Torno sul tema dell’isola per legarlo a qualche riflessione e lettura dedicata a Italo Calvino. Ho iniziato questo percorso nella tappa numero uno di un viaggio per l’arcipelago calviniano che è nato dalla suggestione visiva del progetto Atlante Calvino, di cui ha raccontato più volte il Corriere della sera. Nella precedente puntata – come direbbero in tv – mi ero soffermata su un racconto tratto da Gli amori difficili per indagare, con la scusa dell’isola del sud descritta, il rapporto dello scrittore con la realtà percepita e quella riportata sulla carta. Un tema cardine di tutta la poetica di Calvino, quello tra mondo scritto e mondo non scritto.

A un certo punto di quel racconto, l’Avventura di un poeta, il protagonista veniva come soffocato, annebbiato da un groviglio oscuro di parole e parole, una sorta di foresta intricata che si ramificava come una cortina a impedirgli di descrivere la realtà dell’isola, del suo mare e dei suoi abitanti, strappato dalla contemplazione della perfezione e dell’incanto del luogo, intaccato da storie, da vite e da narrazioni. Lo stesso concetto di intrico, capace di farsi addirittura labirinto, è il perno centrale di un racconto che io ritengo formidabile.

Il Conte di Montecristo

È contenuto in Ti con zero e si intitola Il conte di Montecristo, come il romanzo di Dumas. E a quello si ispira, rubando un paio di personaggi e una situazione di partenza per arrampicarsi però vertiginosamente in una speculazione metaletteraria al secondo grado – sia per il riferimento a Dumas sia per il riferimento allo stesso autore scrivente – che molto ci offre per riflettere sul tema del rapporto con la realtà.

Siamo, naturalmente, sull’isola di If (ne avevo parlato descrivendo una Marsiglia letteraria, su Turismo letterario!), l’isola fortezza dove si trovano imprigionati Dantès e l’Abate Faria. Chi narra è Dantes, chiuso nella sua cella dalla quale scrive e da cui prova a immaginare la topografia della prigione inespugnabile dalla quale desidererebbe fuggire. Il suo è uno sforzo tutto mentale, cognitivo: “l’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigione”, ci dice. Faria, invece, è la parte pratica: intento a scavare cunicoli per cercare vie di fuga, sbaglia in continuazione e, così facendo, non fa che fornire informazioni a Dantes: proietta lo spazio, come un narratore in un libro, e Dantes può così – come il lettore – osservarlo e valutare i movimenti corretti e sbagliati a distanza.

È chiaro che Calvino non ci sta parlando solo dei personaggi del Conte di Montecristo, ma di un modo di guardare ai fatti letterari e alla comprensione del mondo, in quell’enigmatico, a volte, meccanismo occhio-mente che Marco Belpoliti descrive molto bene nella sua monografia Einaudi dedicata a Calvino.

Nel buio della cella

Leggere l’avventura del poeta e quest’altro racconto uno dietro all’altro mi ha fatto notare dei giochi e dei rimandi. Entrambi, infatti, giocano molto sul contrapporsi di suoni e silenzio: quelli dell’isola, quelli della prigione. Un silenzio perfetto, di prigione e di incanto, e rumori di vita che appare, di movimenti necessari all’azione, quelli dell’Abate Faria. Da una parte il poeta è abbagliato dalla bellezza della realtà, sconvolto da una molteplicità che annulla le parole perché è oltre, un grande telo bianco su cui scrivere. Dall’altra parte la cella è solo buio, dal quale evadere immaginando, con la mente, perché l’occhio, qui, è incapace di vedere.

Ecco perché Dantes conserva tutto nella mente: il suo schema generale della prigione che corregge a mano a mano che Faria, che ossessivamente combina e riprova, sbaglia. Nel labirinto è facile perdere la via, ma se il labirinto diventa invece mentale, è possibile addirittura soggiornarvi per architettare meglio la via di fuga che deve esserci. “Dalla mia cella, poco posso dire di com’è fatto questo castello d’If in cui mi trovo da tanti anni imprigionato – ci spiega Dantes – La finestrella a grata è in fondo a un cunicolo che fora lo spessore del muro: non inquadra nessuna vista”. Non è nemmeno possibile cercare di intuire distanze e dimensioni, le mura spesse ingannano l’occhio creando effetti a imbuto e la realtà non è percepibile. Unica soluzione: formarsi delle immagini mentali attraverso i dati ricevuti da Faria, e attraverso i suoni.

Questo passaggio, tutto incentrato sull’udito, è da sempre uno dei miei punti preferiti del racconto per la capacità – e qui sembrerò preda del paradosso – visiva e descrittiva:  “Il mare lo si sente battere, specie le notti di tempesta: alle volte pare quasi che le onde si rompano qui contro la parete alla quale accosto l’orecchio; alle volte pare scavino dal basso, sotto gli scogli delle fondamenta, e la mia cella sia in cima alla torre più alta, e il rombo salga per la prigione, anch’esso prigioniero, come nella tromba di una conchiglia”.

L’irraggiungibile ipersfera di If

Siamo, insomma, nel regno della mente e delle ipotesi. Dantes procede così: immagina, fa supposizioni sulla topografia della fortezza, sulla sua mappa e sulla via più breve per raggiungere il mare. Al sicuro, quasi, nella sua immagine mentale, non fa come il poeta, che resta abbagliato, ma continua a lavorare, a costruire mappe, ipotesi, insomma riesce a muoversi, mentre la realtà gli appare, per quel poco che ne può vedere, ingannevole, lacunosa, contraddittoria. Uno è stravolto dal tuffo sull’isola realtà, incapace di dirne a parole, l’altro, invece, è totalmente ripiegato sul mondo scritto, immaginato.

È un puro pensare finalizzato alla fuga: mentre Faria sbaglia, Dantes si serve degli errori per rappresentare la prigione nella sua testa e averne così un’idea oggettiva. Il presupposto è che la fortezza sia perfetta, e che dunque non sia possibile evadere. Solo un errore di progettazione lo permetterebbe, e per trovarlo i due si muovono con soluzioni opposte: Faria smonta pezzo dopo pezzo, cerca di impugnare la molteplicità delle cose possibili, Dantes la pensa, congettura.

“La ricerca del centro d’If-Montecristo non porta a risultati più sicuri della marcia verso la sua irraggiungibile circonferenza: in qualsiasi punto io mi trovi l’ipersfera s’allarga intorno a me in ogni direzione; il centro è dappertutto dove io sono; andare più profondo vuol dire scendere in me stesso. Scavi scavi e non fai che ripercorrere lo stesso cammino”. E così, la fortezza diventa la scrivania di uno scrittore: la fuga, la possibilità della fortezza perfetta, esistono solo sulla carta? “Le intersezioni tra le varie linee ipotetiche definiscono una serie di piani che si dispongono come le pagine di un manoscritto sulla scrivania d’un romanziere” ci dice Calvino attraverso il suo Dantes, e ci apre così all’isola vera nel cuore di questo racconto: il romanzo, la scrittura, l’isola di Montecristo diventata iperrealtà.

L’isola di Italo Calvino

Facendo qualche superficiale ricerca in rete dedicata al tema dell’isola in Calvino, mi sono imbattuta nell’esistenza di un film documentario addirittura candidato al David di Donatello nel 2006 – anno di realizzazione – come miglior lungometraggio documentario. Il titolo farà capire il perché del mio interesse: L’isola di Calvino, si chiama proprio così. Peccato non averne traccia altrove, perché il film, che io sappia, non esiste online né in dvd. “Un viaggio nelle radici e nella formazione di Italo Calvino – recita la descrizione – raccontato attraverso i luoghi calviniani e le testimonianze di amici come Caridad Quesada Bernal (figlia di El Cubano, collaboratore di Mario Calvino), Libereso Gugliemi (giardiniere di Villa Meridiana, casa dei Calvino a San Remo), Helio Orovio (musicologo, giornalista, poeta e scrittore cubano), G.B. Pigati (compagno di scuola di Calvino), Emanuele Luzzati, Renzo Piano, Eugenio Scalfari, Gore Vidal e Inge Feltrinelli”.

È parso evidente anche a voi, e anche voi avete fatto un salto sulla sedia? Italo Calvino su un’isola c’è nato. Cuba, della quale non conservava ricordi perché, già a tre anni, era tornato in Italia, nello specifico a Sanremo, dove il padre, il celebre agronomo Mario, aveva ricevuto l’incarico di dirigere la stazione sperimentale di floricoltura. È un dettaglio biografico di poco conto, lo stesso Calvino ne parlava in questi termini, come di un’etichetta esotica che compariva in biografia senza in realtà aver lasciato traccia. Chi lo sa, se una radice isolana in quell’immaginazione sfrenata era invece rimasta, silenziosa ma sufficiente a suscitare fascinazioni o riflessioni. Quando, dopo aver esplorato racconti e romanzi calviniani in cerca di isole, mi è balenato in testa il nome di Cuba, mi sono ritrovata a sorridere: meraviglioso Calvino, mi hai sorpresa un’altra volta!

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!