Un buon modo per celebrare la mezza (e strana) estate 2020 è stato per me arrampicarmi per i caruggetti della Pigna, il quartiere antico di Sanremo, arroccato tra cunicoli e passaggi microscopici sul promontorio che domina l’attuale centro città, per andare a vedere uno spettacolo con Lella Costa protagonista sul palco. Invisibili, le città, questo il titolo, con esplicito riferimento a Italo Calvino. Non è un caso. Lo spettacolo, che aveva partecipato a Biennale Democrazia di Torino nel 2019 e per non ricordo quale contrattempo avevo perso, è prodotto da Nidodiragno, e nemmeno questo nome è un caso per un omaggio allo scrittore nato a Cuba, sì, ma vissuto vent’anni proprio lì dietro. Sì, li dove indica il braccio di Lella Costa arrivata sul palco in mezzo ai Giardini Regina Elena, che sovrastano la città. Lo sguardo corre, scende tra le case addossate, verso il mare: là c’è Villa Meridiana, storica casa della famiglia Calvino, ex Stazione Sperimentale di Floricoltura.

Insomma, Italo torna a casa in un’afosa notte di agosto tra cicale e ventagli, e lo fa attraverso uno spettacolo evocativo, dove ad acquerelli e live painting di Stefano Giorgi si aggiunge il timbro narrativo inconfondibile di Lella Costa. Una sorpresa, che permette alle Città Invisibili di prendere forma, arrogarsi di una terza dimensione che tra le pagine di un libro difficile non sono mai riuscita a far emergere. Una città speciale, Sanremo, per parlare di tante altre sterminate città, ognuna con una caratteristica, ognuna piccolo affaccio su quello che siamo stati, siamo e saremo.

Le città nella voragine di senso

Un cappello introduttivo, prima di addentrarsi nel viaggio, perché siamo in un’estate non banale, mesi di lockdown alle spalle, la minaccia perpetua di una pandemia e la voragine di senso – proprio così l’ha definita Lella Costa raccontando della sua riflessione con Gabriele Vacis, con cui lo spettacolo è stato pensato – dentro cui è precipitata la nostra concezione della città. Città improvvisamente deserte, silenziose – solo il canto degli uccellini, le campane, e le sirene delle ambulanze -, città estranee, non-luoghi improvvisamente svuotati di vita.

Ho iniziato a riflettere. È il potere dei classici, e si è manifestato con l’aiuto dello spettacolo e della sua selezione di città, da quelle su palafitta a quelle che si specchiano senza essere mai uguali, da quelle che espellono la spazzatura fino a esserne inghiottite, a quelle che ambiscono a sguardi e desideri per esistere. Zenobia, Bauci, Cloe, Leonia, Valdrada… ogni città un modo di essere e di pensare il rapporto dei suoi abitanti con il suo tessuto. A volte la città fagocita, altre smette di avere confini e si perde, estendendosi senza fine. A volte è la città consumistica, altre quella dell’asocialità. Molte volte risuona familiare, proprio come nei discorsi dei telegiornali tra i pericoli di stili di vita, cambiamento climatico e una pandemia che non ci aspettavamo e che, con i suoi morti e il suo dramma, ha finito per rivoluzionare anche il senso stesso che della città avevamo. Quanto è vero, penso mentre ascolto rapita Lella Costa e trovo spunti di un’attualità sconcertante che mi fanno pensare a Marcovaldo e alle periferie moderne, alla città come parco giochi e ai saggi di semiotica urbana di Ugo Volli.

Città metafora: Italo Calvino e il caleidoscopio possibile

Metafore di vita urbana quotidiana, istruzione sulla visione, interpretazione e vita della città valide negli anni Settanta come oggi, ieri e probabilmente domani, in un tempo che, oggi più che mai lo abbiamo capito, sfugge alle briglie che tentiamo invano di imporre per domarlo, per leggerlo. Come la mappa del Kahn, così Calvino allestisce un atlante immaginario di città: modi di sognarle, viverle, immaginarle e rappresentarle. Nessuna è uguale a un’altra, e così nella giostra dei loro fascinosi nomi di donna si crea il gioco metaletterario e geometrico che, nel costruire il romanzo, allestisce anche uno spazio di carta: cornici, schemi di città, una contrainte che è un vezzo, ma che dà la forma al libro. Chiamarlo romanzo non è corretto: non c’è una storia in questo caleidoscopio di storie narrate e possibili. Parte del fascino che i racconti di Marco Polo al Kahn suscitano è proprio questa ineffabilità: saranno invenzioni della fantasia del viaggiatore veneziano, oppure mondi fantastici rintracciati davvero girando per il pianeta oltre i confini mai superati? Città che sono state, o città che arriveranno a disegnare il nostro futuro, specialmente oggi, un tempo sospeso in cui tutto è più complicato e miope, incluso il futuro e il senso stesso della città in trasformazione: città più green, aperte alla mobilità ciclabile, invase dai dehors tra locali che non possono permettersi distanziamento all’interno, città di spazi ritrovati, giardini in cui magari fare scuola, spazi comuni da rivitalizzare e attraverso i quali scongiurare una nuova quarantena da passare alienati, tra le mura di casa e i balconi affacciati su quel nido che, mai come adesso, ci sembra essere la città.

Lo spettacolo è quasi al termine: parte una canzone che riconosco, è Ha perso la città, di Niccolò Fabi. Il testo scorre, l’attrice lo ascolta insieme a noi. Ancora una volta mi sorprendo dell’attualità delle parole di Calvino: aveva già visto tutto, lo aveva colto affacciato davvero e metaforicamente a quel balcone di Villa Meridiana che pare ancora di vedere lì sotto, i tetti di Sanremo che precedono il porto e il mare, uno sguardo che fugge lasciandosi indietro campanili e serbatoi d’acqua, verso l’orizzonte.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!