Forse è arrivato il momento di parlare di un libro letto quasi due mesi fa, in un momento a dire il vero non troppo brillante, e poi, complici il frullatore di maggio e la devastante stanchezza di un giugno altrettanto denso, accantonato. Dico che è arrivato il momento perché questo romanzo sta ottenendo tantissimi riconoscimenti, e mentre si è già accaparrato il Premio Bagutta e la finale del Campiello, un paio di giorni fa è entrato a gamba tesa (primo, per numero di voti) nella cinquina del Premio Strega, il più ambito, il più prestigioso premio letterario italiano.

Sto parlando di La ragazza con la Leica, di Helena Janeczeck (Guanda), autrice che in tempi non sospetti, durante Torino che legge, ho anche incontrato all’Università per un intenso dialogo di un paio d’ore con gli studenti (sì, ero imbucata, come accade tante volte!). Ed è stato, a dire il vero, un incontro importante per me, per digerire una lettura che non è stata per niente facile, dura e rugosa, di quelle dove tenere salde le briglie, insistere, e probabilmente approfondire, durante o dopo. Anche se sono convinta di essermi persa dei dettagli storici, mi è rimasta però un’impressione di questo romanzo (sul senso del termino romanzo tornerò a breve), e uso impressione come termine volutamente fotografico: imprimere luce su una pellicola, in qualche modo dare vita a una filigrana visibile ma non troppo, chiara ma anche sfumata.

L’ombra che è venuta fuori da questo esperimento di camera oscura è stata quella di Gerda Taro, da silohuette sconosciuta, eroina di pagine in cui è costantemente vista da sguardi esterni, che la immortalano – la rendono letteralmente immortale – e la restituiscono nelle sue differenti pose. Il prisma Gerda Taro, la ragazza morta a soli 27 anni sotto i carri armati della guerra spagnola, la ragazza ebrea polacca, antifascista, incarcerata e poi fuggita a Parigi, la ragazza che per vivere batteva a macchina con la Remington, quella che passò poi le dita dai tasti alla Leica, la macchina fotografica che rese celebre Robert Capa, l’ultimo degli amanti di Gerda Taro, il nome per cui è ricordata, e forse il nome da cui la Janeczeck ha preso spunto per indagare il suo personaggio e affrontare il viaggio della scoperta.

È bellissima, Gerda Taro, nello scatto di copertina e in una serie di altri scatti con cui l’autrice decide di aprire e chiudere questo libro. È spiritosa, ironica, fa simpatia. Uno non immaginerebbe mai di poterle attribuire la biografia intensa, coraggiosa, anche smaliziata e così moderna della donna di cui si legge attraversando i tre grandi capitoli che compongono questo testo. Il testo: è necessario soffermarsi un attimo su come è strutturato, e sulla sua natura. Ho parlato di La ragazza con la Leica come di romanzo, ma non so se effettivamente sia il termine adatto. Sicuramente è un libro di narrativa: una parte della vicenda di Gerda Taro e di chi le stava a fianco è inventata, e così lo sono i dettagli, i pensieri, le emozioni dei personaggi. Ma la trama che tiene tutto insieme è quella della storia vera che riguarda la giovane protagonista del libro, sulla quale l’autrice ha naturalmente fatto approfondite ricerche. Ecco perché è strano leggere e scoprire di Gerda Taro in queste pagine, che non a caso si aprono con una piccola introduzione e analisi fotografica, e nello stesso modo si chiudono, andando alla ricerca di una valigia piena di foto. La fotografia come verità che finge, attimo che immortalato diventa realtà impressa su pellicola, fatto che sembra, segno che la semiotica guarda con sospetto, da una parte indice, traccia di luce, dall’altra icona, forme e contorni rassomiglianti.

La foto non è mai totalmente sincera, non dice mai tutto, svela una parte, un istante, un frammento di vita. Come non ha mancato di sottolineare la Janeczeck all’incontro che ho seguito, questo libro si muove quindi tutto sul confine tra realtà e apparenza, tra verità e ricostruzione – fotografica, letteraria, biografica -, lo stesso confine frequentato dai protagonisti, Robert Capa su tutti, il celebre reporter dell’agenzia Magnum che tutti o quasi conosciamo per uno scatto falso, forse addirittura opera di Gerda e della sua Leica.

Come dicevo, la figura e la vita della protagonista sono ricostruite in questo libro attraverso le costanti visioni degli altri. Sono tre: William Chardack, Billy detto il bassotto; Georg Kuritzkes, primo grande amore, Ruth Cerf, l’amica. Nessuno di loro è Gerda e parla come Gerda, tutti e tre, in modi diversi, e condividendo ricordi e impressioni differenti, la vedono e le danno forma attraverso pensieri, ricostruzioni a posteriori.

Neanche il tempo è quello di Gerda: la storia parte più tardi, a guerra conclusa, il detonatore della storia è proprio una telefonata di Georg, l’ex fidanzato di Gerda, a Billy, dall’Italia agli Stati Uniti. Da lì, una valanga di ricordi, pensieri, fili che si intrecciano attraverso episodi, piani temporali diversi. Non c’è una vera e propria trama, in questo libro, ma un gomitolo di ricordi, episodi, che parte, come sottolineava l’autrice, dalle cose piacevoli, e via via va a scoperchiare quelle legate a ricordi meno piacevoli, quelli che nei tre casi i personaggi preferiscono evitare fino a quando possibile. Una sorta di flusso di coscienza visto da fuori, tre universi personali che toccano Gerda, che la vedono e ne danno una testimonianza.

Ecco la difficoltà della lettura, una matassa disordinata di ricordi, ognuno parziale, incompleto, sempre in movimento, mai allestiti come una messa in posa, in costante (ri)definizione. Sono stata spaesata a lungo, dopo aver già attraversato molte pagine. Helena Janeczeck sostiene che in effetti si tratta dello stesso spaesamento dei personaggi, sparsi per il mondo e colti a ricordare cose che li riportano indietro, in maniera affatto ordinata, nel continuo viavai tra oggi e ieri, tra una giovinezza perduta che tuttavia è stata il momento di formazione decisivo, dal quale tutto è dipeso.

Solo alla fine del libro si avranno tre visioni più simili a una storia completa, si potranno ricostruire i fatti, quasi tutti, mettere al giusto posto sulla linea temporale episodi, cause e conseguenze. E tuttavia il personaggio di Gerda resterà solo come evocato, un carattere forte, una figura che si distingue ed emerge e che sembra di poter conoscere. Solo da una foto, tre punti di vista e tre “mirini”, non parleremo mai con chi sta dietro l’obiettivo, quell’obbiettivo che portò Gerda a morire giovanissima sul campo di guerra, una guerra che stava documentato con passione e determinazione.

Tema centrale di questa storia, che tocca sì Gerda ma anche tutti gli altri, è quello dell’impegno. Negli anni Trenta i giovani di questo romanzo sono tutti ventenni. Giovanissimi, eppure già perfettamente dentro al sistema della lotta contro le dittature. Una situazione che, se riportata a oggi, io trovo impensabile, così come trovo stranissima la figura di Gerda, ragazza impegnata, donna curiosa, coraggiosa, estranea a ogni classificazione. È così che l’ha voluta ricostruire l’autrice – perché sempre di ricostruzione ex post si tratta, purtroppo e nonostante le ricerche e testimonianze –  una donna che riassume in sé sfide e contraddizioni, una ragazza che vive grandi amori, ma spesso è sfuggente, affascinante e femminile, ma anche pronta a partire per il campo di battaglia, forte tanto da consolidare suo malgrado, senza forse rendersene conto dall’alto del suo apparente distacco, legami che resteranno. Sono le amicizie nella cui rete cresce, quelle nella cui maglia prende vita questa sua storia.

Non è un’eroina da emblema femminile, ha sottolineato l’autrice. Ed è vero, Gerda non è un modello, una figura da imitare, è una persona da conoscere, con la sua dicotomia che interroga noi lettori, quel misto di inspiegabile leggerezza e insieme determinazione attivate in un periodo storico che travolge senza scampo. La sua grazia mercuriale, così l’ha chiamata la Janeczeck, ed è verissimo, non esisterebbero sostantivo e aggettivo migliore. «Quello che mi ha attirato di Gerda è la sua sete di libertà».

Quello che incuriosisce noi lettori è l’altro lato di questa forza, di questa sete: la curiosità di capire meglio una figura sconosciuta e complessissima in un romanzo che è particolare, esempio di non fiction novel dove si mescolano ricostruzione storica dettagliata e invenzione autoriale. Una miscela di fatti che si sommano a un rapporto tra parole e immagini già faticoso, perché frutto di due creatori dello sguardo, Capa e Gerda Taro, pieno di insidie, di verità non dette, di falsità mascherate da reale. Non si poteva forse bussare con più efficacia alla porta di Gerda Taro, trovare una chiave per frugare nella valigia di fotografie che ne restituiscono perle di vita, definite e brillanti: osservarla come attraverso un mirino, vederla “da fuori” per vederla tutta intera. Scoprirla, ammirarla, criticarla. Come ogni personaggio letterario che si rispetti. Anche se lei non lo è: è vera. 

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!