“Una sfiga del genere è sicuramente ereditaria… Chissà di cosa non lo accuseranno, il mio pupo, appena metterà il naso fuori”.
Sfiniva gli amici più fedeli:
“Esageri, Benjamin”.
“Se esagero, Loussa, vuol dire che c’è per forza un fondo di verità, è questo che mi stai dicendo. Grazie, mi tira proprio su di morale. Decisamente, il fondo è più cupo di quel che pensassi”.

Ebbene, ho letto la saga Malaussène. Fermi tutti: no, non ho ancora letto il nuovo romanzo di Pennac, che dopo anni torna a mettere in scena il suo eroe prediletto e quindi sta facendo tanto parlare di sé. No, molto più semplicemente, spinta dalla curiosità e da un’ipotetica quanto improbabile intervista che avrei potuto fare a Pennac, e agevolata da un simpatico cofanetto, ho fatto una cosa molto più prodigiosa: mi sono letta tutta la saga Malaussène dall’inizio fino a prima del 27 aprile. Ovvero: Il paradiso degli orchi, La fata carabina, La prosivendola, Signor Malaussène, La passione secondo Therèse e Ultime notizie dalla famiglia. Per onor di cronaca fatemi aggiungere che no, pare non intervisterò Pennac, che è stata impresa più audace che reale, e nemmeno riuscirò a vedere il reading-spettacolo in programma al Grattacielo San Paolo di Torino domani, giovedì 18 maggio. Ho attribuito tutto questo, malaussenianamente, al fatto di essere arrivata a 30 anni nell’ignoranza più fitta su cosa fosse la saga, chi fossero i Malaussène e perché dovessi leggerne le “gesta”. Che poi io Pennac l’ho sempre letto: ho letto Signori Bambini mi pare 3 volte, Come un romanzo, Storia di un corpo. E mi è sempre piaciuto quello stile: la confidenza con il testo scritto, l’ironia pazzesca, nel senso che oltre a cucinare l’empatia del lettore alle volte è proprio assurda, così assurda che non sarebbe vera se non fossimo dentro a un libro. Però Pennac lo dice: nei libri vige la libertà assoluta, e infatti lui si è inventato Benjamin Malaussène. E io mi domando, ora che ho letto tutta la “vecchia” saga, come ho fatto a stare 30 anni sul pianeta senza conoscerlo. Perché adesso che sono stata a Belleville, adesso che mi sono persa dentro trame poliziesche intricate e grottesche come la selva dantesca, adesso che la genealogia della folle famiglia di Benjamin mi è chiara e ognuno ha le sue caratteristiche e il suo profilo preciso, beh, adesso mi mancano tutti un sacco.

Perché, vi chiederete. Perché me lo domando anche io. C’è qualcosa di magnetico in queste storie. Come, per esempio, il fatto che l’eroe in questione, Benjamin, sia di professione capro espiatorio: su di lui piovono le sciagure del mondo, o meglio del piccolo ma colorato mondo del quartiere parigino di Belleville, dove abita. La sua dimora è una vecchia ferramenta dismessa, dove vive con la famiglia, che però non è niente affatto “normale”. Non aspettatevi madre padre e figli. No no, qui c’è un fratello maggiore, Benjamin, attorniato da un ridente pianeta fatto di fratelli e sorelle figli della stessa madre ma di padri diversi, di cui non compare mai nemmeno un’ombra. Eppure tra Clara, dallo sguardo di velluto, l’astrologa Thèrese, il dolce Piccolo con gli occhiali rosa, il tremendo Jéremy e la distante Louna, la tribù – così si identifica il gruppone familiare – sta in piedi più che dignitosamente. Ve lo garantisco: vi ci sentireste a casa anche voi, non manca niente, anzi, si vive alla grande senza tv e con i consueti racconti serali che servono a placare gli animi della tribù intera prima del sonno. Ah, dimenticavo: c’è pure Julius, un cane epilettico e puzzolente. Ma non potreste proprio volergli male, al buon Julius che con le sue crisi annuncia sciagure in arrivo.

Fuori dalla ferramenta, si agita infatti un mondo brulicante pieno di personaggi variopinti. Siamo a Belleville, quartiere dalle mille e una etnie. Arabi, cinesi, prostitute, ristoratori, delinquenti e poliziotti, è tutto sapientemente shakerato nel cocktail di Pennac, e la morale borghese si dissolve all’istante, perché vivere dentro una famiglia allargata dove ci si vuole bene anche e nonostante succeda costantemente di tutto, è l’unica cosa importante. Ora, è difficile farvi una recensione o una cosa simile davanti a 6 volumi e a un genio della narrativa come Pennac, infatti eviterò. Piuttosto, cercherò di continuare a spiegarvi in cosa consista questo magnetismo che tiene incollati ai libri e lascia addosso una terribile mancanza una volta che sono finiti.

Partiamo da un aspetto prettamente tecnico: la costruzione delle trame. Come vi dicevo, il buon Benjamin è destinato a essere capro espiatorio di qualcosa. In ogni situazione in cui si trovi, a causa sua o di uno dei tanti fratelli, accade qualcosa – generalmente di terribile, parliamo di delitti, bombe, serial killer – che, seppure causato da una serie di interessi e logiche definite e che nulla hanno a che fare con lui, all’apparenza lo vedono irrimediabilmente colpevole. Per labirinti pazzeschi – torno a usare questo termine nel senso di labirinti talmente assurdi da non avere senso, e un po’ folli a dire il vero – finisce sempre che Benjamin si ritrovi principale indiziato, abbia un movente e assoluta mancanza di prove per discolparsi. Situazioni di orrore che non scherzano, nonostante ci siano bambini e anime innocenti: del resto in questa saga non ci sono freni, perché dunque non dovrebbe esserci l’orrore, che pure esiste? Anzi, forse l’unico modo trovato dall’autore per parlarne è proprio questo, quello del romanzo, dell’ironia, e come vedremo dopo dell’esagerazione. ma dicevamo, la trama: la costruzione perfetta di allestimenti in pieno stile poliziesco che si reggono su complessissime logiche e strutture e che agganciano il lettore, che vuole capirci, vuole sapere chi è il colpevole, cosa succede a quel personaggio lì, chi è stato a fare quella cosa là e come faranno a discolpare Benjamin. La banalità vive altrove: una volta entrati nella meravigliosa macchina di queste trame vi verrà difficile uscirne fuori, e quando arriverete alla fine, dopo un bellissimo senso di appagamento per il fatto che tutto torna – tout se tient -, vi piomberà addosso la mancanza di quella tensione che vi ha tenuti svegli fino a notte per finire il libro. Questo è: la magia della letteratura.

Ma c’è un altro dato che spiega il perché si sviluppi questo affetto verso i libri della saga Malaussène. Si tratta, io credo, dei personaggi. Facciamo un saltello indietro. Questi romanzi di Pennac, e un po’ in generale tutti gli scritti di Pennac, sono caratterizzati da una calcata matrice caricaturale. Come nella caricatura, infatti, l’autore spinge il tasto dell’esagerazione: trame esagerate, incastri di destini esagerati, personaggi esagerati. Sono loro a restare nella testa: i personaggi. Vista l’ampiezza della tribù, e tanti nomi che la affollano fuori e dentro dalla ferramenta, è necessario che ognuno si distingua per qualche dettaglio. Espediente non banale se pensiamo che quel che io ho letto in poche settimane, cioè sei libri, sono in realtà usciti nel corso di anni e che le persone dimenticavano, oppure iniziavano la saga in medias res, avendo quindi bisogno di capire di chi si parlava e il perché di tanti legami, storie o reazioni. Questo esagerare i caratteri distintivi di ciascuno non fa che esaltare quel ciascuno, permettendoci di conoscerlo meglio, e di conoscerlo intimamente, perché ai dati esterni sommiamo l’affetto che traspare da Benjamin e dal narratore stesso. E poi ci sono i cliché: del poliziotto dalla mira infallibile, della chiromante, della giornalista impegnata, che è la Julie fidanzata di Benjamin, la cui vita potrebbe costituire un’enciclopedia a parte. L’esagerazione paradossale: ecco cos’è che ci fa storcere il naso ma insieme sorridere, che ci dice “siamo nel romanzesco, non è come il mondo!” e che, così, ci rasserena sul fatto che tutto andrà bene, nonostante l’impazzare di orrore e assassini, arriverà una giornalista geniale che aiutata da poliziotti come si deve ristabilirà l’ordine. Ed è in effetti così: ci possiamo fidare del romanzo, Pennac ci racconta che, nonostante il male, un equilibrio è sempre possibile, talvolta grazie anche all’esagerazione. Senza dimenticare l’ironia, che gli va a braccetto e ci strizza l’occhio a ogni pagina.

Abbiamo detto che non c’è un freno all’orrore, sembrerebbe quasi non esserci una morale. Non è proprio così, perché una morale a dire il vero esiste ed è quella che tiene in piedi la famiglia e ce la fa stare così simpatica, ci fa provare così tanta empatia da preoccuparci per la sorte di Benjamin ogni volta che si ritrova impantanato in qualche pasticcio poliziesco, e per il futuro della sua tribù. La stessa morale ci fa stare simpatici i delinquentelli del “club” arabo seconda famiglia dei Malaussène, così come i poliziotti e i medici che via via nel corso dei libri si schierano dalla parte dei “buoni”, cioè con Benjamin & co, per cercare di smascherare i cattivi, quelli veri, quelli spietati. Quel che Pennac vuole dirci è che esiste un mondo di orchi, là fuori, ma solo restando soli e senza valori, o con valori “sbagliati”, quel mondo potrà inghiottirci. Per quanto strampalati e privi di regole precise, i Malaussène sono tenuti insieme da una rete di affetto familiare: mettono il legame di fratellanza al primo posto, e non è solo una relazione di sangue (se pure sangue non del tutto uguale), quanto una relazione fondata sull’amicizia. Ecco da dove arrivano i tantissimi personaggi della saga, tutti uniti a cerchio intorno a questa tribù che sta simpatica a tutti e che solo i più cattivi vogliono sabotare. Ecco i tantissimi “zii” adottivi, ed ecco un fiorire di nuovi nati, accolti con amore anche nelle condizioni più impensate: senza padri, senza madri, con due madri. Non ci si formalizza: la chiave di tutto è volersi bene.

E di bene a Benjamin non se ne può non volere: responsabile e amorevole verso ognuno dei suoi fratelli, innamorato della sua Julie, voce narrante dai cui occhi tutto – o quasi – ci viene narrato, e in fondo un grande sfigato, che riesce ad attirare, nell’esagerazione tipica di Pennac, tutte le grane di questo mondo su di sé senza muovere nemmeno un dito, solo agendo, o pensando di farlo, per il bene suo o di qualcuno dei suoi cari. In fondo Benjamin siamo un po’ tutti noi, mi sono convinta di questo. E se non lo siamo, è perché non abbiamo ancora sviluppato quella dolce razionalità, sempre pronta a cedere all’empatia, che ne fa un personaggio così strampalato ma autentico, così irrinunciabile. Tanto irrinunciabile da aver convinto lo stesso autore a ritirarlo fuori dal cassetto: era troppo forte, chiamava a voce troppo alta per far finta di non ascoltarlo. Scusate, ma questa è una faccenda meravigliosa, e pure un po’ malausseniana, tanto che credo che resisterò poco e mi procurerò quanto prima il romanzo nuovo!

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!