È il giorno due: tutti parlano di tempo da riempire, a me il tempo è sfarinato via dalle mani e dall’orologio come borotalco. Ore davanti al pc, ore sui tasti, ore di notifiche, mail, messaggi. Oggi, come ieri. Non troppo diverso dal solito, eppure eccezionalmente differente dalla routine che, seppure carica, aveva un freno di emergenza sempre attivo.

Il punto è che ora, nell’emergenza, ci siamo a mollo. Non me ne rendo ancora bene conto, confinata nella stessa casa dove mi trovavo in circostanze normali, a osservare il giorno che si fa tramonto e poi buio dietro questo schermo. Esagerata? No, è così: il lavoro è una montagna, e adesso che è cambiato tutto, l’unica prerogativa è che le storie da raccontare per un giornalista sono tantissime, forse ancora più di prima. Vanno trovate, vagliate, controllate. Intanto bussano a ogni porta: amici che non senti e senti di più adesso, imprevisti che si impongo alla tua attenzione mediatica, distrazioni che ti rapiscono mentre inviti alla lettura, e tempo per lettura e riflessione tu non ne hai. Una scrittura più pacata che avrebbe tanto bisogno di cura e dedizione, un silenzio che non c’è, anche se fuori è tutto silenzio, lo schermo brucia di parole, è una mitragliata senza sosta.

Il giorno dell’emergenza, il giorno due è così.

Sono andata a cercare la parola sul dizionario, in semiotica si fa così: si esplora una rosa di significati per entrare meglio nel senso. “Circostanza imprevista, accidente” mi dice allora Treccani online. Nessuno se lo poteva nemmeno immaginare: è una storia da libro, questa, e chi lo avrebbe mai detto che ci saremo finiti dentro, tutti, a parlarci per chat, a inventarci campagne social, a lavorare da un minimondo virtuale per portare parole, storie e conforto, informazione e distrazione, sollievo e verità?

No, io non lo avrei mai detto. Continua a restarmi molto ostica la comprensione profonda di quanto mi circonda. Non lo contemplo, non posso vederlo dall’alto e constatarne la forma, sancirne dei confini. Dilaga e basta, e io non lo so arginare, non lo so vedere, nessuno può farlo.

“Momento critico, che richiede un intervento immediato”, aggiunge Treccani. Subito, agire, è un’emergenza: nessuno lo aveva previsto, non c’erano regole, e se c’erano sono comunque tutte decadute. È tutto da costruire, tutto da tenere insieme. Costruire un bastione di difesa, e intanto darsi ordine, rifarle, le regole, sulla base di un poco di quello che era prima e, soprattutto, sulla base dell’emergenza pura. Che è una cosa a sé, che si alimenta da sola e di sé stessa, e che mai, prima, avevamo vissuto.

Siamo la prima generazione a vivere una cosa simile da dopoguerra. Può essere? Può essere. “Improvvisa difficoltà”: andate indietro con i ricordi. Quand’era? Fine febbraio? Come è iniziata? Come è lievitata? Ce ne siamo accorti quando è entrata, così potente e deflagrante, nelle nostre vite? Quando ce le ha prese e ce le ha strapazzate come mai avremmo saputo sognare? Io non lo so più: i riferimenti temporali si perdono in un indietro sfocato. La mia vita aveva un senso, un andamento, un suo ritmo. Aveva difficoltà, delusioni e fatica, ma era tutto “regolare”. E poi, eccoci qui: tutto da rifare.

La crisi distrugge, la crisi ricrea. Una parvenza c’è: sarà vero? Non ho avuto tempo di calcolare, di pensare. E dire che stavo già pensando, stavo proprio calcolando, era un momento così, era un momento in cui non mi decidevo. Dondolarsi. Mai sbilanciarsi. Equilibrio? Non importa sapere la risposta, perché ha deciso la vita, la sorte, madre natura o chi per essa, fatto sta che bene o male ho dovuto chinare il capo, l’abbiamo dovuto fare tutti, e adattarci, e non dire “ma” e non dire “e se”. Perché è così: il lavoro è cambiato, la situazione è cambiata, l’orizzonte è incerto quanto vasto e pieno di cose. Se saranno belle, brutte, se ci saranno o no, un po’ dipenderà anche da quel che seguirà a questa forzatura immensa.

“Nel linguaggio giornalistico (seguito da un sost.), situazione di estrema pericolosità pubblica, tale da richiedere l’adozione di interventi eccezionali”: Treccani ci porta infine qui, nel posto dove siamo tutti. Una grande pericolosità alla quale tutti siamo esposti, e mentre lo scrivo Radio Montecarlo manda a sorpresa Ordinary People e la mia testa parte, le dita autonome come sono ormai da giorni, settimane, da anni, la testa indietro nei ricordi, una sensazione che danzava nelle notti del 2005, torna a trovarmi a 15 anni di distanza. Ammansisce tutto. Le ingiustizie, le prese in giro, le arrabbiature, le colpe. Le colpe? Ma di che? E basta arrabbiarsi, che tanto non servirà certo a sconfiggere il virus, a trovare pace, a trovare soprattutto un senso e un futuro a questo grande tempo di marzo, che macina la primavera che ci aspetta. Io ne sono convinta, l’ho seminato oggi al vento del web, alle voci amiche: non lo dico con retorica, ho scritto, io ci credo davvero, credo nella bellezza, nelle persone, nei valori.

A volume alto nel silenzio della casa, Ordinary People, John Leggend

We’re just ordinary people
We don’t know which way to go
‘Cause we’re ordinary people
Maybe we should take it slow

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Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!