48 ore a Palermo. Cosa ti ricordi? Il caldo, innanzitutto. Il profumo di pomodoro, l’aria di mare dal porto la sera, il “ragazze” ripetuto a ogni angolo, la rilassatezza della gente nel caos della mia tabella di marcia, il mare azzurro da non pensare a niente e tuffarsi felici. La gente, le strette di mano, i sorrisi, le parole – quante parole – i libri e le storie. Perché 48 ore a Palermo non sono solo una follia passeggera, o meglio anche, ma hanno se non altro una nobile origine, Una marina di libri, la fiera dell’editoria di Palermo che quest’anno festeggiava la sua decima edizione.

Tra i pregi di avere  un editore palermitano, c’è infatti quello di essere invitati a Una marina di libri. Vuoi non approfittarne? E così nonostante saturno contro, imperversante dalla prima all’ultima delle 48 ore designate alla trasferta, eccomi che attraverso una via Lagrange deserta alle 6 del mattino e mi metto in marcia per il sud, dove arrivo a metà mattina. È sabato 8 giugno, a Palermo è scoppiata l’estate prima del dovuto: il sole picchia, il mare è azzurro, gli alberi sui viali brillano di fiorellini viola, la città brulica.

Con la sensazione dei jeans appicciati addosso e la maglietta lurida, accade che il frullatore del mio sonno arretrato (arrivare a Palermo dopo una lectio di pensionamento del tuo professore di semiotica, una presentazione del libro e una pizza tra amici non è esattamente il massimo del relax) mi catapulti alle 14.00 in mezzo alla Vucciria. Affamata. Accaldata. Confusa. Nel deserto dei vicoli (ma dove sono tutti? Al mare? Eccerto che sono al mare di sabato, dove altro?) ritrovo la volpe murales di due anni fa, scolorita e adornata di un cartello “Vendesi”. Si cammina seguendo fedelmente la striscia d’ombra a ridosso dei muri. La mappa quasi non serve: io e l’amica che è con me ci ricordiamo tutto palmo a palmo. Infatti, cerca cerca, non troviamo alcun ristorante dove pranzare ed esauste finiamo in un posto a caso che nel nome ha la parola “sardina”. Perfetto.

Così perfetto che in orario siculo ci scofaniamo un frittino di gamberi e alici e, per terminare in bellezza, una pasta pomodoro (ma che buono è il sugo, giù?) polpette di sarde e pinoli, quel tanto piccante che ci fa sentire ancora più caldo. E giù acqua, e giù caffè, con la lentezza di una digestione afflitta dal colpaccio inferto, è un attimo che siamo lungo il cassaro, corso Vittorio (oh, lo chiamano corso Vittorio, come a Torino!), a ritrovare terrazzini, negozi, scorci e tutto quanto assaporato due anni fa. Il piazzale della cattedrale scotta, ma è di una bellezza commuovente: abbiamo fatto bene a salire fin qui. Tanto, poco distante, c’è anche il vecchietto delle granite, al bar del corso.

Per la magia che tutto accompagna e abbraccia nella città il cui nome significa “tutto porto”, il vecchietto ci accoglie invitandoci alla calma, e ci prepara una squisitezza corroborante alla frutta. Felice lui, felici – e ustionate dal sole sui tavolini lungo il corso – noi. Ma i libri? Ai libri ci arrivo: quando fa questo caldo, hai 4 ore di sonno e stai ritrovando Palermo, i libri possono aspettare, quel che serve è un costume da bagno. Preso. Ecco Piazza Pretoria, la chiesa di San Cataldo, la Discesa dei Giudici con la torrefazione Stagnitta. Sentirsi a casa, all’incirca.

Una marina di libri si svolge all’orto botanico dell’Università, poco lontano dalla Cala, il porticciolo turistico, ed è qualcosa di assolutamente inaspettato e magico per chi, come me, è abituato a vivere il Salone del libro in padiglioni ex industriali anonimi e di cemento. Libri dentro un bosco, passeggiate nei boschi narrativi, carta tra le foglie, legno di bambù e fronde di palme, tronchi panciuti e cattedrali ramificate in sembianza di enormi ficus che ombreggiano su piazzette naturali. Intorno serre antiche in vetro e banchetti degli editori, tutti in legno a tema con l’ambiente circostante. Entrare a Una marina di libri è stato come fermare il tempo e addentrarsi in un mondo immaginario, tutto in verde. Un’isola d’incanto, e isola era proprio il tema di questa edizione.

Non è un caso se parlo di mondi immaginari, visto che poco dopo essere entrata in fiera, accompagnata da due Virgilii, una metà dei miei editori e un’illustratrice, ho partecipato all’evento di presentazione del mio libro, Torino di carta. Non proprio una presentazione, quanto un dialogo libero e aperto dal titolo fascinoso: Arcipelaghi letterari. Mappe e stradari per navigare sicuri. Ospiti, i siciliani e marittimi Via terra delle mosche, stradario immaginifico di Palermo, Palermo di carta, Creature fantastiche di Sicilia. E poi Torino di carta, con la sua Mole verde che svettava in mezzo al Mediterraneo, un po’ a caso, un po’ isolata, un po’ stravagante come le si addice. E come la sua autrice, che poi sarei io, che ho parlato a braccio rimescolando le millemila idee che avevo e citando la faglia tra mondo reale e immaginario, la libertà insita nel “gioco” che è poi il meraviglioso meccanismo dell’illusione – in ludus – della lettura.

Molta semiotica, molti mondi possibili, molta capacità di parlare senza minimamente sapere dove porterà la rotta, al timone il sonno, sulla mappa tracciati nordici, vie di una città lontana lontana, sola tra i quattro canti, Ballarò e la voglia di mare serpeggiante. Ma a Torino, come ho spiegato a tanti, il mare proprio non c’è, e io ho cercato, ho riflettuto a lungo sui dettagli acquatici che mi avrebbero potuta rendere parte della quaterna, ma ho trovato solo un fiume ben diverso da quello di oggi, dove Marcovaldo finisce per franare sui bagnanti, e i resti di un sommergibile della prima guerra mondiale, di guardia sul fianco del Po, che di sottomarino ha ben poco.

È stata un’esperienza strana, intrigante, avvincente, piena di gente bellissima e curiosa che ha accolto la mia isola-Torino grazie alle ambascerie dei suoi abitanti più noti e nobili – Pavese, Calvino, la Ginzburg, che a Palermo nacque, Primo Levi. A loro devo un grazie: posso parlare ovunque la loro lingua, citare il loro sguardo, e quasi sempre troverò un tappeto su cui cascare con una elegante capriola. È stato anche un viaggio speciale tra le mappe dell’immaginario letterario, luoghi accoglienti ma spesso illusori, infidi specchi di un reale che sa trasformarsi mentre lo leggiamo, e così lo abitiamo, dandogli forme e spazi di volta in volta simili o meno alle nostre Palermo, Torino e chissà.

A questo pensavo passeggiando tra le maestose braccia del grande ficus, intorno alla vasca delle ninfee nella rotonda in cui cercavo le tartarughe ma trovavo invece il banchetto di Autori Riuniti, di Torino, con il cui editore avevo fatto il viaggio poche ore prima, e mi sembrava già una vita fa. Un luogo speciale, l’orto botanico della Marina di libri, dove incontrare persone che non ti aspettavi, quasi una rete di contatti che si sposta con te in tutta Italia. La gente dei libri. I libri, e la gente che si portano dietro. Dal gambero Palindromo che rappresenta il mio editore, tra mare e immaginari il gambero è finito poco più tardi nel piatto, ché una frittura, dopo una giornata del genere, non avrebbe potuto negarmela nessuno.

«Siete andate al mare?»
«eh, sì, si vede?»
«avete fatto benissimo!»
In una torrida domenica di giugno che sembra agosto e Mondello è gremita che nemmeno Rimini, un palermitano – qualsiasi palermitano – non ha fatto che approvare l’idea del mare. Andare al mare, ammare anzi, non c’è altro da fare. Il mare lo ami davvero, se è il pensiero martellante per fuggire al caldo, e se il suo azzurro ti attira più dei libri della Marina. Il senso del mare ha risvegliato anche un orgoglio tutto speciale per la mia identità acquatica. «Lei è Alessandra, ha scritto Torino di carta, viene da Torino». Sì, ok, materialmente arrivo da Torino, indubbiamente, ma state attenti che io sono ligure, arrivo dal mare, come voi. Mi è sembrato importante ribadire che le radici stanno bene ancorate nello iodio. Infatti la domenica mattina, pigiata sul bus 806 in mezzo a frotte di ragazzini liberi dal peso della scuola, direzione Mondello, c’ero pure io.

La scena è degna di una sequenza di Ciò che inferno non è di D’Avenia, dove si racconta dei ragazzi di Palermo che finita la scuola si fiondano al mare e lì finisce tutto il mondo. Che è poi la cosa – la sola cosa – che fa chiunque viva al mare in età scolare: tre mesi di spiaggia, e nient’altro. Puoi quindi raccontare al ragazzino 18enne che ti ha appena dato della francese, e poi della friulana (“non siete di Palermo, vero?”, chissà come doveva suonargli la mia prosodia cantilenante ponentina) che no, sta facendo malissimo a perdere la giornata di studio a 10 giorni dalla maturità, e dovrebbe evitare di fiondarsi in spiaggia? Tra le scene più belle, umane, empatiche e ricchissime di storia delle mie 48 ore a Palermo, quella del ragazzino sul bus è, io credo, la migliore di tutte.

E poi vabbè, un telo mare trovato dal pachistano che girava sulla battigia tra gente di plastica, ombrelloni, palle, coccobbello coccooo, la crema solare messa a caso, effetto dalmata garantito, le conchigliette tra la sabbia e l’acqua che è gelata, ma chissenefrega è azzurra che non si può resistere. Torniamo ammare a Mondello, ed è giusto così. Due ore di pace, infuocate e splendide, prima di risalire a bordo dell’ottovolante.

Sono le cinque, sto correndo verso Una Marina di libri perché devo presentare Suq Magazine, una rivista di viaggi, prodotto ibrido tra la raccolta di reportage e i racconti di viaggio. L’evento si svolge nel suggestivo gymnasium, una stanza delle meraviglie, dove tuttavia i vetri del tetto caricano l’aria di una bolla di caldo da serra. In questa serra coltivo la mia capacità di parlare circa a caso di cose che non ho preparato, intervistando dapprima un po’ ingessata e poi con maggior scioltezza i protagonisti della redazione. Si parla di isole in inverno, di viaggi insoliti, di un volto non convenzionale della Sicilia. Di Linosa e di Vulcano, unico dei luoghi del numero di Suq che ho visto. Credo di essere l’unica persona che non c’entra nulla con la Sicilia, devo avere un ottavo dei geni proveniente dalla bisnonna di Messina, ma per il resto parlo strano, dico “isola madre” e mi sento osservata, invito la gente a cercare cose online, ho in mente una scaletta. Tutte cose che non mi fanno per nulla sembrare una del posto: non so se si intuisca o no, ma alla fine sembrano tutti contenti, e in fondo un po’ di viaggio lo abbiamo fatto davvero.

Ne approfitto per girare ancora alla Marina e stupirmi della stranezza di alberi e della presenza di tanti editori che conosco, di titoli che ho visto. Non riesco a seguire nemmeno una presentazione: sarebbe impossibile, la tabella di marcia è strettissima, e io, forte del fatto che tutti mi dicono di aver fatto bene, sono andata al mare. Il mare di Mondello stordisce, come la crema al pistacchio. Un’estasi che dopo sei talmente sazio e appagato da lasciarti scorrere tutto addosso.

Non so bene come, mi ritrovo in auto verso la parte orientale della città: sto andando alla cena con parte della redazione di Lucialibri. Non conoscevo nessuno fino a ieri, ora sono a tavola con poco meno di una decina di sconosciuti che ordinano per me panelle e cazzilli. Che non lo vuoi prendere un antipastino prima della pizza? Pizza che ovviamente avanza: effetto-ingorgo che mi ricorda il fantasma dell’arancina bollente. Se Torino e Palermo si scoprono più vicine che mai, io scopro a fine serata di avere solo uno zaino e di dover riportare a nord la bellezza di sei libri. Tre li ho comprati, tre li ho vinti alla lotteria di LuciaLibri. A mezzanotte gioco a tetris per incastrare vestiti sporchi, libri e un telo mare con dentro ancora la sabbia, poi mi risveglio e nel lunedì assolato di una Palermo bellissima è ora di andare via.

È già ora di andare via, anche se mi sento qui da dieci giorni, forse un po’ come non me ne fossi mai andata. Deve essere il caldo, l’odore del sugo tra i vicoli, il respiro del mare la sera dal finestrino dell’auto, la granita che riporta alla vita, la luce su Piazza Pretoria, il labirinto verde della Marina e io che cito le passeggiate di Umberto Eco davanti a una platea di sconosciuti la maggior parte dei quali a Torino non c’è mai stata, e comunque no, non sono di Torino, io il sabato mollo tutto e vado al mare, come voi.

«Trieste, Genova e Palermo sono sorelle, si assomigliano molto» mi ero sentita spiegare il giorno prima della partenza. Genova è la succursale di casa, quel posto in salita tra persiane verdi, farinata e malinconia da scoglio. Di Trieste ammiro il fascino marinaro, città delle vele, di Italo Svevo, l’avamposto dell’oriente. E poi c’è Palermo, “tutta porto”, una conca dove impazzano sole, casino, profumo di pomodoro e odore di mare. Non so, non capisco davvero, quale sia il segreto del fascino che mi fa sentire a casa ogni volta tra gli straordinari ghirigori arabeggianti della cattedrale, le fritture sontuose di pesce, la pietra dorata, le viuzze di persiane e terrazzini dove sfrecciano Api scassate (sì, qua sì che lo so: sembrano i miei caruggi), il mare di un blu che è così solo lì, il sentirsi apostrofare come “ragazze” da chiunque. Però qualcosa ci deve essere, lo testimonia il mio bottino di libri acquistati alla Marina: tutti “palindromi” – e vabbè, che ci vuoi fare – ma soprattutto tutti legati a Palermo e alla Sicilia. Come, in fondo, inspiegabilmente e sempre, mi sento pure io.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!