Che detto così, dal titolo, sembrerebbe uno di quei trucchetti acchiappaclick con cui vi attiro facendovi credere che sono stata a cena con Roberto Vecchioni, e poi scoprite di no. Invece vi sbagliate: sono davvero andata a cena con Roberto Vecchioni. Poi, il fatto che Vecchioni, di persona, in tutta questa storia c’entri poco, è abbastanza irrilevante. Perché a volte dalle cose di generano altre cose, e finisce in modi che non ti aspettavi, ma va comunque bene. Quindi il fatto che sia andata a cena con Roberto Vecchioni ma non fossi seduta di fianco a lui, e quindi poco abbia conversato con uno dei cantautori a cui il pubblico è più affezionato da 50 anni a questa parte, è un dettaglio in fin dei conti secondario, perché, lo scoprirete leggendo, la serata è stata molto ricca, molto insolita, molto piena di idee e discorsi che Vecchioni aveva fatto prima. Molto serena, infine: abbandonare l’ansia giornalistica da “scoop” è un disinnesco che ogni tanto diventa necessario.

Tutto è nato da prima: l’incontro di Roberto Vecchioni in occasione della bella rassegna letteraria che sta coinvolgendo il borgo di Cervo, Cervo in blu d’inchiostro. È incredibile lo sforzo organizzativo, peraltro tutto made in Cervo, con un notevole impegno da parte dell’amministrazione e di Franceca Rotta Gentile, che nella vita fa l’insegnante, per allestire un calendario ricchissimo di incontri di valore, come quello di dicembre con Luca Borzani, o il recente, già a gennaio 2018, con la direttrice editoriale di Bompiani Beatrice Masini. Dopo Vecchioni, si proseguirà alla grande con niente meno che Philippe Daverio, Fabio Genovesi e altri succosi nomi. Se vi interessa, il programma completo è qui.

Quindi Vecchioni, ospite nell’oratorio di Santa Caterina, di origine medievale, che alle ore 16.00 era già pieno, mentre l’incontro sarebbe iniziato alle 17.00 e tanta, ma davvero tanta gente, sottoscritta inclusa, è rimasta non solo in piedi, che sarebbe stato un dettaglio trascurabile, ma fuori, incastrata nel carugetto di accesso all’Oratorio, tra uno scalino, lo stipite del portone, e una lama di luce del cielo che via via, mano a mano che i minuti passavano e il pubblico tenace non desisteva, restando fuori speranzoso di vedere anche solo due secondi di Vecchioni, si faceva sempre più scura. No, non eravamo arrivati affatto in ritardo, anzi, alle cinque meno venti eravamo già alle soglie del paese, l’auto posteggiata quasi a San Bartolomeo perché sì, anche il parcheggio era pieno. Qualcuno, arrivato il freddo, se ne è andato deluso, altri come me hanno resistito.

Alle ore 18.00, un’ora dopo l’inizio della conversazione con Vecchioni nel gremitissimo oratorio, sono riuscita ad arrivare sulla soglia, infilandomi tutta rannicchiata tra la porta e la parete laterale. Una nicchia da dove ho ascoltato una seconda ora di chiacchiere, i cui contenuti vi rielaborerò qua sotto. Solo alle 19.16, a due ore dall’inizio dell’incontro, ho finalmente toccato il pavimento dell’oratorio, anchilosata e un po’ congelata. Per dire che quando le cose sono di valore, il pubblico risponde. Certo, se l’organizzazione avesse previsto, l’incontro sarebbe potuto essere spostato in piazza (e pazienza il freddo, ci si poteva tenere la giacca), oppure trasmesso da fuori se non con video, almeno con un amplificatore: noi rimasti fuori non abbiamo sentito nulla, molti hanno desistito.

Ma io sapevo di avere la cena, e dunque ho aspettato. Mi sono persa un’ora di chiacchiere, e quando sono entrata in oratorio era tutto già avviato: atmosfera, dialogo, racconto del libro di Vecchioni La vita che si ama. Ci ho impiegato un po’ a comporre il quadro: le parole, l’inseparabile sigaro toscano, le canzoni, e poi Le rose blu. Tre rose blu erano adagiate sul tavolino, stavamo analizzano la canzone: «Se ci credi – ha spiegato Vecchioni – esiste anche quello che immagini». E lì la mia attenzione è stata catturata.

«Io so solo scrivere canzoni. Vedete come è strana la vita: con le parole è diversa l’immaginazione e la costruzione delle cose, e quante cose ho buttato – Vecchioni ha raccontato come scrive le canzoni: partendo dal testo – se devo sforzarmi, non è istintiva, non è quello che ho in mente, mentre l’istinto fa parte della tua verità, di quello che hai dentro veramente. Sono 50 anni che faccio musica con questa idea nella testa: voglio che un concetto sia vero. Tutto quello che dico è politico, forse, ma lo dico in modo emozionale».

Eccolo, il segreto: sincerità ed emozioni, che passano forzatamente dentro le parole, e non per pura ispirazione, ma per ragionamento fondo, quello che ha lasciato Vecchioni ancorato al mondo dell’insegnamento – prima il liceo, poi l’università, anche la facoltà di Scienze della Comunicazione di Torino, che ho frequentato io un paio di anni dopo che “il professore” non c’era più – e che gli ha permesso di portare avanti due ore di chiacchiere su tutto, canzoni, adolescenti, persino enigmistica.

Per dire: sapevate che Vecchioni è un enigmista, nel senso che scrive e crea giochi enigmistici sotto pseudonimi vari, con cui è conosciuto dalla comunità degli enigmisti? Io no, è stata una divertente scoperta. E non sapevo nemmeno che Luci a San Siro l’avesse scritta nel 1968, quando era militare ed era stato assegnato al bar, faceva 300 caffè al giorno. «Il discorso che farò sempre è quello delle rose blu – si è lasciato andare nel ricordo di quando ha pensato Luci a San Sironon esiste la realtà, esiste anche quello che immaginiamo. La canzone è come Dorian Gray: non invecchia, ed ecco che la mia ragazza di allora, che mi aveva lasciato, è rimasta in quella canzone, come se fosse qui, adesso».

Non c’è stato modo di farsi fare live un pezzo del brano: questioni di contratti. Ma Vecchioni ha promesso che sarebbe tornato: «vi prometto che questa estate facciamo un concertone, ora ho un debito da pagare nei vostri confronti». E ci speriamo: sia perché è Vecchioni – cavolo, Vecchioni! – sia perché a giudicare dalla folla di domenica, Vecchioni piace a noi del Ponente ligure, e forse anche ai ragazzi, che erano tantissimi, stregati dalle parole di un ometto che, sarà pure famoso per fare il cantautore, ma ha il carisma del prof, innamorato dei lirici greci, della poesia, e che tutto questo trasforma in canzone, in ponte per parlare dell’oggi e delle parole, dei linguaggi dell’oggi. «Le parole – ha detto più volte – sono una cosa bellissima».

E poi si è tuffato sotto la superficie, pareva di essere a lezione: «c’è gente che vive per l’esistenza e non si ferma mai a domandarsi perché sta facendo tutto questo: si produce solo? Ci deve essere un senso alla fine di questa di questa cosa, una teleologia». Qui è partita una grande digressione che era proprio da prof, tra umanismo e umanesimo, citando Galimberti, il ruolo della tecnologia, della scienza, del dubbio e della verità. «La verità emozionale è fortissima, appaga sempre – e come fai a non drizzare le orecchie quando “il prof” ti dice una cosa così? – è l’arte che dà una teleologia, non la tecnica. I ragazzi non sanno perché fanno le cose, gli si dà una risposta e finisce tutto lì, invece il mondo dell’arte offre solo continue domande».

Un ottimizzatore di sentimenti ed emozione, Vecchioni si è autodefinito così: contro stereotipi, fantasticherie, insomma, promotore di un lavoro che sarà sì fatto di cose eteree come le emozioni, ma è faticoso, mai banale: «se continui a fare la stessa cosa, non fai crescere te stesso: devi allargare. Oggi manca un’apertura al tentare. Se ti addormenti sul divano e guardi le serie americane, non è cultura. Prima, magari, inizi a uscire a vedere che esiste il mondo, magari poi vai al cinema e scopri che c’è gente, c’è la vita».

Eccoci, torniamo alla cena: c’è la vita al mio tavolo, che dà le spalle al prof. E a dire il vero c’è pieno di prof a questi tavoli di persone che ancora non conosco, e con cui sono chiamata a passare una serata, accomunata dalla presenza speciale del cantautore, piccoletto, il viso rugoso e gli occhi saggi nascosti sotto due pieghe espressive, un maglione verde scuro, ampio, e un inseparabile bodyguard che ci ha impedito di fare le foto. Vecchioni nel mio ricordo di qualche sera fa è questa figura, che sa di sigaro toscano e quando rientra dalla pausa fumo arriva al nostro tavolo e abbraccia me e una prof conosciuta un’ora prima, ridendo con quel suo viso inconfondibile. Vecchioni mi ha abbracciata al tavolo con sconosciuti: penso sia un ricordo bellissimo. Perché non ne ho nessuna prova, perché ero in mezzo a persone nuove che ho conosciuto con piacere e con cui ho trovato molti argomenti di discussione, e dettagli, visioni, soprattutto storie. Al tavolo di Cervo affacciato sul mare c’è stata Roma, il liceo, gli esami di maturità, la pasta madre con cui fare il pane. Poco Vecchioni, molta vita.

Che sembrerà strano, ma va bene così: «la vita è un fuoco d’artificio – aveva detto prima Vecchioni – se non esplode, devi farlo andare perché si vedano tutte le luci». Io qualche luce, nel buio di Cervo una sera di gennaio, l’ho afferrata: quella della coda di persone assiepate fuori dall’oratorio, quella del bellissimo spirito di condivisione, di squadra, quella di gente che crede nella cultura e nonostante tutto realizza cose, e ci mette la faccia. E quella, bellissima, degli incontri inaspettati e delle situazioni che non avevi previsto e accadono. E va tutto bene lo stesso. Non solo: ti arricchisce. «Nella vita non si vince, non si perde – Vecchioni dixit – si combatte, e anche quando la felicità a volte si maschera da dolore, non è dolore».

Sì, sono stata a cena con Vecchioni, ma con Vecchioni non ho parlato. Gli avrei forse raccontato che a Sogna ragazzo ho legato un ricordo molto intenso che riassume tutto quel che ha raccontato sul procedere senza sosta, sul farsi domande, riconoscere la felicità e saperla viva anche se non è sempre così visibile. Sulla poesia, sulla bellezza, sull’importanza delle persone, sui sogni che non si sopiscono nonostante mille difficoltà. Vecchioni mi ha sfiorata all’Università di Torino, e ancora l’ho sfiorato io l’altra sera, ma credo importi poco: certi incontri innescano processi e pensieri anche se le persone non si toccano direttamente. Basta sfiorarsi. Se questo accade nella meraviglia di Cervo, poi, resterà ancora più indelebile.

«Non fatevi ingannare dalle punte di felicità, sono come l’andare per mare: le onde possono calare, intensificarsi, ma sempre respiriamo questo iodio che è la vita, e stare sul mare, con lo iodio, è già di per sé una felicità. Se poi arriva la burrasca, ce la prendiamo: sarebbe ridicolo non saper prendere le onde, come del resto non accettare la bonaccia. La felicità io la voglio dentro come una febbre: se mi fa stare bene non mi accontenta, deve farmi sempre venire voglia di altra felicità».

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!