Quindi è venerdì. Una settimana che è volata, non so bene come, il tempo ha perso consistenza, frena frena frena. Eccoci: è venerdì. Fa un freddo invernale, piove, tutto è grigio, statico, un po’ vuoto. Oggi mi sento così: le ore si accavallano e concludo poco. Ho freddo, i pensieri tornano sui guai che sento e vedo intorno. Dovrei finire cose, anzi vorrei, perché questa tensione del “to do” mi disarma e mi stacca dall’ambizione vastissima che sto coltivando e che scalpita oggi più che mai: studiare.

Studiare come soluzione lenta, come desiderio che finalmente, dopo anni, si ritrova. Studiare come voracità di saggistica che scalza il passo alla narrativa già da un pezzo. Forse ce n’era bisogno, forse era quello che volevo da tanto. Meno computer, più pagine. E magari tornare a imparare cose, ci provo già da oggi, in modo fallimentare con Indesign e le sue versioni non propriamente autorizzate che ho stratificato negli anni. Finisco per ottenere un trial di 30 giorni, tanto basta alla quarantena, e qualcosa combinerò, chissà quando, nonostante abbia tutti gli appunti a Torino.

Ma torniamo a oggi, giorno numero diciannove, malinconia e stasi, che alle sei di sera incontra la mestizia. È una parola che mi viene così, spontanea, mi sale da dentro. La appiccico all’immagine forte di piazza San Pietro vuota, della pioggia che cade intorno al Papa, solo, il quale prega per l’umanità contro la pandemia. Non vado in chiesa da un paio di mesi, ormai, non ascolto una messa nè partecipo da inizio febbraio. Unica eccezione, l’ingresso ansiogeno in san Giovanni, a Imperia, nei primi giorni di quarantena, lo raccontavo qui nel diario. La soggezione di un edificio vuoto in una mattinata nuvolosa in cui l’unico rumore era quello degli addetti alla disinfezione della strada, gli avvisi di stop alle celebrazioni, il vuoto assoluto delle navate. Sono scappata, non ho retto il peso di quell’intimità.

Lo hanno detto in tanti, ma mi piacerebbe tornare a riflettere sul tema: la quarantena coincide con la Quaresima, quest’anno. E se negli ultimi tempi già vivevo con poco spirito le cinque settimane antecedenti alla Pasqua, vuoi la frenesia del lavoro, vuoi una forma di superficialità alimentata dal cinismo, quest’anno che avrei tempi rilassati e spazio mentale per addentrarmi meglio in qualche meditazione, ci riesco ancora meno. Sono distantissima, chiusa nelle stanze di casa e nelle stanze della mia mente che difficilmente, senza aria e passi da fare, accoglie giri di pensieri differenti dai soliti. Ansie, cose fare, il futuro, l’affitto da pagare, le mie giornate, io. Sono totalmente piegata su di me, ma non dovrei. Ricerco una differenza, punto alla dimensione del sacro, a una forma di sacralità che vuole essere infatti la parola di oggi. Perché mi serve, perché mi manca.

«Periodo penitenziale di quaranta giorni in preparazione della Pasqua» mi spiega il dizionario Treccani online quando cerco Quaresima. Tempo della fame, come ricordava l’amica e collega Donatella Alfonso in uno dei suoi video di “Mi han voluto dire”, la rubrica che ogni giorno conduce per Goodmorning Genova, il periodo in cui guitti e giullari venivano allontanati dalle città, sulle cui mura sventolava la bandiera viola del tempo quaresimale. Periodo in cui non si lavorava, e non si mangiava – e non per il digiuno, oggi lo sanno bene i lavoratori della cultura -, periodo in conseguenza del quale nacque la leggenda che il viola è un colore che a teatro porta sfiga.

Quaranta giorni in attesa della Pasqua, questa l’etimologia di Quaresima; periodo di quaranta giorni di isolamento cui vengono sottoposti individui portatori di qualche malattia infettiva, questa l’etimologia di quarantena. Il simbolismo di questo accostamento è così forte che verrebbe da pensare che qualche divinità l’abbia fatto apposta: poteva essere a novembre, a gennaio, e invece l’epidemia è scoppiata a marzo, in concomitanza con l’inizio di una Quaresima che quest’anno porterà a una Pasqua molto molto diversa da ciò a cui siamo abituati. Niente celebrazioni liturgiche della consuetudine, dalla domenica delle Palme ai riti della Settimana Santa, e così niente processioni con il Cristo Morto, niente Via Crucis. Insomma, via una fetta grande di quelle manifestazioni che in Italia ci raccontano così tanto della fede e della cultura, della storia e della tradizione del paese.

Le strade saranno vuote, così le chiese. Ecco, piazza san Pietro questa sera alle sei era così. «La mestizia del colonnato di San Pietro pieno solo di pioggia all’ora dell’imbrunire. Il blu dei lampeggianti delle volanti sfocate, sullo sfondo. Il calore dei lumi al vento. Lo scrosciare dell’acqua nel silenzio. Il suono delle campane che si mescola alle sirene di ambulanza. Lo sforzo di decifrazione simbolica della realtà inedita che ci sfila sotto gli occhi in questo marzo è inaudito». L’ho scritto di getto su Facebook mentre guardavo il Papa, lo ascoltavo poco, nel turbine di pensieri che mi teneva scollata dallo schermo della tv. Piccolo focolare domestico, lo hanno definito, ma per me resta una distanza. vedere la preghiera del Papa non è come essere lì, e veder pregare non è come riuscire a fare lo sforzo grande di compartecipare, di sentire.

Cinica, sto diventando cinica e questo impedisce di provare empatia anche per quest’uomo anziano e claudicante che questa sera ha probabilmente segnato un momento storico. Lo hanno detto tutti, o meglio lo hanno scritto sui social e spiegato ai tg: non si era mai vista una preghiera nella piazza deserta, non c’era mai stato un pensiero rivolto a Dio e al mondo intero per fermare una malattia. Viene da pensare alla peste dei grandi romanzi, quelle cose che tu mai avresti immaginato di vivere in prima persona. Viene da pensare che quelle immagini sono frutto di una sceneggiatura scritta da un creativo.

Faccio davvero tanta difficoltà a rifugirarmi nella sacralità di quelle parole, di quelle immagini che vi si fondono insieme. Il Papa ha usato l’immagine della barca in mezzo al mare, ha chiarito che da soli non ci salviamo. Trovo siano pensieri bellissimi, trovo che in un momento di crisi, di mancanza di orizzonti in cui siamo, sia incoraggiante pensare di stringersi a rete, e sia calzante la metafora di una barchetta solinga in mezzo alle onde che ha perso la rotta e deve tenere testa ai marosi. Trovo tutto questo prezioso e grande, e vorrei coltivarlo come si fa piantando semi e curandoli e aspettando che germoglino per godere della loro bellezza, dei loro frutti. Ma se il terreno intorno è arido, tutto questo diventa di una difficoltà pazzesca, e spesso prende come la sensazione di stare facendo cose assurde, cose senza senso.

Nella mia barca c’è incredulità, voglia di bellezza, angoscia e mancanza di strette di mano, consuetudini e sorrisi. Ho la fortuna di poter conversare con un amico sacerdote dall’intelligenza viva e acuta che ogni tanto mi fa ricordare il germe vivo della fede, la commozione pulsante, le lacrime che innaffiano quella terra arsa di cui dicevo sopra. È un lavoro faticoso, improbo, richiede profondità e forze che non so se sono in grado di sostenere. Ma avere una vita spirituale un po’ più solida forse ora sarebbe un rifugio caldo per la mia miopia esistenziale, e mi garantirebbe nuova benzina per il dopo invece di schiacciarmi sterile sull’oggi.

A tutto questo penso, e penso e non smetto di farlo, mentre la giornata piano piano si sfilaccia, quell’imbrunire così simbolico di San Pietro lascia il posto all’azzurrognolo degli schermi tv italiani puntati, esattamente un’ora dopo, sul discorso del Presidente Mattarella. Gli scappa un fuori onda, errore dell’ufficio stampa che, tuttavia, non ha niente di poco professionale perché racconta di un’umanità meravigliosa: Mattarella ha un “ciuffetto fuori posto”, gli fa notare l’ufficio stampa Giovanni Grasso, “eh, non vado dal barbiere nemmeno io” gli risponde il Presidente. E tutta l’Italia lo ascolta, e tutta l’Italia gli vuole un bene grande così: il presidente uno di noi, uno di noi che non sa dove girarsi, non può essere impeccabile, è costretto a rallentare.

Costrizione: è una parola che ritorna spesso, è la traduzione del nome del mio blog e non mi era mai sembrata così attuale. Questi esempi, quello di due uomini anziani e solidi come roccia – il papa e il presidente della Repubblica – dovrebbero forse insegnarmi e portarmi a ragionare sul fatto che è inutile concentrarsi sulla costrizione, bisogna invece continuare a lavorare a testa bassa, fare, agire, muoversi, non sedersi. Ecco, oggi mi sono seduta, ho indugiato troppo, metti il clima, la stanchezza mentale della ripetitività, la convivenza forzata che limita un po’ gli spazi. Ma appena riuscirà un po’ di sole, vorrei tornare a trovare bellezza e sacralità in ogni gesto dalla sveglia a quando mi addormento. Credo sia importante, credo sia in fondo il sale di una Quaresima che coincide sinistramente con una quarantena, nell’anno 2020 in cui nessuno si sarebbe mai aspettato di vivere una situazione del genere.

Per tirare su il morale, Ma che discorsi, Daniele Silvestri

Lo so che non coincidono
Le previsioni e l’esito
Le obbiezioni in merito
Le immagino però
Perché fermarsi?
In radio c’è anche un pezzo che mi va

Leggi tutte le giornate del mio diario di quarantena: 25 giorni a casa.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!