È stata l’estate in cui abbiamo perso la spensieratezza. L’estate del 2009, san Giovanni ancora in corso a Oneglia, il caldo esploso poco dopo, dichiarazione di via alla stagione, e tu non c’eri già più. Ti sei ucciso, sparandoti in testa, in una notte di fine giugno. Un sabato sera, il primo d’estate: tutti noi, coetanei, fuori a ridere, chiacchierare, inseguire qualcuno che ci interessava, bere una birra. La birra che ti è costata la vita.

Mentre ti fermavano i carabinieri e ti facevano l’alcol test, io ero probabilmente seduta sul muretto della Spianata con quattro amici. Avevamo comprato le caramelle gommose a un banchetto e le mangiavamo, ricordando sapori di quando eravamo bambini. Non pensavamo che tutto questo fosse normale, vivo, quindi importante: era naturale e bastava così, tra una gonna più carina indossata per uscire il sabato sera, i cellulari che ancora non erano così pervasivi e servivano per messaggiare a qualcuno Dove sei, ti aspettiamo ai Sogni d’estate.

Eravamo due mondi diversi, e per quanto ti conoscessi non ci siamo mai frequentati. Mentre era in corso la tua tragedia, nella via parallela a dove vivo io, pochi metri in linea d’aria da casa, decidevi di mettere mano alla pistola di tuo padre e farla finita: quell’onta sulla patente, aver deluso il tuo genitore allertato di notte per una birra, ti ha acceso una miccia segreta, quella che non dovrebbe nemmeno esistere, quella che noi altri, seduti a mangiare caramelle di gomma sul muretto, non avremmo neanche preso in considerazione.

Invece ci pensavo qualche giorno fa: era il 2009, sono trascorsi dieci anni da quando non ci sei. Di anni ora ne abbiamo 32, dieci in più di quelli che condividevamo con te quella notte folle. Siamo diventati persone adulte, e tutto quello che è racchiuso nei nostri primi vent’anni, dalla scuola alle uscite il sabato sera da studenti, ha disegnato quello che siamo oggi. Dieci anni in cui abbiamo finito l’università, dato esami, fatto colloqui di lavoro, in cui ci siamo messi alla prova, ci siamo innamorati e siamo stati lasciati, abbiamo visto paesi nuovi, conosciuto persone nuove lontano da qui. Ci siamo tuffati in mare per celebrare un’altra estate, abbiamo fatto aperitivi ridendo per scemate, ci siamo tirati indietro, abbiamo pianto senza ritegno davanti agli altri, abbiamo baciato, accarezzato, chiesto scusa, ci siamo arrabbiati e abbiamo creduto di restare soli. Ci siamo vestiti a festa per il matrimonio di un amico, abbiamo sfiorato le manine di un bimbo, visto i nonni incurvarsi e continuare a sperare per il nostro futuro, abbiamo bevuto caffè buonissimi, altri orribili, assaggiato sapori nuovi, visto il lievito far montare la pasta. Abbiamo abbracciato, sognato, progettato. Tutto mentre tu sei rimasto immobilizzato in quei 22 folli anni in cui in un soffio hai deciso che tutto questo non l’avresti mai più visto, hai rivolto la pistola a te stesso, e hai premuto il grilletto.

Me la ricordo la domenica successiva, ricordo bene il tardo pomeriggio in cui tornavo dal mare e – era l’epoca in cui ancora non si era schiavi dei social e delle notifiche – aperto il pc sulla scrivania, aperto Facebook, iniziai a scorrere strani post. Il cervello aveva capito prima di me, e l’angoscia montava mano a mano che leggevo messaggi strazianti di addio, articoli di giornale condivisi con commenti. Li avevo aperti, ancora in piedi davanti al tavolo: dovevo sapere, dovevo capire il corso di quella scarica, di quel morso di amarezza profondissima che mi stava attanagliando lo stomaco.

Non ti conoscevo, non eravamo amici, però avevi la mia età, avevi fatto le elementari nella mia classe parallela, con le stesse maestre, avevamo un sacco di amici in comune. Erano loro, in quel momento, a vivere la mia stessa angoscia. Li avrei rivisti non più tardi di quattro giorni in una piazza san Giovanni inondata di sole estivo. C’era il mondo, al tuo funerale. Ricordo la chiesa, piena, il mio migliore amico, che ti voleva un gran bene, in un angolo, la mia mano sulla sua spalla e il silenzio, le lacrime trattenute perché non è tanto vergognarsi, è che non servono.

Quando la bara è uscita, portata in spalla dai tuoi amici – i nostri comuni amici – la piazza era un mare di costernazione e sgomento. In due assistevamo al tutto staccati dalla folla, dritti in piedi, a fianco, non una parola. Milvia all’edicola commentava, dietro, di quanta gente ci fosse, di quanti ti conoscessero e fossero venuti a renderti l’ultimo saluto. Tra la gente che attorniava il sagrato vedevo visi noti. C’era la nostra maestra comune, Giovanna. Pensavo a cosa potesse provare: perdere un alunno, suicida, pochi anni dopo averlo accolto nel banchetto di prima elementare, timido nel grembiulino, avergli insegnato a leggere e scrivere, averlo invitato a leggere i suoi pensierini sul quaderno. C’era la nostra amica comune, che così tanto ti voleva bene, il viso straziato dalle lacrime e un vestitino estivo nero. Al funerale di un amico, a 20 anni, si va in rigoroso nero. Non abbiamo fatto una parola, noi due ritti fianco a fianco: gli occhi puntati alla scena, la mente soggiogata da una cosa più grande di noi, di tutto, e di una vita che si schiudeva mentre tu decidevi che non sarebbe mai più stata vita.

È stato lì che si è squarciato il fondale, lì che abbiamo perso la spensieratezza. Tra la morsa allo stomaco alla scoperta della notizia e lo sguardo del nostro amico sotto la tua bara, fasciato in una giacca elegante che il due luglio, caldo estivo, era stridente. È stato tutto stridente, nella tua tragica parabola di vita. Così violento, così urlato, così drammatico da segnare un prima e un dopo anche per me, che alla terribile fine della tua vita, e della tua famiglia, ho assistito impotente e addolorata da lontano. Da quel giorno sono state espunte dal mio vocabolario le frasi fatte “mi sparerei”, “spararsi un colpo in testa”, da quel giorno ho smesso anche di simulare la pistola con le dita della mano, puntarla alla mia testa o a quella di altri. Sono frasi, e gesti, che non dico e non faccio da dieci anni: è una scelta che ho traghettato con me nell’età adulta, e resterà tale. Ogni volta che, intorno, qualcuno mima una pistola o parla retoricamente di “spararsi”, io penso a te, e abbasso il volume di tutto. Perché ogni cosa perde importanza davanti al tuo gesto di dieci anni fa, ogni cosa sa di momento passeggero, ostacolo più o meno alto da affrontare. Guardata nel suo altro verso, ogni cosa è affetti, relazioni, bellezza di stare al mondo. Tutto questo lo sapevo già, non mi serviva affatto l’esempio che ha segnato l’estate dei nostri 22 anni. Ma c’è stato, e ha rappresentato un punto ben definito nel percorso di tutti.

Nei giorni tra la tragedia e il funerale, me lo ricordo bene, studiavo semiotica della cultura. Faceva caldo, non ci capivo nulla e ogni giorno mi ero posta l’obiettivo di raggiungere un tot di pagine secondo una tabella di marcia. Che orizzonte piccolo e povero, mentre tu ti eri neutralizzato nella più grande tragedia del mondo. Ma nel mio modesto percorso di vita guardavo, a mio modo, avanti. Avrei preso un trenta, un treno per il mare, avrei visto uno spettacolo teatrale con gli amici, fatto nottata a chiacchiere in un letto non mio e mi sarei sbucciata un ginocchio in un garage. Tutto, pochi giorni dopo che tu non c’eri già più.

Da quel 2009 molto spesso ripenso alla tua storia triste e disperata e, quando tutto inizia a fare stridore e angoscia, immagino l’abbraccio che forse ti è arrivato troppo tardi, mentre eri già in quella bara, sprofondata nella folla e nella luce del primo pomeriggio di un’estate che non avresti mai vissuto. È una storia che nessuno vorrebbe mai raccontare, che nessuno rivive perché il suo fragore di buio assoluto fa così male che tendiamo tutti a chiudere la botola, a non far passare l’oscurità. Però di quella piazza il giorno del tuo funerale io ricordo il sole, la luce, il cielo azzurro, e te lo dedico ogni volta, Nadir.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!