a smuovere la situazione, a crescere, cambiare, riprendersi lei, che infatti va via, cacciata da lui, il debole e impavido lui. Al quale tocca solo crogiolarsi nel male: spara, dai, sparami dritto qui, io mi arrendo al dolore che la fine (o meglio l’impossibilità) della nostra storia mi causa. Tu non pensarci, non aspettare, ci sono qui io che con limpida coscienza dei miei limiti ti ribadisco: spara, spara dritto al cuore, spaccalo del tutto, quel cuore: è così che funziona l’amore. Nonostante il rilascio graduale di significato, decennio dopo decennio – o forse proprio per quello – Spaccacuore resta una delle mie canzoni preferite in assoluto.

3 agosto Buona fortuna, Alex Britti, 2009

Siamo fuori dall’epoca Festivalbar con questo brano. E però, forse, l’atmosfera è proprio quella: un amore che non ce l’ha fatta, e che tra malinconie e ricordi esplode in un ritornello denso di ironia nostalgica. Protagonista una coppia che stava benissimo, è persino arrivata sulla luna, e poi è finita, esaurita. Senza rancori, in modo sorprendente: doveva forse andare proprio così. Ma Britti lo sa: arrivare lontano non è cosa da tutti, forse sarebbe bene accontentarsi, senza rimpianti. Amici come prima allora: pare di vederli, i due della coppia, stringersi la mano e dirsi via, dai, auguriamoci buona fortuna per la vita che verrà, dopo anni, vedrai, “ci resterà solo un ricordo elegante”. Siamo sicuri? “Noi siamo due pianeti che non si possono incontrare”, ognuno ha la sua metà del letto e tutto procede come sempre. Però… Qualcosa lascia aperto il sospetto. “Adesso sto sognando – ci fa notare Britti – poi mi sveglierò domani”. E allora sì, lo scoprirà: è un amore disastrato anche questo.

4 agosto Lasciarsi un giorno a Roma, 1998

Questa è LA canzone, una delle mie preferite di sempre, un manifesto. Lasciarsi un giorno a Roma è un amore disastrato la cui storia si svolge sul palcoscenico della quotidianità, un giorno qualunque, a Roma, una coppia che si lascia. Non c’è niente di più normale, niente di più doloroso. “Fai finta che è normale, non riuscire a stare più con me”, canta Fabi. Spiegatelo a lei, però, cercate di illustrarle con la razionalità delle parole “normali” che una storia è finita, si è esaurita, che nei sentimenti di lui non c’è più una goccia di amore. Perché succede. Fa male, malissimo, ma può accadere che un amore si spenga, e che lui non ce la faccia a tollerare la presenza di lei, diventando quasi cattivo. Chiede infatti, egoista, “qual è il grado di dolore che riesci a sopportare prima di frenare l’esecuzione e chiedere soccorso a me che non ti do un motivo ancora per restare nella storia di una storia che non c’è?”. Un amore disastrato di tutto rispetto, di quelli che lasciano senza fiato, dalle macerie dei quali emergere sembra una scalata impossibile. Intorno, Roma scorre quotidiana, alla lei distrutta Fabi consiglia “ricordati che c’è differenza tra l’amore e il pianto”. Una parola, gli risponderei io davanti alle macerie di questo lucido disastro. Ma “c’è soltanto un modo per riprendersi: lasciarsi un giorno e poi dimenticarsi”. Letale. E bellissima.

5 agosto, Mi persi, Daniele Silvestri, 2007

Ultimo anno del Festivalbar, 2007: sul palco Silvestri porta la sua ironica denuncia sociale con Gino e l’Alfetta, ma in quello stesso album appena uscito, Il latitante, c’è una piccola perla, Mi persi. Storia e canzone siderali, un lento jazzato che prende atto di una qualche forma di amore disastrato e, guardandosi intorno, realizza di essere impantanato con se stesso. Ci ha provato, a cambiare posizione, ma… Si è perso. Ha perso l’orientamento, le forze, forse le speranze. “E ancora ieri consideravo che se tu non c’eri io…” sospensione, un respiro che dice tutto: “Però è un pensiero inutile”. C’era l’idea di un atto di forza, un cambio, ma è caduto tutto in un vuoto spaziale. Un’indolente chiusura in sé e nei propri limiti che, forse, arriva proprio dopo un disastro, amoroso o meno. Silvestri parla a Silvestri, ed è sincero: “ma sì ma sì lo so che avrei dovuto prenderti e sfidare il mondo, solo che… mi persi”. Ci deve essere stato qualcosa, una perdita di contatto, qualcosa di sfuggito, un che di non ingranato. Nel lento pacato guardarsi allo specchio constatando il fallimento, Silvestri lo ammette, perché lo sa: “E adesso perdonami se mi è rimasta soltanto la parte peggiore di me”.

6 agosto Infinito, Raf, 2001

“L’ironia del destino vuole che io sia ancora qui a pensare a te”: Raf ci è cascato. Dove? Nella malinconia di un amore finito, dunque inesorabilmente disastrato. C’è qualcosa di più romantico? Credo di no: lo dicono anche Daniele Bossari (!) e Alessia Marcuzzi nel video del Festivalbar. Insomma, questa voce narrante dal grande cuore rivive la sua storia disastrata, sebbene sia passato del tempo (4 anni?) flash gli attraversano la mente, sensi di colpa, speranze disilluse. “Tutto è talmente nitido”, dice lui, che avrebbe voluto evitare di sbagliare, e forse diventare l’uomo ideale. Invece nulla di questo desiderio sognante è diventato realtà perché lei gli ha rivelato una verità bestiale: “non so più se ti amo o no”. Sbam! Brano iconico, con Infinito Raf ha imbastito un vero e proprio inno all’amore disastrato. Lui è stato lasciato come un pesce lesso, “senza chiedere perché da te mi allontanai, ma ignoravo che in fondo non sarebbe mai finita”: non sa che farà, davanti ha una strada ignota, ma eccolo, si gira indietro e… La meraviglia: l’infinito di una storia che finge di reggere ancora, ma solo nei ricordi, perché “l’amore non è razionalità”. Un malinconico sorriso che si guarda alle spalle dove vive ancora, nei ricordi e nel cuore, una storia vivida: tanto batticuore per un amore che è ancora palpitante. Ecco perché la rottura scaturita da quel terribile dirsi addio attraverso gli sguardi sprigiona questa malinconia pazzesca. È una bellezza svanita, una storia che c’è stata, ma è finita, eppure non morirà mai. “Domani partirò, sarà più facile dimenticare”: lontano dagli occhi, lontano dal cuore, come si dice, e così Raf si allontana, lo sa che è meglio così, che fermarsi a guardare ancora una volta lei che, mesta, gli dichiara il disamore, sarebbe una nuova coltellata. Meglio tenersi il ricordo stupendo, crogiolarsi nella nostalgia. Un autentico – infinito – amore disastrato.

7 agosto Un motivo maledetto, Irene Grandi,1993

Giovane, un po’ arrabbiata, ma soprattutto ironica canzone contro il sentirsi soli, l’essere stati abbandonati: Un motivo maledetto anticipa l’Irene Grandi da Festivalbar, quella dei dolcissimi amori e del bum bum-cuore che batte, per capirci. “Ho chili d’affetto che tengo nel frigo, è roba di qualità” è una frase che mi ha sempre colpito per l’originalità, l’assenza di miele, e il taglio un po’ graffiante. Insomma, tipicamente Irene, l’Irene che mi piace, e che in questa canzone che la vede giovanissima affacciarsi sulla scena pop racconta un amore sotto forma di motivetto insidioso che le torna in testa, le ricorda lui, lui che ovviamente l’ha piantata. Svogliata, “senza testa” commenta l’oroscopo che avvisa di piccole difficoltà in arrivo, e invita alla pazienza, individua un telefono del cuore che dovrebbe essere rosso, ma le sembra piuttosto giallo limone, mentre se lo aspettava blu. Insomma, un amore disastrato da somatizzare ma per il quale non si cede ai facili cliché sdolcinati. Ci vuole carattere, anche se lui gira ancora in memoria proprio come un motivetto scomodo: “non rallenta la memoria”, quello che resta “è solo un suono nell’aria che mi tormenta”. Combattuta tra il fastidio e la mancanza, alla fine lei cede al telefono, illusa che lui la pensi, e si vergona a dirgli che si sente uno schifo, che crede di non poter vivere senza “sola senza di te, qui non si muove una foglia”. Ma Irene è forte, si fa aiutare dalle parole e anche se sta a terra, disastrata quanto la sua storia, usa l’ironia: “una canzone d’amore? E invece no signore, per me d’amore non ce n’è, e mi trascino per casa con gli occhiali da sole domandandomi perché”. Ed è così che vince, chapeau.

8 agosto Dimmi dove sei, Giorgia, 1997

C’è la mano di Pino Daniele dietro questa meravigliosa canzone contenuta in Mangio troppa cioccolata. E si sente, si sente tutta. Dolcissima la tensione di una voce che cerca lui, “adesso che saprei dirti quello che sento”: è una voce matura, che ha sfiorato un amore forte, grande, che è disposta ad aspettare che torni il sole, allora sì, vedrai, vedrai che cambierà. Ma intanto, mentre aspetta, ha una sola richiesta: dove sei? “Dimmi dove sei, dimmi dove sei in mezzo alla gente, io ti voglio qui nelle mie cose di sempre” canta lei, e mentre prende coscienza di questo sentimento, mentre lui non c’è, promette di cercarlo, continuare a farlo anche a costo di camminare un sacco, “ come ti vorrei accanto”. Certo, un po’ di dubbi li tiene lì, da una parte: si domanda se sia o meno peccato abbandonarsi così a un qualcosa di ineffabile come la ricerca di un amore. Ma è un amore grande: “così non ho mai amato”, conferma. Starebbe ore a guardalo nel sonno, se solo lui ci fosse. Però non c’è: legittimo chiedersi se la pensi almeno un poco, “oppure il mio è un pensiero fisso, che mi distrugge l’anima”. I want you, I want you: dimmi dove sei! Molto soul, ma amore disastrato anche questo.

9 agosto Marmellata #25, Cesare Cremonini 2005

Estate 2005, strade della Grecia, immensi cartelli pubblicitari che mi piazzavano sotto gli occhi giganti pacchetti di Winston. Questa infatti è la storia di un amore disastrato raccontata per immagini, e tra le immagini c’è quella della Winston blu, abbandonata insieme a una serie di oggetti personalissimi della lei che, in questa vicenda, ha piantato in asso Cesare, lasciato solo col suo pianoforte, la sua ironia irresistibile e la constatazione amara di un amore finito. Ecco perché serve della marmellata: per ridare dolcezza, di cui tuttavia, anche se lei la nascondeva, il buon Cremonini non fa economia, furbetto e tenero insieme. Numero 25 come gli anni di Cesare in questo brano: 25 anni per struggersi davanti alle scarpe, a una sciarpa blu, a “una patente rosa tutta stropicciata”. È tutto “proprio lì dove ti ho immaginata”, manca solo la realtà, manca lei. Un’assenza palpabile attraverso la presenza degli oggetti, che è poi la trovata geniale in questo racconto musicato di un amore disastrato. “Da quando mi hai lasciato pure tu, non è più domenica”: come si fa a non sciogliersi davanti a questo poveretto che canta una mancanza e ci fa pure dell’ironia? Gira che gira, alla fine, lo scioglimento goloso e tenerissimo: ecco la marmellata “quella che mi nascondevi tu: l’ho trovata”.

10 agosto È andata così, Dirotta su cuba, 1997

Che canzone signori, che canzone. Se cercate un classicone degli amori disastrati, di quelli che non si piangono addosso, con anima anzi un po’ ironica, un po’ dolce, e sicuramente soul, i Dirotta su cuba sono la risposta ai vostri bisogni. Anche perché più vintage di così c’è poco altro. Ho sempre amato questo gruppo e questo brano, ingiustamente dimenticati dai più. È andata così è decisamente un amore disastrato: finito, passato, solo ricordi che bussano alla memoria. Ovviamente la lei di turno ci ripensa e  ci sta male, continua ad avere voglia di lui: “chiudo gli occhi e poi scorre il nastro della storia tra noi”. È una sera di pioggia, proprio come un anno fa, “non so cos’è, questa sera tutto parla di te”, ecco i ricordi che arrivano a valanga, mentre lei fa un po’ la dura “fumo l’ultima anche se non mi va”. Ma è inquieta: gira per casa, troppo grande ormai, cerca messaggi inesistenti in segreteria (siamo pur sempre nel 1997), eppure lo sa che non ha speranze, perché “è andata così lo so, prevedibile”. Era un amore troppo forte, troppo bello per reggere: “eravamo troppo belli, angeli ribelli per non cadere giù”: un misto di razionalità e rassegnazione dovrebbe sedare quest’ansia, questa voglia, “cercarti non ha senso perché ormai non ci sei”, ammette infatti lei. Oh, niente da fare, lui gira in testa e non se ne va: “è andata così lo so, ma ti vorrei qui a ridere con me, tu che giri in testa e non te ne vai più”. Il finale? Disastrato, sì, ma molto romantico: “chi si è amato per davvero non smette mai”.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!