L’intenzione era di rileggere e parlare di questo libro in occasione del primo anniversario dalla scomparsa di Mimmo Càndito. La verità è che, dopo aver conservato per qualche anno questo libro sullo scaffale, senza il coraggio di leggerlo e dopo la morte del mio professore di linguaggio giornalistico nel 2018, ho iniziato cauta una lettura che, dopo le prime tre pagine, mi ha coinvolto emotivamente tanto da dover rallentare il ritmo. 55 vasche è un libro che ho letto a poco a poco, quasi un distillato, giorno dopo giorno. Perché aveva una forza inaudita che ogni volta che lo aprivo mi colpiva, mi schiaffeggiava e mi accarezzava insieme.

55 vasche è il libro uscito nel 2017 che racconta la storia del tumore che ha colpito Mimmo Càndito, celebre reporter di guerra per La stampa nonché mio professore di linguaggio giornalistico all’Università di Torino. Un docente che, oltre a restare scolpito nella memoria per il suo carisma, per le sue lezioni, per il suo libro I reporter di guerra, e per il parallelo laboratorio di scrittura giornalistica del quale conservo episodi indimenticabili, ho continuato a incontrare per le più disparate ragioni anche dopo l’università, e che si è sempre dimostrato affettuosamente interessato alle mie vicende, sinceramente coinvolto, teneramente incoraggiante.

Sapevamo che il professore era malato. Ha un tumore al polmone, gli è venuto a causa dei suoi viaggi in territori di guerra, respirando polveri e microelementi velenosi. È in cura negli Stati Uniti. Queste erano le frasi che giravano a mezza voce. Ma che non scalfivano nemmeno un po’ la forza di quella figura alta e abbronzata che, facile capirlo dopo poche parole, rappresentava IL giornalismo. Se vado indietro con i ricordi credo di aver visto Mimmo Càndito una delle ultime volte in via Matteotti a Sanremo con la moglie, la giornalista Marinella Venegoni, durante il Festival della canzone italiana, dove lei lavorava. Lo avevo salutato, lui si era fermato e mi aveva chiesto del lavoro, incoraggiandomi.

Ecco, quando ho aperto 55 vasche e ho iniziato a leggerlo, ho risentito con una nitidezza estrema la voce del mio professore. Intendo proprio il suono, l’articolazione della sintassi nelle frasi che, lo percepivo con chiarezza, erano autenticamente sue: le avrebbe dette di persona, erano la sua scrittura, già letta tante volte su testi, libri, giornali, la sua voce. Mimmo Càndito se ne era andato un anno fa, ma io lo avevo ritrovato dentro le pagine del suo ultimo libro.

È stata un’emozione molto intensa. Ho ritrovato lui, il suo modo di affrontare la vita, messo alla prova non solo tra bombe e mitragliate dove già lo avevo incontrato leggendo I reporter di guerra, ma davanti alla prova più dura: hai un tumore, le possibilità di operare non esistono. Stop. La diagnosi improvvisa e inaspettata che avrebbe demolito chiunque, che solo a leggerla fa sgomento: ricordi di parenti, amici, persone intorno, e l’inevitabile immedesimazione “e se capitasse a me”?. Non è un libro che mette a proprio agio: è un libro che racconta la verità, e la verità è uno schiaffo in faccia, un invito a non sottovalutare nessun aspetto del quotidiano, di se stessi, della propria insondata profondità. 55 vasche inizia così, queste le parole di ingresso al racconto intimo e però anche universale del mio professore: «La paura di morre, la prima volta, mi prese in un tempo lontano da oggi». Un incipit assoluto, spiazzante, che inchioda. Inchioda ancora di più ora che Mimmo Càndito non c’è più, e la paura di morire, umana e vivissima, è diventata una morte che risuona di immagini, episodi e parole, come quelle di questo stesso libro. È stata un’emozione intensa, anche per questo incipit.

Il sottotitolo di 55 vasche è “Le guerre, il cancro e quella forza dentro”, perché nel racconto di come gli fu diagnosticato il tumore al polmone, di come gli venne comunicata la sentenza eppure di come, nel contesto di una clinica americana e di cure sperimentali, Mimmo Càndito non si arrese mai, c’è la sua vita intera. Una vita che è un corpo a corpo con sfide sempre nuove, tra cui quella costituita dalla professione di reporter di guerra. La morte Mimmo Càndito la conosceva bene, l’aveva sfiorata e sfidata tante volte, su quei campi in tutto il mondo, dall’Afghanistan all’Africa, al Sudamerica. La guerra, racconta, sa di morte, mette paura. Ma se sei davvero un giornalista, non lo fai, ma lo sei, accade che l’angoscia del non capire i fatti che ti circondano possa diventare più disperata di quella paura di morire in cui sei immerso, talmente abitudinaria da non sembrare più vera.

perché ora, dentro di te, capire conta assai più di qualsiasi paura, anzi la cancella, la paura: dà identità, consistenza concreta, a una realtà che all’inizio, quando arrivi in guerra, ti si mostra invece ambigua, angosciosa comunque, e che senti che non riesci a piegare al tuo bisogno di sapere per poterne tentare un controllo

Finché non cade qualcuno intorno, e lo spettro ritorna, eppure incessantemente vai avanti, come una divinità immortale progettata per resistere a tutto: “a me non capiterà, non può capitarmi”. Essere circondato spesso, dovunque, dalla morte, ha reso eroicamente forte un uomo che, per la sua stessa natura umana, aveva addosso la condanna di tutti noi altri. Mimmo Càndito si è sempre sentito vivo, irradiato di una vitalità profonda, che aveva origini nella sua storia, nel suo carattere, nella sua cultura e nei suoi valori. Ho trovato di una tenerezza profondamente umana il suo raccontare Miami, la città dove scoprì il tumore e dove fu costretto a restare per la cura, l’operazione e la lunga degenza post operatoria, con il mare, la presenza dell’oceano, rassicurante elemento acqueo – Mimmo Càndito amava nuotare – e il sole, da cui amava altrettanto farsi colorare la pelle.

La delicatezza con cui va affrontato 55 vasche è l’altra faccia del coraggio con cui ci si deve preparare a ricevere la lama della sua verità nelle viscere. Fa male a chiunque sentirsi parlare di una malattia che condanna, che metterà alla prova in modo spietato il corpo e l’identità di ciascuno, gli affetti, l’intero mondo del quotidiano e il modo di affrontarlo ogni mattina. Fingiamo, un po’ miopi, un po’ struzzi, di non vederla quella cortina di morte, malattia e difficoltà che impermea il mondo. Invece Mimmo Càndito ce l’aveva ben presente, eppure senza alcun tipo di cinismo, pessimismo o chiusura su stesso ha elaborato un modo di guardare al mondo  – una filosofia? – di una forza potentissima. E bellissima. La morte c’è sempre, si fonde con la vita stessa e la rafforza, acqua su una pianta assetata, lucido su una superficie opaca, occhi su un fronte di guerra dove capire: è questa la posizione di vedetta da cui ha guardato alla sua professione e, di conseguenza, alla sua vita il mio professore. La vita e la morte sono insieme su una stessa linea invisibile in cui si mostrano con la stessa faccia: esserci diventa la condizione per capire davvero.

Zero virgola zero possibilità di operare. Eppure la vita ha lottato disperatamente, come da ragazzino, facendo sport, scoprendo il piacere della lettura, caricandosi su un treno per provare l’esperienza del lavoro migrante in Germania. Mimmo Càndito era uno scrigno di umanità infinita, bellissima. Lo si percepisce leggendolo ricordare tantissimi episodi passati nelle spossanti sedute di chemioterapia, durante la terribile degenza post operatoria, la disperazione addosso, lacrime chiuse nel fondo degli occhi e della gola, e ancora la lucida coscienza di essere fortunato, un privilegiato rispetto alla disperazione di popoli conosciuti in guerra, popoli di un altrove che andava raccontato, ma che non era la vita quotidiana. Ieri e oggi si sovrappongono in questo libro intenso: le partenze con la sacca in spalla per le mille avventure, l’affetto immenso per gli amici, il dolcissimo dolore per Marinella, la voglia di esserci, di vedere e capire. Il giornalista, insomma.

E l’uomo, quello dai grandi legami di amicizia e solidarietà coltivati con i colleghi in situazioni di pericolo, alberghi senza luci, senza acqua, tra proiettili e bombe. Pericoli capaci di creare senso di appartenenza, forza, identità comune. Come con la SAS, il gruppo di colleghi reporter, il gruppo di amici veri e sinceri, con i quali spartire angosce ma anche empatia, quella caratteristica che secondo il mio professore non deve mai mancare al reporter di guerra, insieme alla resistenza fisica notevole, per superare situazioni affatto comuni. Tra le storie di questa storia c’è un distillato di giornalismo: rapporti con le fonti, con la redazione, l’arrivo della tv e la rottura degli equilibri di una volta, la Guerra del Golfo, primo conflitto mediatico, la consapevolezza di essere solo e di valere solo, per la redazione, come pedina da uccidere o sequestrare, la condivisione di cavi, cuffie, parole sottovoce e lo scioglimento di tensione della babele di lingue quando eccola, arriva la notizia. La serenità e il coraggio delle prove estreme, dalla guerra all’ospedale: avventure straordinarie e fortemente rischiose che fanno scrivere a Càndito “mille vite non avranno mai quello che io ho vissuto”.

Più volte mi sono chiesto dove stessero le radici di quel mio istinto quasi naturale a mettere in campo il peso d’una volontà che non intende cedere alla forza della realtà. Sono risorse che ciascuno di noi ha certamente dentro di sé, solo che poi molti non riescono a recuperarne l’intervento, vinti dalla fatica del vivere, dalla pigrizia del non impegnarsi se non c’è un riscontro immediato, dall’abitudine a non cogliere i segnali che lo spirito, l’animo, il nostro cervello, ci lanciano confusamente nella galassia indistinta dei neuroni e sinapsi dentro la quale consumiamo i nostri rapporto con la nostra mente.

E quella forza dentro, poi: l’energia mentale poderosa che ha acceso quest’uomo tenendolo in vita, la sua bellezza. “La cosa più importante era che dovevo avere la capacità di conservare la mia energia mentale-  scrive infatti – dovevo saper continuare a sostenerla, senza mai lasciarmi smontare dalle difficoltà e, soprattutto, non piegarmi – per pigrizia o rinuncia o stanchezza psicologica – a ciò che ora mi sembrava impossibile e probabilmente non lo era. Non dovevo cedere”.

Su tutti quelli narrati, un episodio incantato contenuto in 55 vasche mi è rimasto in mente e credo sia ormai fissato e ritorni a farmi immaginare tutta la vitalità, la forza, la tenacia di un Mimmo Càndito reporter in Brasile. È una storia emozionante, che racconta di un piccolo aereo di fortuna che si addentra fin nella profonda foresta amazzonica, a scoprire una popolazione lontana dalla civiltà, una scoperta sensazionale à la Levi Strauss, tra la forza immensa della foresta selvaggia, l’umanità comune, e una spiritualità contenuta in un rametto scuro di urucum, conservato a lungo dal mio professore a protezione dagli spiriti maligni delle foreste. C’è tutto lui in questo racconto: la sua voglia di vedere, la sua profonda umanità e il rispetto, la curiosità, la tenacia:

Viaggiammo ad appena qualche sbalzo sopra il mare verde della foresta amazzonica, un orizzonte senza limiti, con il motore che ronfava tranquillo e, sotto che quasi le toccavi, le punte di alberi giganteschi, rami e foglie di liane che si intrecciavano in un affascinante mosaico di tonalità di colore, dal verde quasi nero a un pastello appena tinto.

Mimmo Càndito amava leggere, fondò L’Indice del libro del mese e, come racconta in questo suo libro, “non c’è stata missione per la quale io sia partito, guerre o storie di popoli che dovessi raccontare, che non portassi nella sacca con me un paio di libri, quando non tre o quattro”. Compagnia, rifugio, curiosità nuova da foraggiare, bellezza e umanità. Forse c’era questo, nei libri buttati dentro la sua sacca. Non lo potrò più sapere dalle sue vive, calde parole, ma è quello che voglio immaginare, la foto di me che lo intervisto a Perugia sullo scaffale dei miei libri di giornalismo, la coscienza che torna costantemente a lui come riferimento per il mio lavoro. Conoscere Mimmo Càndito è stato un onore immenso: questo libro è stato e sarò prezioso come ogni sua parola scambiata tra l’Università e i banchi della vita.

Leggerlo è stato in parte doloroso, molto emozionante, immagino lo sarà tutte le volte che vorrò ritrovare la sua voce tra queste pagine, e una preziosa lezione di vita e di forza:

la volontà delle 55 vasche, mi dicevo, è una lezione preziosa: se ti pare che non ce la fai più, e stai annegando, se le braccia non vanno, e anche le gambe si fanno di piombo, e il respiro si strozza in gola, e pensi ora basta, e ti vuoi fermare, allora devi pensare che fermarti significa rinunciare alla potenza straordinaria che hai dentro di te. Devi continuare, invece; e continuare ti darà la forza per contare fino a 55, e anche più, se vuoi.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!